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2018-07-11
«L’euro? Altri potrebbero decidere per noi»
Ansa
«Mi dicono: "Tu vuoi uscire dall'euro"? Badate che potremmo trovarci in situazioni in cui sono altri a decidere. La mia posizione è essere pronti a ogni evenienza». Il famigerato «piano B» di Paolo Savona è tutto qui, e assomiglia molto a una pura dichiarazione di buon senso istituzionale. «In Banca d'Italia mi hanno insegnato», prosegue il ministro per gli Affari europei davanti alle Commissioni Ue di Camera e Senato, «a essere pronti non ad affrontare la normalità ma il “cigno nero", lo choc straordinario». Le parole di Savona non sono ambigue, e anche per questo, ieri, lo staff del ministro è rimasto stupito quando è ripartito, su diversi siti di informazione, il tam tam di titolazioni allusive alla volontà di Savona di uscire dalla moneta unica unilateralmente: atto, peraltro, non compreso nel contratto di governo. La relazione del professore, mancato ministro del Tesoro a causa dell'esplicito veto del Quirinale proprio per le posizioni sulla moneta unica, mostra come il pensiero di Savona da un lato non sia affatto cambiato rispetto a fine maggio, e dall'altro come esso si richiami alla migliore e più consolidata teoria economica internazionale. «Dal momento che sono stato delegittimato dai media, ho cercato legittimazione democratica», ha scandito.
La disfunzionalità dell'unione monetaria, descritta con dovizia dagli economisti ancor prima della sua entrata in vigore, mostra oggi la corda, sembra spiegare Savona, soprattutto perché le «riforme» tanto invocate hanno significato fin qui politiche dal lato dell'offerta a scapito di interventi di stimolo alla domanda aggregata in grado di correggere i «difetti strutturali» dell'architettura dell'eurozona. E dunque, spiega ai membri della commissione, l'euro è a rischio non perché qualche esponente politico italiano o straniero si agiti particolarmente, ma perché mancano politiche di stabilità e crescita capaci di garantire benessere economico e sociale ai Paesi membri, assicurando così il necessario consenso alle istituzioni europee e ai singoli governi, come si conviene a una «casa comune».
Che fare? Savona elenca tre esempi. Primo: dotare la Bce di «pieni poteri sul cambio»; secondo, rendere l'Eurotower «prestatore di ultima istanza», cioè garante dei titoli del debito sovrano (senza questo, i debiti stessi restano oggetto di attacchi speculativi indipendenti dai fondamentali economici del Paese, amplificando squilibri e asimmetrie); terzo, keynesiamente, fare investimenti.
Qui Savona mostra astuzia dialettica, dipingendo l'azione comunitaria del governo Conte come autenticamente europea («Sono europeo, non europeista, e sono trattativista e non sovranista», chiosa il ministro): «Questa politica (di investimenti, ndr) si è scontrata con l'assenza di mezzi finanziari autonomi dell'Ue, ma soprattutto con il rifiuto di conciliare le riforme richieste - la politica dell'offerta - e l'indispensabile politica di stimolo della crescita del reddito e dell'occupazione -la politica della domanda -, finendo con il far dominare la seconda dalla prima». Così, spiega, «la preoccupazione del mercato è che la spesa relativa causi un aumento del disavanzo di bilancio e del rapporto tra debito pubblico e Pil usati come indicatori di solvibilità. Giusto o sbagliato che sia, la politica del governo ne deve tenere conto». Savona conferma così che a finanziare investimenti e programma di governo sarà nuovo deficit, e non nasconde che la scelta può produrre turbamenti sui mercati e sullo spread. Dunque? «L'ideale sarebbe che fosse l'Ue a chiedere di fare la politica indicata, delimitata nei tempi e nelle dimensioni, il che non equivarrebbe alla consueta richiesta di “flessibilità" di bilancio. L'Ue avrebbe interesse a farlo se si intende riproporre come un'alleanza tra stati favorevole al progresso economico e sociale, e non solo a un accordo per la stabilità monetaria e finanziaria da imporre ai Paesi in difficoltà, che non genera sufficiente crescita». Come dire: o l'Europa è capace di fare questo, o non è Europa.
Il primo nodo, Savona lo ripete alle Commissioni, è la Bce, e non a caso fa sapere di avere chiesto udienza a Mario Draghi. Poi tocca agli investimenti, e qui viene la parte più politicamente cruciale: «Per raggiungere questo risultato occorre uscire dai vincoli finanziari del bilancio europeo che non generano spinte autopropulsive e ricorrere a meccanismi capaci di imprimere una spinta esogena alla domanda, ricorrendo ai finanziamenti della Banca europea degli investimenti come esplicitamente previsto dagli accordi di Maastricht».
Le «idee chiare» di cui aveva parlato il vicepremier Matteo Salvini alla Verità sono dunque queste, e Savona le chiarisce ulteriormente: «L'esecutivo deve realizzare i provvedimenti promessi: reddito di cittadinanza, flat tax, Fornero: non è vero che l'Italia vive al di sopra delle sue risorse. Viviamo al di sotto, perché esistono i vincoli europei».
Così, nel giorno in cui il presidente dell'Abi Antonio Patuelli dipinge un'Italia che potrebbe finire nei «gorghi di un nazionalismo mediterraneo molto simile a quelli sudamericani» (sic) e il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ammette che il Paese è «più fragile di dieci anni fa» - malgrado le «riforme» - Savona indica una strada che ha più i toni della ragionevolezza quasi ovvia (eppure mai percorsa dagli ultimi governi) che quelli del tavolo da ribaltare, tanto che perfino dal Pd arrivano timidi plausi. Resta un problema: e se su statuto della Bce, investimenti e vincoli ci dicono di no? Ecco, è in casi del genere che può tornare utile avere nel cassetto un «piano B».
Martino Cervo
Martino Cervo
Il capo dei banchieri ci inchioda all'Ue: «Altrimenti si finisce come l’Argentina»
Per l'Italia occorre «partecipare maggiormente all'Unione europea», altrimenti il nostro Paese «potrebbe finire nei gorghi di un nazionalismo mediterraneo molto simile a quelli sudamericani». È il monito lanciato da Antonio Patuelli nel corso dell'Assemblea annuale dell'Associazione bancaria italiana svoltasi ieri a Roma. Al termine dell'evento, Patuelli è stato confermato all'unanimità nell'incarico di presidente dell'Abi per il biennio 2018-2020.
Un discorso poco tecnico e molto politico, a volte quasi confusionario, quello pronunciato dal sessantasettenne imprenditore italiano convertitosi al mondo della politica bancaria. Ma soprattutto condito da una forte dose di allarmismo, specie nel paragone choc tra la crisi argentina e i pericoli a cui rischia di andare incontro il nostro Paese se non decide di viaggiare sui giusti (a suo dire) binari. «Questa primavera, in Argentina, il tasso di sconto ha perfino raggiunto il 40%», ha ammonito Patuelli, aggiungendo che «con la lira italiana, negli anni Ottanta, il tasso di sconto fu anche del 19%».
Un dardo velenoso nei confronti di chi, anche in ambito governativo, è convinto che la soluzione ai problemi dell'Italia stia nell'allentamento dei legami con l'Europa o, addirittura, nell'uscita dalla moneta unica. Per uno strano caso del destino, quasi in contemporanea con la sua relazione, il ministro per gli Affari europei Paolo Savona, in audizione alle commissioni riunite di Camera e Senato, affermava che anche se «l'Italia non intende uscire dall'euro e intende rispettare gli impegni fiscali», si rende comunque «necessario essere pronti a ogni evento, anche all'uscita dall'euro».
Il presidente dell'Abi ha quindi citato il programma del governo tedesco, sostenendo che «l'Europa combina integrazione economica e prosperità con libertà, democrazia e giustizia sociale. Un'Europa forte e unita», ha proseguito «è la migliore garanzia per un futuro di pace, libertà e prosperità. L'Unione ha bisogno di un rinnovamento e di un nuovo inizio: vogliamo un'Europa della democrazia e della solidarietà. Vogliamo approfondire la coesione europea sulla base dei valori democratici e costituzionali a tutti i livelli e rafforzare il principio della solidarietà reciproca». Non è mancato un riferimento al presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, che con la sua azione «ha garantito assai bassi tassi che, penalizzando le banche, hanno favorito la ripresa e salvato la Repubblica nella gestione del debito pubblico il cui peso, altrimenti, sarebbe caduto fiscalmente drammaticamente (sic!) sulle imprese e sulle famiglie italiane». Patuelli ha quindi auspicato una nuova spinta per l'unione bancaria, con testi e regole uguali per tutti i paesi membri.
Ma non è solo la mancata coesione europea a turbare i sogni del presidente dell'Abi. Un pensiero va al debito pubblico (va ridotto «per diminuire la pressione fiscale») e all'immancabile spread, ogni aumento del quale «impatta su Stato, banche, imprese e famiglie, rallentando la ripresa». Se la minaccia di finire in bancarotta e l'ennesimo richiamo al rispetto dei conti pubblici non fossero sufficienti, è quando si parla di banche che Patuelli dà il meglio di sé. Sono proprio gli istituti di credito infatti ad aver «sostenuto il peso maggiore della crisi», rimanendo «compresse dalla crisi, da tassi infimi e da norme in continuo mutamento, talvolta anche da eccessi di burocratizzazione che non servono all'Europa». Nessun cenno alla crisi occupazionale o all'aumento della povertà, ci mancherebbe. Il pensiero, semmai, è rivolto ai «circa 12 miliardi per i salvataggi e per nuovi fondi europei e nazionali e di garanzia» e ai «grandi sforzi e progressi» nella riduzione delle sofferenze e dei crediti deteriorati.
Chiaroscuri anche dalla relazione del governatore di Banca d'Italia, Ignazio Visco, intervenuto a margine dell'assemblea. Anche se il nostro Paese «è in grado di fronteggiare i graduali cambiamenti nel tono della politica monetaria», ha affermato Visco, «il conseguimento di un tasso di crescita soddisfacente e stabile è però ostacolato dalla dinamica ancora troppo debole della produttività, dalle inefficienze e dalle rigidità del contesto in cui operano le imprese e dall'elevata incidenza del debito pubblico sul prodotto». Negativo il ministro dell'Economia, Giovanni Tria, che ha paventato un rischio al ribasso nelle stime della crescita del Pil.
Gianluca De Maio
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Paolo Savona parla alle commissioni Ue del Parlamento: «Vogliamo un'Europa più forte ed equa, la Bce deve garantire i titoli del debito e servono investimenti senza gli attuali vincoli. Nessuno vuole uscire, ma mi hanno insegnato a essere pronto a tutto». Antonio Patuelli, numero uno dell'Abi, punta il dito sul nazionalismo: «Con meno partecipazione all'Unione, scenari da Sudamerica». Lo speciale contiene due articoli «Mi dicono: "Tu vuoi uscire dall'euro"? Badate che potremmo trovarci in situazioni in cui sono altri a decidere. La mia posizione è essere pronti a ogni evenienza». Il famigerato «piano B» di Paolo Savona è tutto qui, e assomiglia molto a una pura dichiarazione di buon senso istituzionale. «In Banca d'Italia mi hanno insegnato», prosegue il ministro per gli Affari europei davanti alle Commissioni Ue di Camera e Senato, «a essere pronti non ad affrontare la normalità ma il “cigno nero", lo choc straordinario». Le parole di Savona non sono ambigue, e anche per questo, ieri, lo staff del ministro è rimasto stupito quando è ripartito, su diversi siti di informazione, il tam tam di titolazioni allusive alla volontà di Savona di uscire dalla moneta unica unilateralmente: atto, peraltro, non compreso nel contratto di governo. La relazione del professore, mancato ministro del Tesoro a causa dell'esplicito veto del Quirinale proprio per le posizioni sulla moneta unica, mostra come il pensiero di Savona da un lato non sia affatto cambiato rispetto a fine maggio, e dall'altro come esso si richiami alla migliore e più consolidata teoria economica internazionale. «Dal momento che sono stato delegittimato dai media, ho cercato legittimazione democratica», ha scandito. La disfunzionalità dell'unione monetaria, descritta con dovizia dagli economisti ancor prima della sua entrata in vigore, mostra oggi la corda, sembra spiegare Savona, soprattutto perché le «riforme» tanto invocate hanno significato fin qui politiche dal lato dell'offerta a scapito di interventi di stimolo alla domanda aggregata in grado di correggere i «difetti strutturali» dell'architettura dell'eurozona. E dunque, spiega ai membri della commissione, l'euro è a rischio non perché qualche esponente politico italiano o straniero si agiti particolarmente, ma perché mancano politiche di stabilità e crescita capaci di garantire benessere economico e sociale ai Paesi membri, assicurando così il necessario consenso alle istituzioni europee e ai singoli governi, come si conviene a una «casa comune». Che fare? Savona elenca tre esempi. Primo: dotare la Bce di «pieni poteri sul cambio»; secondo, rendere l'Eurotower «prestatore di ultima istanza», cioè garante dei titoli del debito sovrano (senza questo, i debiti stessi restano oggetto di attacchi speculativi indipendenti dai fondamentali economici del Paese, amplificando squilibri e asimmetrie); terzo, keynesiamente, fare investimenti. Qui Savona mostra astuzia dialettica, dipingendo l'azione comunitaria del governo Conte come autenticamente europea («Sono europeo, non europeista, e sono trattativista e non sovranista», chiosa il ministro): «Questa politica (di investimenti, ndr) si è scontrata con l'assenza di mezzi finanziari autonomi dell'Ue, ma soprattutto con il rifiuto di conciliare le riforme richieste - la politica dell'offerta - e l'indispensabile politica di stimolo della crescita del reddito e dell'occupazione -la politica della domanda -, finendo con il far dominare la seconda dalla prima». Così, spiega, «la preoccupazione del mercato è che la spesa relativa causi un aumento del disavanzo di bilancio e del rapporto tra debito pubblico e Pil usati come indicatori di solvibilità. Giusto o sbagliato che sia, la politica del governo ne deve tenere conto». Savona conferma così che a finanziare investimenti e programma di governo sarà nuovo deficit, e non nasconde che la scelta può produrre turbamenti sui mercati e sullo spread. Dunque? «L'ideale sarebbe che fosse l'Ue a chiedere di fare la politica indicata, delimitata nei tempi e nelle dimensioni, il che non equivarrebbe alla consueta richiesta di “flessibilità" di bilancio. L'Ue avrebbe interesse a farlo se si intende riproporre come un'alleanza tra stati favorevole al progresso economico e sociale, e non solo a un accordo per la stabilità monetaria e finanziaria da imporre ai Paesi in difficoltà, che non genera sufficiente crescita». Come dire: o l'Europa è capace di fare questo, o non è Europa. Il primo nodo, Savona lo ripete alle Commissioni, è la Bce, e non a caso fa sapere di avere chiesto udienza a Mario Draghi. Poi tocca agli investimenti, e qui viene la parte più politicamente cruciale: «Per raggiungere questo risultato occorre uscire dai vincoli finanziari del bilancio europeo che non generano spinte autopropulsive e ricorrere a meccanismi capaci di imprimere una spinta esogena alla domanda, ricorrendo ai finanziamenti della Banca europea degli investimenti come esplicitamente previsto dagli accordi di Maastricht». Le «idee chiare» di cui aveva parlato il vicepremier Matteo Salvini alla Verità sono dunque queste, e Savona le chiarisce ulteriormente: «L'esecutivo deve realizzare i provvedimenti promessi: reddito di cittadinanza, flat tax, Fornero: non è vero che l'Italia vive al di sopra delle sue risorse. Viviamo al di sotto, perché esistono i vincoli europei». Così, nel giorno in cui il presidente dell'Abi Antonio Patuelli dipinge un'Italia che potrebbe finire nei «gorghi di un nazionalismo mediterraneo molto simile a quelli sudamericani» (sic) e il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ammette che il Paese è «più fragile di dieci anni fa» - malgrado le «riforme» - Savona indica una strada che ha più i toni della ragionevolezza quasi ovvia (eppure mai percorsa dagli ultimi governi) che quelli del tavolo da ribaltare, tanto che perfino dal Pd arrivano timidi plausi. Resta un problema: e se su statuto della Bce, investimenti e vincoli ci dicono di no? Ecco, è in casi del genere che può tornare utile avere nel cassetto un «piano B». Martino Cervo Martino Cervo <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/piano-b-di-savona-patuelli-2585522291.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-capo-dei-banchieri-ci-inchioda-allue-altrimenti-si-finisce-come-largentina" data-post-id="2585522291" data-published-at="1765393889" data-use-pagination="False"> Il capo dei banchieri ci inchioda all'Ue: «Altrimenti si finisce come l’Argentina» Per l'Italia occorre «partecipare maggiormente all'Unione europea», altrimenti il nostro Paese «potrebbe finire nei gorghi di un nazionalismo mediterraneo molto simile a quelli sudamericani». È il monito lanciato da Antonio Patuelli nel corso dell'Assemblea annuale dell'Associazione bancaria italiana svoltasi ieri a Roma. Al termine dell'evento, Patuelli è stato confermato all'unanimità nell'incarico di presidente dell'Abi per il biennio 2018-2020. Un discorso poco tecnico e molto politico, a volte quasi confusionario, quello pronunciato dal sessantasettenne imprenditore italiano convertitosi al mondo della politica bancaria. Ma soprattutto condito da una forte dose di allarmismo, specie nel paragone choc tra la crisi argentina e i pericoli a cui rischia di andare incontro il nostro Paese se non decide di viaggiare sui giusti (a suo dire) binari. «Questa primavera, in Argentina, il tasso di sconto ha perfino raggiunto il 40%», ha ammonito Patuelli, aggiungendo che «con la lira italiana, negli anni Ottanta, il tasso di sconto fu anche del 19%». Un dardo velenoso nei confronti di chi, anche in ambito governativo, è convinto che la soluzione ai problemi dell'Italia stia nell'allentamento dei legami con l'Europa o, addirittura, nell'uscita dalla moneta unica. Per uno strano caso del destino, quasi in contemporanea con la sua relazione, il ministro per gli Affari europei Paolo Savona, in audizione alle commissioni riunite di Camera e Senato, affermava che anche se «l'Italia non intende uscire dall'euro e intende rispettare gli impegni fiscali», si rende comunque «necessario essere pronti a ogni evento, anche all'uscita dall'euro». Il presidente dell'Abi ha quindi citato il programma del governo tedesco, sostenendo che «l'Europa combina integrazione economica e prosperità con libertà, democrazia e giustizia sociale. Un'Europa forte e unita», ha proseguito «è la migliore garanzia per un futuro di pace, libertà e prosperità. L'Unione ha bisogno di un rinnovamento e di un nuovo inizio: vogliamo un'Europa della democrazia e della solidarietà. Vogliamo approfondire la coesione europea sulla base dei valori democratici e costituzionali a tutti i livelli e rafforzare il principio della solidarietà reciproca». Non è mancato un riferimento al presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, che con la sua azione «ha garantito assai bassi tassi che, penalizzando le banche, hanno favorito la ripresa e salvato la Repubblica nella gestione del debito pubblico il cui peso, altrimenti, sarebbe caduto fiscalmente drammaticamente (sic!) sulle imprese e sulle famiglie italiane». Patuelli ha quindi auspicato una nuova spinta per l'unione bancaria, con testi e regole uguali per tutti i paesi membri. Ma non è solo la mancata coesione europea a turbare i sogni del presidente dell'Abi. Un pensiero va al debito pubblico (va ridotto «per diminuire la pressione fiscale») e all'immancabile spread, ogni aumento del quale «impatta su Stato, banche, imprese e famiglie, rallentando la ripresa». Se la minaccia di finire in bancarotta e l'ennesimo richiamo al rispetto dei conti pubblici non fossero sufficienti, è quando si parla di banche che Patuelli dà il meglio di sé. Sono proprio gli istituti di credito infatti ad aver «sostenuto il peso maggiore della crisi», rimanendo «compresse dalla crisi, da tassi infimi e da norme in continuo mutamento, talvolta anche da eccessi di burocratizzazione che non servono all'Europa». Nessun cenno alla crisi occupazionale o all'aumento della povertà, ci mancherebbe. Il pensiero, semmai, è rivolto ai «circa 12 miliardi per i salvataggi e per nuovi fondi europei e nazionali e di garanzia» e ai «grandi sforzi e progressi» nella riduzione delle sofferenze e dei crediti deteriorati. Chiaroscuri anche dalla relazione del governatore di Banca d'Italia, Ignazio Visco, intervenuto a margine dell'assemblea. Anche se il nostro Paese «è in grado di fronteggiare i graduali cambiamenti nel tono della politica monetaria», ha affermato Visco, «il conseguimento di un tasso di crescita soddisfacente e stabile è però ostacolato dalla dinamica ancora troppo debole della produttività, dalle inefficienze e dalle rigidità del contesto in cui operano le imprese e dall'elevata incidenza del debito pubblico sul prodotto». Negativo il ministro dell'Economia, Giovanni Tria, che ha paventato un rischio al ribasso nelle stime della crescita del Pil. Gianluca De Maio
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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