2023-09-25
Perché si può parlare di invasione
La filosofia dominante, che dileggia la famiglia e magnifica la vita senza figli, è la stessa che chiede più migranti. Che hanno un tasso di fertilità altissimo.«Il fattore economico non basta a spiegare il crollo delle nascite». L’ex presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo: «Il clima culturale spinge i giovani a rinviare la procreazione. Finché non diventa troppo tardi». Quelli che lo dicono esplicitamente. Il cambiamento di popolo non nasce da alcun complotto segreto: anzi, spesso è un obiettivo candidamente ammesso. Dall’Onu a Scalfari fino a Erdogan. Lo speciale comprende tre articoli.Una delle giustificazioni addotte dai sostenitori della politica dell’accoglienza, a cominciare dalla sinistra, nonostante l’aumento esponenziale degli arrivi, è che l’immigrazione è indispensabile per colmare il deficit della natalità nel nostro Paese, per risolvere il problema del cosiddetto «inverno demografico». Siccome gli italiani non fanno più figli mentre nella cultura islamica (che è la predominante tra gli immigrati) sopravvive il valore della natalità, la soluzione è aprire le frontiere. In questa direzione va anche lo ius soli, altra battaglia del Pd, che spinge tante donne nel pieno della gravidanza a mettersi in mare sui barchini per dare alla luce il figlio sul nostro suolo e garantirsi così la cittadinanza. A questo tema si accompagna l’altro, sempre sottolineato a sinistra, che gli immigrati sono essenziali per pagarci le future pensioni, dimenticando che chi arriva, non avendo alte specializzazioni, viene assorbito da un mercato del lavoro con bassissime retribuzioni, la maggior parte senza il versamento dei contributi previdenziali e di alcun tipo di assistenza. Al tempo stesso i migranti usufruiscono della gratuità del sistema sanitario, del welfare e possono accedere all’edilizia residenziale pubblica.Ma secondo la politica progressista questo è un percorso inevitabile a fronte della scarsa natalità italiana. Ad arrivare a questo ha anche contribuito la stessa cultura liberal di stampo progressista che negli ultimi decenni ha smontato il valore della famiglia mettendo al centro il primato dell’individuo e creando il presupposto sociale per un processo che avrebbe come caduta finale, in modo estremo, una sorta di «sostituzione etnica» (espressione infelice ma da alcuni studiosi riconosciuta), di colonizzazione di valori da parte delle popolazioni immigrate.La difesa delle peculiarità culturali tra gli immigrati soprattutto islamici è molto forte al punto che anche alcuni magistrati sono arrivati a giustificare comportamenti al limite della legalità, proprio perché riconducibili a radicate abitudini culturali. È il caso del pm della Procura di Brescia che ha chiesto l’assoluzione per l’ex marito di una donna nata in Bangladesh ma cresciuta in Italia, che nel 2019 ha trovato il coraggio di denunciare le violenze subite dall’ex coniuge. La motivazione del pm è stata che il comportamento era «il frutto dell’impianto culturale”. Cioè il maltrattamento va giustificato perché fa parte della cultura. Inquietante ma è così. È un episodio isolato al momento ma indicativo della direzione verso cui stiamo andando. Come pure ha suscitato un dibattito acceso, la decisione del preside di una scuola di Firenze, l’Itt Marco Polo, che in occasione del Ramadan, ricorrenza annuale prevista dalla religione musulmana, ha pensato di offrire agli studenti che professano questa fede un’aula per raccogliersi in preghiera. Il capogruppo di Fratelli d’Italia in Palazzo Vecchio Alessandro Draghi, ha fatto notare che «se si sceglie la laicità della scuola, come non ci sono i crocifissi, non ci devono essere nemmeno le aule per il Ramadan». Per il preside invece la questione andava posta dal punto di vista dell’inclusione. Queste due situazioni dimostrano quanto siano profonde le radici della cultura islamica.In parallelo continua da parte del pensiero progressista la demonizzazione della famiglia e quindi del valore della natalità. Un indicatore è il libro uscito recentemente in Francia e diventato presto un successo editoriale. Il titolo, Perché ho scelto di avere un cane e non un bambino, dice tutto. L’autrice, la veterinaria quarantenne Hélène Gateau scrive senza girarci attorno: «Non ho mai voluto avere figli, preferisco dedicarmi al mio cane (un Bordier Terrier adottato dopo una separazione) e lo rivendico. Ho scelto di essere più individualista e di dare priorità al mio stile di vita, alla mia libertà». Eppure Gateau vive in un Paese, la Francia, che ha politiche molto attente e generose per incentivare la maternità. Questo a conferma che il calo delle nascite non può essere ricondotto essenzialmente a un problema di tipo economico. Se una coppia decide di non avere figli non è unicamente perché ha difficoltà di reddito. C’è anche questo tema ma non è l’unico, come dimostra la scrittrice francese. Gateau arriva a dire che da un punto di vista ormonale, biochimico e neuronale, prova verso il suo cane, qualcosa di molto simile all’attaccamento madre-bambino. E conclude sottolineando che l’animale le consente di avere una vita sociale e affettiva ricca.Ad aprile scorso il Guardian, quotidiano del pensiero democrat, ospitava un articolo dal titolo «Perché i proprietari di animali domestici sono più popolari dei genitori» di Nell Frizzell, autrice di un libro sulla maternità. Frizzell spiegava che cane e gatto «sono socialmente più accettabili dei bambini perché sono semplicemente più facili da amare». La scrittrice spiegava che i libri sulla genitorialità (incluso il suo) raccontano il lato faticoso della maternità, tra sensi di colpa, ansie e, quando va bene, autoironia. Al contrario i proprietari di cani e gatti sono assecondati e celebrati con una sorta di adorazione al punto che sono viziati in ogni modo. I padroni creano account Instagram e se hanno un comportamento giudicato insolito, sono disposti a spendere anche cifre importanti per sedute da psicologi specialisti di animali domestici. Frizzell ricorda che i cani che, sempre più di frequente, vengono portati in ufficio o presentati come «il mio bambino» senza particolare scandalo. E aggiunge che la genitorialità è un’area di interesse «di nicchia» (l’81% delle donne avrà un bambino quando raggiungerà i 45 anni), mentre gli animali domestici hanno un’«attrattiva di massa» (il 62% delle famiglie nel Regno Unito possiede un animale domestico ). «Le stesse persone che sbadigliano ai colleghi che discutono dei loro figli in ufficio spesso ti intrattengono con storie dei loro gatti seduti sulle loro spalle o cani che mangiano burro di arachidi».Se quindi, fare figli oltre ad essere un costo è faticoso e un ostacolo alla vita sociale (impedisce di andare agli aperitivi o alle feste), che se ne occupino altre società, sembra essere la conclusione. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/perche-si-puo-parlare-di-invasione-2665725191.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-fattore-economico-non-basta-a-spiegare-il-crollo-delle-nascite" data-post-id="2665725191" data-published-at="1695583209" data-use-pagination="False"> «Il fattore economico non basta a spiegare il crollo delle nascite» «La denatalità ha una molteplicità di cause. Cause materiali come la precarietà del lavoro, i bassi salari, la difficoltà ad acquistare o a prendere in affitto una casa e il costo anche dei figli. Ma oltre a queste incide, nel porre la procreazione ad un posto non di primo piano, una diversa visione della vita. Nell’universo giovanile la prospettiva di diventare genitori è presente ma non è una priorità». Gian Carlo Blangiardo, ex presente dell’Istat, è un autorevole demografo che sta seguendo con grande attenzione l’evoluzione della natalità nella popolazione «non solo italiana e europea. Sostengo che il calo demografico interessa tutto il mondo. Anche in Africa dove le famiglie numerose sono la normalità». Lo studioso mette in fila le cifre di questo inverno delle nascite. «Nel 2008 i neonati erano 577.000 e nel 2022 sono scesi a 393.000. Nei primi sei mesi di quest’anno già si registra un calo dell’1,9%, rispetto allo stesso periodo del 2022. Tutto lascia prevedere che a fine anno dovremmo prender atto dell’ennesimo record al ribasso anche se sono state attivate alcune interessanti iniziative volte a produrre una qualche inversione di tendenza». È la conseguenza della distruzione culturale del valore della famiglia? «Una volta il modello era la famiglia, oggi la priorità è di far rientrare l’investimento che è stato fatto negli anni per l’istruzione. Il discorso di creare una coppia e poi di mettere al mondo dei figli, non è rifiutato ma non è più centrale ed è spostato in avanti nel tempo. Si dice spesso: non adesso, non è questo il momento, aspettiamo e vediamo quando le condizioni sono più favorevoli. Ma questa attesa sempre più si trasforma in un accantonamento definitivo del progetto di genitorialità anche perché la coppia poi deve fare i conti con l’elemento fisiologico del calo della capacità riproduttiva con l’avanzare dell’età. Ecco quindi che il punto di caduta di tale orientamento culturale è il calo demografico». Eppure il nostro Paese ha attraversato periodi economici ben più difficili durante i quali la natalità era più alta, come lo spiega? «Rispetto al dopoguerra, dove la speranza di un futuro migliore era riposto nelle nuove generazioni e si esprimeva nelle famiglie numerose, oggi nonostante ci siano condizioni di maggior benessere, pesano alcuni fattori culturali che inducono a rinviare la formazione di una famiglia. Nel corso degli ultimi decenni abbiamo assistito a profonde trasformazioni di tipo sociale e normativo. Basti pensare a come è stato modificato il diritto di famiglia e al diverso ruolo della donna nel mercato del lavoro. Questi cambiamenti hanno generato nei giovani una diversa visione della vita, della coppia e della famiglia». Quanto ha influito la cultura liberal di sinistra e la messa in discussione del modello e della centralità della famiglia? «Non mi sbilancio in considerazioni di questo tipo. I cambiamenti li abbiamo visti tutti e dietro c’è una società che ha avuto trasformazioni da tanti punti di vista, favorite da certe visioni rispetto ad altre. Guardo il risultato». E il risultato è che i figli escono di casa per formare una famiglia sempre più tardi e talvolta non per creare una coppia. «Si calcola che per ogni 100 30-34enni già genitori ce ne siano 279 ancora nella condizione di figli che vivono nella loro famiglia originaria. Ed è una situazione che ultimamente è decisamente peggiorata: fino al 2018 il valore era nel complesso attorno a 150-200 in condizione di figli per ogni 100 già genitori». In Francia ha fatto discutere ed è un successo editoriale, il libro Perché ho scelto di avere un cane e non un bambino, nel quale l’autrice, la veterinaria Hélène Gateau dice di preferire il suo Border Terrier, a un compagno e ad una famiglia. Che ne pensa? «È il segno di una scelta di libertà che si può criticare ma è comunque una prerogativa di un individuo. Diventare genitori è una scelta. Piuttosto bisogna intervenire su ciò che ostacola chi vorrebbe diventare genitore». C’è un deficit di educazione alla famiglia? «La famiglia è riconosciuta costituzionalmente e svolge e svolgerà un ruolo fondamentale nella società. Il problema è che la famiglia si sta indebolendo e questo una società che invecchia non se lo può permettere. Una rete familiare solida è un obiettivo che va perseguito perché è nell’interesse della società». La sinistra sostiene che il problema demografico si risolve con più immigrati, è così? «L’immigrazione non è la soluzione magica a tutti i problemi e non è un contributo risolutivo al crollo delle nascite anche se nel 2022 i bambini da genitori stranieri erano 55.000 su un totale di 393.000. Anche se è una quota importante non è la soluzione a cui puntare perché non funziona. Gli stranieri nel tempo hanno ridotto la loro fecondità perché si trovano a dover far fronte agli stessi problemi dei residenti. Quando si va in un Paese con condizioni diverse, si tende a fare meno figli. Inoltre la natalità sta diminuendo in tutto il mondo». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/perche-si-puo-parlare-di-invasione-2665725191.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="quelli-che-lo-dicono-esplicitamente" data-post-id="2665725191" data-published-at="1695583209" data-use-pagination="False"> Quelli che lo dicono esplicitamente Che la sostituzione di popolo sia un complotto è solo una volgare calunnia. Quale complotto viene pubblicamente e sistematicamente ammesso dai suoi stessi protagonisti? Già, perché la volontà di rendere le società europee meno europee è del tutto trasparente in una parte importante delle élite politiche e culturali globali. Pietra miliare nella storia del sostituzionismo esplicito è senz’altro il rapporto dell’Onu del 21 marzo 2000 dal titolo Replacement Migration: Is it A Solution to Declining and Ageing Populations?. Fior di debunker vi spiegheranno che questo titolo non deve spaventare. Ancora recentemente, l’Huffington Post spiegava che nel 2000 «l’Onu non prefigurava alcuna cospirazione contro i Paesi ad alta anzianità e bassa natalità, né tanto meno augurava uno scenario in cui tali Stati puntassero sulle popolazioni meno fortunate per correggere le storture del loro sistema. Quello che piuttosto intende il report è l’opportunità - temporanea - che offre la migrazione». Ma in realtà non c’è bisogno di alcuna cospirazione: il semplice fatto che si immagini di spostare popoli sul planisfero come fossero i carri armati del Risiko è già gravissimo. Che poi tali trasferimenti di massa siano «temporanei» lo dice il giornalista, senza prove (anche perché gli stessi ambienti che propongono queste «soluzioni» spingono contestualmente formule di cittadinanza sempre più facile per i nuovi arrivati). Non contente, comunque, le Nazioni Unite, nel 2017, sono tornate sull’argomento. Nel rapporto World Population Prospects: 2017 Revision, l’Onu si preoccupava del fatto che non ci stessimo facendo sostituire abbastanza in fretta. Testualmente: «Anche se le migrazioni internazionali al livello attuale non saranno sufficienti a compensare pienamente la perdita prevista della popolazione legata ai livelli di fertilità, specialmente nella regione europea, il movimento delle persone tra i vari Paesi può contribuire ad attenuare alcune delle conseguenze negative dell’invecchiamento della popolazione». Con tali input giunti dalle massime istituzioni globali, non stupisce che i fiduciari locali colgano al volo il messaggio. Nel 2015, per esempio, un tweet del profilo ufficiale «Deputati Pd», che riprendeva una frase pronunciata dal deputato Enrico Borghi, allora presidente della commissione Ambiente e territorio, recitava: «Dati dicono immigrati si stanno integrando e sostituendo ad autoctoni nella filiera produttiva». Incredibilmente, questa cosa veniva raccontata con una certa fierezza (notare come la parola «autoctoni» suoni razzista se rivendicata in positivo, mentre diventi neutra se li si sta sostituendo). Ma c’è chi ha formulato gli stessi concetti con ancora meno peli sulla lingua. In un articolo uscito sull’Espresso nel 2017, Eugenio Scalfari se ne uscì così: «La vera politica dei Paesi europei è quindi d’essere capofila di questo movimento migratorio: ridurre le diseguaglianze, aumentare l’integrazione. Si profila come fenomeno positivo, il meticciato, la tendenza alla nascita di un popolo unico, che ha una ricchezza media, una cultura media, un sangue integrato. Questo è un futuro che dovrà realizzarsi entro due o tre generazioni e che va politicamente effettuato dall’Europa. E questo deve essere il compito della sinistra europea e in particolare di quella italiana». Chi non ha bisogno di queste esortazioni è l’esponente della sinistra francese, Jean-Luc Mélenchon. Nel 2011 criticò l’allora ministro dell’Interno, Claude Guéant, spiegando che «la sua idea di una Francia bionda dagli occhi azzurri non è mai esistita». Nel 2013 sbottò: «Non posso sopravvivere quando ci sono solo biondi con gli occhi azzurri, è al di là delle mie forze». Il 21 settembre 2020, al lancio del think tank Institut La Boétie, tenne un vero e proprio elogio della sostituzione etnica, pudicamente ribattezzata come créolisation: «Il popolo francese ha cominciato una forma di creolizzazione che è nuova nella nostra storia. Ma non bisogna averne paura, è un bene! Si va avanti, si cambia, si respira, si vive!». Infine, se servisse una conferma «dall’altra parte», si veda il discorso del presidente turco Recep Tayyip Erdogan ai connazionali in Europa, pronunciato nel 2017: «Non fate tre figli, ma cinque. Perché voi siete il futuro dell’Europa. Questa sarà la migliore risposta all’ingiustizia che vi è stata fatta». Complottista!
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