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2019-04-16
Trump protegge Big pharma Usa e dichiara guerra alle medicine indiane
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Ansa
Washington «intende estinguere le designazioni dell'India e della Turchia come paesi in via di sviluppo beneficiari nell'ambito del programma Sistema di preferenze generalizzate (Spg) perché non rispettano più i criteri di ammissibilità statutari», ha dichiarato l'Ufficio del rappresentante commerciale degli Stati Uniti. In particolare, secondo la Casa Bianca, Nuova Delhi non avrebbe «assicurato agli Stati Uniti un accesso equo e ragionevole ai suoi mercati». La mossa potrebbe produrre delle conseguenze non poco rilevanti: si pensi solo che nel 2017 - attraverso questo sistema preferenziale - l'India ha esportato beni per 5,7 miliardi di dollari senza dazi.
Insomma, le relazioni tra Stati Uniti e India sembrano essere entrate in una fase piuttosto turbolenta. Del resto, i rapporti tra le due nazioni non sono mai risultati scevri da una certa ambiguità. E le tensioni non sono mancate. A partire dal settore farmaceutico. Non solo infatti Nuova Delhi è profondamente specializzata nella produzione di farmaci generici. Ma, in passato, hanno avuto luogo svariati episodi di attrito proprio con Washington che ha spesso accusato l'India di danneggiare l'America sul fronte della proprietà intellettuale. In questo senso, già nel 1992, l'amministrazione di George Herbert Walker Bush prese dei provvedimenti per limitare i benefici goduti da Nuova Delhi nell'export legato al settore chimico e farmaceutico. L'India adeguò nel 2005 la propria legislazione sui brevetti ai criteri stabiliti dalla Wto, pur mantenendo determinate eccezioni: in particolare Nuova Delhi decretò che soltanto i farmaci effettivamente nuovi dovessero essere messi sotto brevetto, onde evitare che le case farmaceutiche allungassero il diritto di sfruttamento attraverso leggere modifiche del medicinale.
Questo accordo, per quanto non eliminasse tutte le ragioni di attrito con gli Stati Uniti, venne usato dall'establishment di Washington come mezzo per rinsaldare le relazioni con l'India. Le alte sfere della politica americana hanno sempre considerato Nuova Delhi come un imprescindibile alleato internazionale. E questo essenzialmente per due ragioni. In primis, tale vicinanza ha consentito agli Stati Uniti di sottrarre alla Cina la pretesa di presentarsi come capofila esclusivo dei Paesi emergenti (soprattutto in funzione antiamericana). In secondo luogo, ci sono da tempo in ballo anche questioni di collaborazione nel settore militare e nucleare. In particolare, nel 2008 è stato siglato l'India–United States civil nuclear agreement, un trattato bilaterale finalizzato alla cooperazione nucleare per scopi civili. Senza poi dimenticare che, a partire dal 2002, siano state firmate una serie di intese militari tra i due Paesi: intese con il principale obiettivo di incrementare la condivisione di informazioni di intelligence.
Ciononostante la simpatia mostrata dall'establishment di Washington verso Nuova Delhi non ha impedito il risorgere di un certo malcontento da parte della grande industria farmaceutica americana. Dal momento che - rispetto ai Paesi sviluppati - i costi operativi, di produzione e di manodopera indiani possono essere inferiori del 70%, i principali produttori di farmaci generici come Lupin, Mylan e Sun pharmaceuticals sono diventati leader di mercato a livello mondiale grazie alla loro presenza in India. Nel 2018, l'India ha rappresentato quasi il 40% di tutti i farmaci generici approvati dalla Food and drug administration ed è stata il principale esportatore al mondo in questo settore. Gli Stati Uniti risultano, del resto, il partner commerciale più importante dell'India in materia di farmaci generici, importando circa un quarto dell'export indiano nel comparto. Eppure, la Fda ha col tempo iniziato a mettere sotto i riflettori questa situazione, concentrandosi su alcuni problemi specifici: dalle controverse pratiche commerciali dell'India alla qualità dei suoi medicinali. Più in generale - questa è la posizione degli Stati Uniti - mentre l'industria farmaceutica americana si concentrerebbe maggiormente sull'innovazione, quella indiana mirerebbe invece principalmente ad aumentare le proprie quote di mercato nel settore dei medicinali generici. Strategia che porterebbe Nuova Delhi ad adottare pratiche commerciali scorrette e a violare le normative in termini di proprietà intellettuale. Dall'altra parte, i sostenitori dell'India ribattono, difendendo la produzione di medicinali a basso costo e criticando lo strapotere delle grandi ditte farmaceutiche (americane e non).
Come che sia, questa situazione rischia adesso di produrre delle pesanti ripercussioni non solo nelle relazioni tra Stati Uniti e India ma anche in seno alla stessa politica interna americana. Si potrebbe, in altre parole, aprire l'ennesimo fronte di scontro tra l'establishment di Washington e lo stesso Donald Trump. Se il primo mira ancora oggi a un approccio conciliante e collaborativo verso Nuova Delhi nel settore militare, il secondo sembrerebbe maggiormente puntare alla difesa dell'industria statunitense. Senza poi dimenticare le dinamiche elettorali. Non bisogna infatti trascurare come recenti sondaggi abbiano mostrato che - tra la base repubblicana - non si nutra particolare fiducia verso l'India. Il tutto viene poi a legarsi al progressivo scetticismo che si sta diffondendo in America verso i trattati internazionali di libero scambio. Insomma, i recenti attriti commerciali tra la Casa Bianca e Nuova Delhi potrebbero inserirsi nel più complicato quadro degli attriti attinenti al campo chimico-farmaceutico. Un elemento che potrebbe spingere Trump non solo a rinverdire il suo classico messaggio protezionista ma anche a riprendere la propria battaglia contro le alte sfere dell'establishment statunitense. Sotto questo aspetto, bisognerà capire quale posizione sceglierà di adottare il Congresso americano: se da una parte le ispezioni della Fda hanno recentemente riscosso un'approvazione bipartisan, dall'altra alcuni senatori statunitensi hanno criticato Trump per lo schiaffo commerciale a Nuova Delhi del mese scorso. E - con la campagna elettorale del 2020 alle porte - il quadro sarà probabilmente destinato a ingarbugliarsi.
Gli Stati Uniti detengono da soli oltre il 45% del mercato farmaceutico mondiale: nel 2016, tale quota è stata valutata intorno ai 446 miliardi di dollari. In questo quadro, quasi 60 miliardi di dollari vengono spesi ogni anno in ricerca e sviluppo nel settore. I costi per lo sviluppo di un nuovo farmaco sono aumentati drasticamente negli ultimi decenni: da meno di 200 milioni di dollari negli anni Settanta fino a oltre 2,6 miliardi al giorno d'oggi. Nel 2017 il Nord America ha rappresentato il 48,1% di vendite farmaceutiche mondiali rispetto al 22,2% dell'Europa. Secondo dati Iqvia, il 64,1% delle vendite di nuovi farmaci lanciati nel periodo 2012-2017 sarebbe avvenuto sul mercato statunitense, rispetto al 18,1% del mercato europeo. Stando a quanto riportato da Reuters, un recente studio ha dimostrato che gli investimenti in marketing farmaceutico sarebbero passati da 15,6 miliardi di dollari a 20,3 miliardi: elemento che ha suscitato qualche polemica. Soprattutto negli ultimi mesi, il dibattito politico americano si è concentrato sul fatto che la grande industria farmaceutica stia continuando a tenere alti i prezzi di listino dei medicinali da prescrizione. L'amministrazione Trump in questo senso ha assunto un atteggiamento critico verso le grandi aziende del comparto farmaceutico statunitense. Il dipartimento di Giustizia sta indagando sui sovrapprezzi imposti dalle compagnie farmaceutiche, sospettando la possibilità di pratiche anticoncorrenziali da parte loro. Tutto questo, mentre il dipartimento della Salute si è più volte espresso negli ultimi mesi contro questa situazione, proibendo anche quelle clausole che impedivano alle farmacie di rendere nota ai pazienti la possibilità di ricorrere a medicinali meno costosi. Inoltre, nel 2018, la Casa Bianca ha proposto l'introduzione di una norma che allinei il prezzo di alcuni farmaci a quello degli altri Paesi. Del resto, trattandosi di una questione molto avvertita dall'elettorato, lo stesso Congresso si colloca sostanzialmente su questa linea in modo bipartisan. In un simile contesto, lo scorso gennaio, il senatore socialista del Vermont, Bernie Sanders, ha per esempio avanzato una proposta di legge che ridurrebbe i costi di un elevato numero di medicinali.
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I rapporti tra Stati Uniti e India sembrano farsi tesi. Il mese scorso il presidente americano si è detto pronto ad aprire un nuovo fronte di scontro, affermando di voler porre fine al trattamento commerciale preferenziale per Nuova Delhi. Washington «intende estinguere le designazioni dell'India e della Turchia come paesi in via di sviluppo beneficiari nell'ambito del programma Sistema di preferenze generalizzate (Spg) perché non rispettano più i criteri di ammissibilità statutari», ha dichiarato l'Ufficio del rappresentante commerciale degli Stati Uniti. In particolare, secondo la Casa Bianca, Nuova Delhi non avrebbe «assicurato agli Stati Uniti un accesso equo e ragionevole ai suoi mercati». La mossa potrebbe produrre delle conseguenze non poco rilevanti: si pensi solo che nel 2017 - attraverso questo sistema preferenziale - l'India ha esportato beni per 5,7 miliardi di dollari senza dazi.Insomma, le relazioni tra Stati Uniti e India sembrano essere entrate in una fase piuttosto turbolenta. Del resto, i rapporti tra le due nazioni non sono mai risultati scevri da una certa ambiguità. E le tensioni non sono mancate. A partire dal settore farmaceutico. Non solo infatti Nuova Delhi è profondamente specializzata nella produzione di farmaci generici. Ma, in passato, hanno avuto luogo svariati episodi di attrito proprio con Washington che ha spesso accusato l'India di danneggiare l'America sul fronte della proprietà intellettuale. In questo senso, già nel 1992, l'amministrazione di George Herbert Walker Bush prese dei provvedimenti per limitare i benefici goduti da Nuova Delhi nell'export legato al settore chimico e farmaceutico. L'India adeguò nel 2005 la propria legislazione sui brevetti ai criteri stabiliti dalla Wto, pur mantenendo determinate eccezioni: in particolare Nuova Delhi decretò che soltanto i farmaci effettivamente nuovi dovessero essere messi sotto brevetto, onde evitare che le case farmaceutiche allungassero il diritto di sfruttamento attraverso leggere modifiche del medicinale.Questo accordo, per quanto non eliminasse tutte le ragioni di attrito con gli Stati Uniti, venne usato dall'establishment di Washington come mezzo per rinsaldare le relazioni con l'India. Le alte sfere della politica americana hanno sempre considerato Nuova Delhi come un imprescindibile alleato internazionale. E questo essenzialmente per due ragioni. In primis, tale vicinanza ha consentito agli Stati Uniti di sottrarre alla Cina la pretesa di presentarsi come capofila esclusivo dei Paesi emergenti (soprattutto in funzione antiamericana). In secondo luogo, ci sono da tempo in ballo anche questioni di collaborazione nel settore militare e nucleare. In particolare, nel 2008 è stato siglato l'India–United States civil nuclear agreement, un trattato bilaterale finalizzato alla cooperazione nucleare per scopi civili. Senza poi dimenticare che, a partire dal 2002, siano state firmate una serie di intese militari tra i due Paesi: intese con il principale obiettivo di incrementare la condivisione di informazioni di intelligence.Ciononostante la simpatia mostrata dall'establishment di Washington verso Nuova Delhi non ha impedito il risorgere di un certo malcontento da parte della grande industria farmaceutica americana. Dal momento che - rispetto ai Paesi sviluppati - i costi operativi, di produzione e di manodopera indiani possono essere inferiori del 70%, i principali produttori di farmaci generici come Lupin, Mylan e Sun pharmaceuticals sono diventati leader di mercato a livello mondiale grazie alla loro presenza in India. Nel 2018, l'India ha rappresentato quasi il 40% di tutti i farmaci generici approvati dalla Food and drug administration ed è stata il principale esportatore al mondo in questo settore. Gli Stati Uniti risultano, del resto, il partner commerciale più importante dell'India in materia di farmaci generici, importando circa un quarto dell'export indiano nel comparto. Eppure, la Fda ha col tempo iniziato a mettere sotto i riflettori questa situazione, concentrandosi su alcuni problemi specifici: dalle controverse pratiche commerciali dell'India alla qualità dei suoi medicinali. Più in generale - questa è la posizione degli Stati Uniti - mentre l'industria farmaceutica americana si concentrerebbe maggiormente sull'innovazione, quella indiana mirerebbe invece principalmente ad aumentare le proprie quote di mercato nel settore dei medicinali generici. Strategia che porterebbe Nuova Delhi ad adottare pratiche commerciali scorrette e a violare le normative in termini di proprietà intellettuale. Dall'altra parte, i sostenitori dell'India ribattono, difendendo la produzione di medicinali a basso costo e criticando lo strapotere delle grandi ditte farmaceutiche (americane e non).Come che sia, questa situazione rischia adesso di produrre delle pesanti ripercussioni non solo nelle relazioni tra Stati Uniti e India ma anche in seno alla stessa politica interna americana. Si potrebbe, in altre parole, aprire l'ennesimo fronte di scontro tra l'establishment di Washington e lo stesso Donald Trump. Se il primo mira ancora oggi a un approccio conciliante e collaborativo verso Nuova Delhi nel settore militare, il secondo sembrerebbe maggiormente puntare alla difesa dell'industria statunitense. Senza poi dimenticare le dinamiche elettorali. Non bisogna infatti trascurare come recenti sondaggi abbiano mostrato che - tra la base repubblicana - non si nutra particolare fiducia verso l'India. Il tutto viene poi a legarsi al progressivo scetticismo che si sta diffondendo in America verso i trattati internazionali di libero scambio. Insomma, i recenti attriti commerciali tra la Casa Bianca e Nuova Delhi potrebbero inserirsi nel più complicato quadro degli attriti attinenti al campo chimico-farmaceutico. Un elemento che potrebbe spingere Trump non solo a rinverdire il suo classico messaggio protezionista ma anche a riprendere la propria battaglia contro le alte sfere dell'establishment statunitense. Sotto questo aspetto, bisognerà capire quale posizione sceglierà di adottare il Congresso americano: se da una parte le ispezioni della Fda hanno recentemente riscosso un'approvazione bipartisan, dall'altra alcuni senatori statunitensi hanno criticato Trump per lo schiaffo commerciale a Nuova Delhi del mese scorso. E - con la campagna elettorale del 2020 alle porte - il quadro sarà probabilmente destinato a ingarbugliarsi.Gli Stati Uniti detengono da soli oltre il 45% del mercato farmaceutico mondiale: nel 2016, tale quota è stata valutata intorno ai 446 miliardi di dollari. In questo quadro, quasi 60 miliardi di dollari vengono spesi ogni anno in ricerca e sviluppo nel settore. I costi per lo sviluppo di un nuovo farmaco sono aumentati drasticamente negli ultimi decenni: da meno di 200 milioni di dollari negli anni Settanta fino a oltre 2,6 miliardi al giorno d'oggi. Nel 2017 il Nord America ha rappresentato il 48,1% di vendite farmaceutiche mondiali rispetto al 22,2% dell'Europa. Secondo dati Iqvia, il 64,1% delle vendite di nuovi farmaci lanciati nel periodo 2012-2017 sarebbe avvenuto sul mercato statunitense, rispetto al 18,1% del mercato europeo. Stando a quanto riportato da Reuters, un recente studio ha dimostrato che gli investimenti in marketing farmaceutico sarebbero passati da 15,6 miliardi di dollari a 20,3 miliardi: elemento che ha suscitato qualche polemica. Soprattutto negli ultimi mesi, il dibattito politico americano si è concentrato sul fatto che la grande industria farmaceutica stia continuando a tenere alti i prezzi di listino dei medicinali da prescrizione. L'amministrazione Trump in questo senso ha assunto un atteggiamento critico verso le grandi aziende del comparto farmaceutico statunitense. Il dipartimento di Giustizia sta indagando sui sovrapprezzi imposti dalle compagnie farmaceutiche, sospettando la possibilità di pratiche anticoncorrenziali da parte loro. Tutto questo, mentre il dipartimento della Salute si è più volte espresso negli ultimi mesi contro questa situazione, proibendo anche quelle clausole che impedivano alle farmacie di rendere nota ai pazienti la possibilità di ricorrere a medicinali meno costosi. Inoltre, nel 2018, la Casa Bianca ha proposto l'introduzione di una norma che allinei il prezzo di alcuni farmaci a quello degli altri Paesi. Del resto, trattandosi di una questione molto avvertita dall'elettorato, lo stesso Congresso si colloca sostanzialmente su questa linea in modo bipartisan. In un simile contesto, lo scorso gennaio, il senatore socialista del Vermont, Bernie Sanders, ha per esempio avanzato una proposta di legge che ridurrebbe i costi di un elevato numero di medicinali.
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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