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2023-09-25
Perché si può parlare di invasione
(Ansa)
Una delle giustificazioni addotte dai sostenitori della politica dell’accoglienza, a cominciare dalla sinistra, nonostante l’aumento esponenziale degli arrivi, è che l’immigrazione è indispensabile per colmare il deficit della natalità nel nostro Paese, per risolvere il problema del cosiddetto «inverno demografico». Siccome gli italiani non fanno più figli mentre nella cultura islamica (che è la predominante tra gli immigrati) sopravvive il valore della natalità, la soluzione è aprire le frontiere. In questa direzione va anche lo ius soli, altra battaglia del Pd, che spinge tante donne nel pieno della gravidanza a mettersi in mare sui barchini per dare alla luce il figlio sul nostro suolo e garantirsi così la cittadinanza. A questo tema si accompagna l’altro, sempre sottolineato a sinistra, che gli immigrati sono essenziali per pagarci le future pensioni, dimenticando che chi arriva, non avendo alte specializzazioni, viene assorbito da un mercato del lavoro con bassissime retribuzioni, la maggior parte senza il versamento dei contributi previdenziali e di alcun tipo di assistenza. Al tempo stesso i migranti usufruiscono della gratuità del sistema sanitario, del welfare e possono accedere all’edilizia residenziale pubblica.
Ma secondo la politica progressista questo è un percorso inevitabile a fronte della scarsa natalità italiana.
Ad arrivare a questo ha anche contribuito la stessa cultura liberal di stampo progressista che negli ultimi decenni ha smontato il valore della famiglia mettendo al centro il primato dell’individuo e creando il presupposto sociale per un processo che avrebbe come caduta finale, in modo estremo, una sorta di «sostituzione etnica» (espressione infelice ma da alcuni studiosi riconosciuta), di colonizzazione di valori da parte delle popolazioni immigrate.
La difesa delle peculiarità culturali tra gli immigrati soprattutto islamici è molto forte al punto che anche alcuni magistrati sono arrivati a giustificare comportamenti al limite della legalità, proprio perché riconducibili a radicate abitudini culturali. È il caso del pm della Procura di Brescia che ha chiesto l’assoluzione per l’ex marito di una donna nata in Bangladesh ma cresciuta in Italia, che nel 2019 ha trovato il coraggio di denunciare le violenze subite dall’ex coniuge. La motivazione del pm è stata che il comportamento era «il frutto dell’impianto culturale”. Cioè il maltrattamento va giustificato perché fa parte della cultura. Inquietante ma è così. È un episodio isolato al momento ma indicativo della direzione verso cui stiamo andando.
Come pure ha suscitato un dibattito acceso, la decisione del preside di una scuola di Firenze, l’Itt Marco Polo, che in occasione del Ramadan, ricorrenza annuale prevista dalla religione musulmana, ha pensato di offrire agli studenti che professano questa fede un’aula per raccogliersi in preghiera. Il capogruppo di Fratelli d’Italia in Palazzo Vecchio Alessandro Draghi, ha fatto notare che «se si sceglie la laicità della scuola, come non ci sono i crocifissi, non ci devono essere nemmeno le aule per il Ramadan». Per il preside invece la questione andava posta dal punto di vista dell’inclusione. Queste due situazioni dimostrano quanto siano profonde le radici della cultura islamica.
In parallelo continua da parte del pensiero progressista la demonizzazione della famiglia e quindi del valore della natalità. Un indicatore è il libro uscito recentemente in Francia e diventato presto un successo editoriale. Il titolo, Perché ho scelto di avere un cane e non un bambino, dice tutto. L’autrice, la veterinaria quarantenne Hélène Gateau scrive senza girarci attorno: «Non ho mai voluto avere figli, preferisco dedicarmi al mio cane (un Bordier Terrier adottato dopo una separazione) e lo rivendico. Ho scelto di essere più individualista e di dare priorità al mio stile di vita, alla mia libertà».
Eppure Gateau vive in un Paese, la Francia, che ha politiche molto attente e generose per incentivare la maternità. Questo a conferma che il calo delle nascite non può essere ricondotto essenzialmente a un problema di tipo economico. Se una coppia decide di non avere figli non è unicamente perché ha difficoltà di reddito. C’è anche questo tema ma non è l’unico, come dimostra la scrittrice francese. Gateau arriva a dire che da un punto di vista ormonale, biochimico e neuronale, prova verso il suo cane, qualcosa di molto simile all’attaccamento madre-bambino. E conclude sottolineando che l’animale le consente di avere una vita sociale e affettiva ricca.
Ad aprile scorso il Guardian, quotidiano del pensiero democrat, ospitava un articolo dal titolo «Perché i proprietari di animali domestici sono più popolari dei genitori» di Nell Frizzell, autrice di un libro sulla maternità. Frizzell spiegava che cane e gatto «sono socialmente più accettabili dei bambini perché sono semplicemente più facili da amare». La scrittrice spiegava che i libri sulla genitorialità (incluso il suo) raccontano il lato faticoso della maternità, tra sensi di colpa, ansie e, quando va bene, autoironia. Al contrario i proprietari di cani e gatti sono assecondati e celebrati con una sorta di adorazione al punto che sono viziati in ogni modo. I padroni creano account Instagram e se hanno un comportamento giudicato insolito, sono disposti a spendere anche cifre importanti per sedute da psicologi specialisti di animali domestici. Frizzell ricorda che i cani che, sempre più di frequente, vengono portati in ufficio o presentati come «il mio bambino» senza particolare scandalo. E aggiunge che la genitorialità è un’area di interesse «di nicchia» (l’81% delle donne avrà un bambino quando raggiungerà i 45 anni), mentre gli animali domestici hanno un’«attrattiva di massa» (il 62% delle famiglie nel Regno Unito possiede un animale domestico ). «Le stesse persone che sbadigliano ai colleghi che discutono dei loro figli in ufficio spesso ti intrattengono con storie dei loro gatti seduti sulle loro spalle o cani che mangiano burro di arachidi».
Se quindi, fare figli oltre ad essere un costo è faticoso e un ostacolo alla vita sociale (impedisce di andare agli aperitivi o alle feste), che se ne occupino altre società, sembra essere la conclusione.
«Il fattore economico non basta a spiegare il crollo delle nascite»
«La denatalità ha una molteplicità di cause. Cause materiali come la precarietà del lavoro, i bassi salari, la difficoltà ad acquistare o a prendere in affitto una casa e il costo anche dei figli. Ma oltre a queste incide, nel porre la procreazione ad un posto non di primo piano, una diversa visione della vita. Nell’universo giovanile la prospettiva di diventare genitori è presente ma non è una priorità». Gian Carlo Blangiardo, ex presente dell’Istat, è un autorevole demografo che sta seguendo con grande attenzione l’evoluzione della natalità nella popolazione «non solo italiana e europea. Sostengo che il calo demografico interessa tutto il mondo. Anche in Africa dove le famiglie numerose sono la normalità». Lo studioso mette in fila le cifre di questo inverno delle nascite. «Nel 2008 i neonati erano 577.000 e nel 2022 sono scesi a 393.000. Nei primi sei mesi di quest’anno già si registra un calo dell’1,9%, rispetto allo stesso periodo del 2022. Tutto lascia prevedere che a fine anno dovremmo prender atto dell’ennesimo record al ribasso anche se sono state attivate alcune interessanti iniziative volte a produrre una qualche inversione di tendenza».
È la conseguenza della distruzione culturale del valore della famiglia?
«Una volta il modello era la famiglia, oggi la priorità è di far rientrare l’investimento che è stato fatto negli anni per l’istruzione. Il discorso di creare una coppia e poi di mettere al mondo dei figli, non è rifiutato ma non è più centrale ed è spostato in avanti nel tempo. Si dice spesso: non adesso, non è questo il momento, aspettiamo e vediamo quando le condizioni sono più favorevoli. Ma questa attesa sempre più si trasforma in un accantonamento definitivo del progetto di genitorialità anche perché la coppia poi deve fare i conti con l’elemento fisiologico del calo della capacità riproduttiva con l’avanzare dell’età. Ecco quindi che il punto di caduta di tale orientamento culturale è il calo demografico».
Eppure il nostro Paese ha attraversato periodi economici ben più difficili durante i quali la natalità era più alta, come lo spiega?
«Rispetto al dopoguerra, dove la speranza di un futuro migliore era riposto nelle nuove generazioni e si esprimeva nelle famiglie numerose, oggi nonostante ci siano condizioni di maggior benessere, pesano alcuni fattori culturali che inducono a rinviare la formazione di una famiglia. Nel corso degli ultimi decenni abbiamo assistito a profonde trasformazioni di tipo sociale e normativo. Basti pensare a come è stato modificato il diritto di famiglia e al diverso ruolo della donna nel mercato del lavoro. Questi cambiamenti hanno generato nei giovani una diversa visione della vita, della coppia e della famiglia».
Quanto ha influito la cultura liberal di sinistra e la messa in discussione del modello e della centralità della famiglia?
«Non mi sbilancio in considerazioni di questo tipo. I cambiamenti li abbiamo visti tutti e dietro c’è una società che ha avuto trasformazioni da tanti punti di vista, favorite da certe visioni rispetto ad altre. Guardo il risultato».
E il risultato è che i figli escono di casa per formare una famiglia sempre più tardi e talvolta non per creare una coppia.
«Si calcola che per ogni 100 30-34enni già genitori ce ne siano 279 ancora nella condizione di figli che vivono nella loro famiglia originaria. Ed è una situazione che ultimamente è decisamente peggiorata: fino al 2018 il valore era nel complesso attorno a 150-200 in condizione di figli per ogni 100 già genitori».
In Francia ha fatto discutere ed è un successo editoriale, il libro Perché ho scelto di avere un cane e non un bambino, nel quale l’autrice, la veterinaria Hélène Gateau dice di preferire il suo Border Terrier, a un compagno e ad una famiglia. Che ne pensa?
«È il segno di una scelta di libertà che si può criticare ma è comunque una prerogativa di un individuo. Diventare genitori è una scelta. Piuttosto bisogna intervenire su ciò che ostacola chi vorrebbe diventare genitore».
C’è un deficit di educazione alla famiglia?
«La famiglia è riconosciuta costituzionalmente e svolge e svolgerà un ruolo fondamentale nella società. Il problema è che la famiglia si sta indebolendo e questo una società che invecchia non se lo può permettere. Una rete familiare solida è un obiettivo che va perseguito perché è nell’interesse della società».
La sinistra sostiene che il problema demografico si risolve con più immigrati, è così?
«L’immigrazione non è la soluzione magica a tutti i problemi e non è un contributo risolutivo al crollo delle nascite anche se nel 2022 i bambini da genitori stranieri erano 55.000 su un totale di 393.000. Anche se è una quota importante non è la soluzione a cui puntare perché non funziona. Gli stranieri nel tempo hanno ridotto la loro fecondità perché si trovano a dover far fronte agli stessi problemi dei residenti. Quando si va in un Paese con condizioni diverse, si tende a fare meno figli. Inoltre la natalità sta diminuendo in tutto il mondo».
Quelli che lo dicono esplicitamente
Che la sostituzione di popolo sia un complotto è solo una volgare calunnia. Quale complotto viene pubblicamente e sistematicamente ammesso dai suoi stessi protagonisti?
Già, perché la volontà di rendere le società europee meno europee è del tutto trasparente in una parte importante delle élite politiche e culturali globali. Pietra miliare nella storia del sostituzionismo esplicito è senz’altro il rapporto dell’Onu del 21 marzo 2000 dal titolo Replacement Migration: Is it A Solution to Declining and Ageing Populations?. Fior di debunker vi spiegheranno che questo titolo non deve spaventare. Ancora recentemente, l’Huffington Post spiegava che nel 2000 «l’Onu non prefigurava alcuna cospirazione contro i Paesi ad alta anzianità e bassa natalità, né tanto meno augurava uno scenario in cui tali Stati puntassero sulle popolazioni meno fortunate per correggere le storture del loro sistema. Quello che piuttosto intende il report è l’opportunità - temporanea - che offre la migrazione». Ma in realtà non c’è bisogno di alcuna cospirazione: il semplice fatto che si immagini di spostare popoli sul planisfero come fossero i carri armati del Risiko è già gravissimo. Che poi tali trasferimenti di massa siano «temporanei» lo dice il giornalista, senza prove (anche perché gli stessi ambienti che propongono queste «soluzioni» spingono contestualmente formule di cittadinanza sempre più facile per i nuovi arrivati). Non contente, comunque, le Nazioni Unite, nel 2017, sono tornate sull’argomento. Nel rapporto World Population Prospects: 2017 Revision, l’Onu si preoccupava del fatto che non ci stessimo facendo sostituire abbastanza in fretta. Testualmente: «Anche se le migrazioni internazionali al livello attuale non saranno sufficienti a compensare pienamente la perdita prevista della popolazione legata ai livelli di fertilità, specialmente nella regione europea, il movimento delle persone tra i vari Paesi può contribuire ad attenuare alcune delle conseguenze negative dell’invecchiamento della popolazione». Con tali input giunti dalle massime istituzioni globali, non stupisce che i fiduciari locali colgano al volo il messaggio. Nel 2015, per esempio, un tweet del profilo ufficiale «Deputati Pd», che riprendeva una frase pronunciata dal deputato Enrico Borghi, allora presidente della commissione Ambiente e territorio, recitava: «Dati dicono immigrati si stanno integrando e sostituendo ad autoctoni nella filiera produttiva».
Incredibilmente, questa cosa veniva raccontata con una certa fierezza (notare come la parola «autoctoni» suoni razzista se rivendicata in positivo, mentre diventi neutra se li si sta sostituendo). Ma c’è chi ha formulato gli stessi concetti con ancora meno peli sulla lingua. In un articolo uscito sull’Espresso nel 2017, Eugenio Scalfari se ne uscì così: «La vera politica dei Paesi europei è quindi d’essere capofila di questo movimento migratorio: ridurre le diseguaglianze, aumentare l’integrazione. Si profila come fenomeno positivo, il meticciato, la tendenza alla nascita di un popolo unico, che ha una ricchezza media, una cultura media, un sangue integrato. Questo è un futuro che dovrà realizzarsi entro due o tre generazioni e che va politicamente effettuato dall’Europa. E questo deve essere il compito della sinistra europea e in particolare di quella italiana». Chi non ha bisogno di queste esortazioni è l’esponente della sinistra francese, Jean-Luc Mélenchon. Nel 2011 criticò l’allora ministro dell’Interno, Claude Guéant, spiegando che «la sua idea di una Francia bionda dagli occhi azzurri non è mai esistita». Nel 2013 sbottò: «Non posso sopravvivere quando ci sono solo biondi con gli occhi azzurri, è al di là delle mie forze». Il 21 settembre 2020, al lancio del think tank Institut La Boétie, tenne un vero e proprio elogio della sostituzione etnica, pudicamente ribattezzata come créolisation: «Il popolo francese ha cominciato una forma di creolizzazione che è nuova nella nostra storia. Ma non bisogna averne paura, è un bene! Si va avanti, si cambia, si respira, si vive!». Infine, se servisse una conferma «dall’altra parte», si veda il discorso del presidente turco Recep Tayyip Erdogan ai connazionali in Europa, pronunciato nel 2017: «Non fate tre figli, ma cinque. Perché voi siete il futuro dell’Europa. Questa sarà la migliore risposta all’ingiustizia che vi è stata fatta». Complottista!
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La filosofia dominante, che dileggia la famiglia e magnifica la vita senza figli, è la stessa che chiede più migranti. Che hanno un tasso di fertilità altissimo.«Il fattore economico non basta a spiegare il crollo delle nascite». L’ex presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo: «Il clima culturale spinge i giovani a rinviare la procreazione. Finché non diventa troppo tardi». Quelli che lo dicono esplicitamente. Il cambiamento di popolo non nasce da alcun complotto segreto: anzi, spesso è un obiettivo candidamente ammesso. Dall’Onu a Scalfari fino a Erdogan. Lo speciale comprende tre articoli.Una delle giustificazioni addotte dai sostenitori della politica dell’accoglienza, a cominciare dalla sinistra, nonostante l’aumento esponenziale degli arrivi, è che l’immigrazione è indispensabile per colmare il deficit della natalità nel nostro Paese, per risolvere il problema del cosiddetto «inverno demografico». Siccome gli italiani non fanno più figli mentre nella cultura islamica (che è la predominante tra gli immigrati) sopravvive il valore della natalità, la soluzione è aprire le frontiere. In questa direzione va anche lo ius soli, altra battaglia del Pd, che spinge tante donne nel pieno della gravidanza a mettersi in mare sui barchini per dare alla luce il figlio sul nostro suolo e garantirsi così la cittadinanza. A questo tema si accompagna l’altro, sempre sottolineato a sinistra, che gli immigrati sono essenziali per pagarci le future pensioni, dimenticando che chi arriva, non avendo alte specializzazioni, viene assorbito da un mercato del lavoro con bassissime retribuzioni, la maggior parte senza il versamento dei contributi previdenziali e di alcun tipo di assistenza. Al tempo stesso i migranti usufruiscono della gratuità del sistema sanitario, del welfare e possono accedere all’edilizia residenziale pubblica.Ma secondo la politica progressista questo è un percorso inevitabile a fronte della scarsa natalità italiana. Ad arrivare a questo ha anche contribuito la stessa cultura liberal di stampo progressista che negli ultimi decenni ha smontato il valore della famiglia mettendo al centro il primato dell’individuo e creando il presupposto sociale per un processo che avrebbe come caduta finale, in modo estremo, una sorta di «sostituzione etnica» (espressione infelice ma da alcuni studiosi riconosciuta), di colonizzazione di valori da parte delle popolazioni immigrate.La difesa delle peculiarità culturali tra gli immigrati soprattutto islamici è molto forte al punto che anche alcuni magistrati sono arrivati a giustificare comportamenti al limite della legalità, proprio perché riconducibili a radicate abitudini culturali. È il caso del pm della Procura di Brescia che ha chiesto l’assoluzione per l’ex marito di una donna nata in Bangladesh ma cresciuta in Italia, che nel 2019 ha trovato il coraggio di denunciare le violenze subite dall’ex coniuge. La motivazione del pm è stata che il comportamento era «il frutto dell’impianto culturale”. Cioè il maltrattamento va giustificato perché fa parte della cultura. Inquietante ma è così. È un episodio isolato al momento ma indicativo della direzione verso cui stiamo andando. Come pure ha suscitato un dibattito acceso, la decisione del preside di una scuola di Firenze, l’Itt Marco Polo, che in occasione del Ramadan, ricorrenza annuale prevista dalla religione musulmana, ha pensato di offrire agli studenti che professano questa fede un’aula per raccogliersi in preghiera. Il capogruppo di Fratelli d’Italia in Palazzo Vecchio Alessandro Draghi, ha fatto notare che «se si sceglie la laicità della scuola, come non ci sono i crocifissi, non ci devono essere nemmeno le aule per il Ramadan». Per il preside invece la questione andava posta dal punto di vista dell’inclusione. Queste due situazioni dimostrano quanto siano profonde le radici della cultura islamica.In parallelo continua da parte del pensiero progressista la demonizzazione della famiglia e quindi del valore della natalità. Un indicatore è il libro uscito recentemente in Francia e diventato presto un successo editoriale. Il titolo, Perché ho scelto di avere un cane e non un bambino, dice tutto. L’autrice, la veterinaria quarantenne Hélène Gateau scrive senza girarci attorno: «Non ho mai voluto avere figli, preferisco dedicarmi al mio cane (un Bordier Terrier adottato dopo una separazione) e lo rivendico. Ho scelto di essere più individualista e di dare priorità al mio stile di vita, alla mia libertà». Eppure Gateau vive in un Paese, la Francia, che ha politiche molto attente e generose per incentivare la maternità. Questo a conferma che il calo delle nascite non può essere ricondotto essenzialmente a un problema di tipo economico. Se una coppia decide di non avere figli non è unicamente perché ha difficoltà di reddito. C’è anche questo tema ma non è l’unico, come dimostra la scrittrice francese. Gateau arriva a dire che da un punto di vista ormonale, biochimico e neuronale, prova verso il suo cane, qualcosa di molto simile all’attaccamento madre-bambino. E conclude sottolineando che l’animale le consente di avere una vita sociale e affettiva ricca.Ad aprile scorso il Guardian, quotidiano del pensiero democrat, ospitava un articolo dal titolo «Perché i proprietari di animali domestici sono più popolari dei genitori» di Nell Frizzell, autrice di un libro sulla maternità. Frizzell spiegava che cane e gatto «sono socialmente più accettabili dei bambini perché sono semplicemente più facili da amare». La scrittrice spiegava che i libri sulla genitorialità (incluso il suo) raccontano il lato faticoso della maternità, tra sensi di colpa, ansie e, quando va bene, autoironia. Al contrario i proprietari di cani e gatti sono assecondati e celebrati con una sorta di adorazione al punto che sono viziati in ogni modo. I padroni creano account Instagram e se hanno un comportamento giudicato insolito, sono disposti a spendere anche cifre importanti per sedute da psicologi specialisti di animali domestici. Frizzell ricorda che i cani che, sempre più di frequente, vengono portati in ufficio o presentati come «il mio bambino» senza particolare scandalo. E aggiunge che la genitorialità è un’area di interesse «di nicchia» (l’81% delle donne avrà un bambino quando raggiungerà i 45 anni), mentre gli animali domestici hanno un’«attrattiva di massa» (il 62% delle famiglie nel Regno Unito possiede un animale domestico ). «Le stesse persone che sbadigliano ai colleghi che discutono dei loro figli in ufficio spesso ti intrattengono con storie dei loro gatti seduti sulle loro spalle o cani che mangiano burro di arachidi».Se quindi, fare figli oltre ad essere un costo è faticoso e un ostacolo alla vita sociale (impedisce di andare agli aperitivi o alle feste), che se ne occupino altre società, sembra essere la conclusione. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/perche-si-puo-parlare-di-invasione-2665725191.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-fattore-economico-non-basta-a-spiegare-il-crollo-delle-nascite" data-post-id="2665725191" data-published-at="1695583209" data-use-pagination="False"> «Il fattore economico non basta a spiegare il crollo delle nascite» «La denatalità ha una molteplicità di cause. 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Tutto lascia prevedere che a fine anno dovremmo prender atto dell’ennesimo record al ribasso anche se sono state attivate alcune interessanti iniziative volte a produrre una qualche inversione di tendenza». È la conseguenza della distruzione culturale del valore della famiglia? «Una volta il modello era la famiglia, oggi la priorità è di far rientrare l’investimento che è stato fatto negli anni per l’istruzione. Il discorso di creare una coppia e poi di mettere al mondo dei figli, non è rifiutato ma non è più centrale ed è spostato in avanti nel tempo. Si dice spesso: non adesso, non è questo il momento, aspettiamo e vediamo quando le condizioni sono più favorevoli. Ma questa attesa sempre più si trasforma in un accantonamento definitivo del progetto di genitorialità anche perché la coppia poi deve fare i conti con l’elemento fisiologico del calo della capacità riproduttiva con l’avanzare dell’età. Ecco quindi che il punto di caduta di tale orientamento culturale è il calo demografico». Eppure il nostro Paese ha attraversato periodi economici ben più difficili durante i quali la natalità era più alta, come lo spiega? «Rispetto al dopoguerra, dove la speranza di un futuro migliore era riposto nelle nuove generazioni e si esprimeva nelle famiglie numerose, oggi nonostante ci siano condizioni di maggior benessere, pesano alcuni fattori culturali che inducono a rinviare la formazione di una famiglia. Nel corso degli ultimi decenni abbiamo assistito a profonde trasformazioni di tipo sociale e normativo. Basti pensare a come è stato modificato il diritto di famiglia e al diverso ruolo della donna nel mercato del lavoro. Questi cambiamenti hanno generato nei giovani una diversa visione della vita, della coppia e della famiglia». Quanto ha influito la cultura liberal di sinistra e la messa in discussione del modello e della centralità della famiglia? «Non mi sbilancio in considerazioni di questo tipo. I cambiamenti li abbiamo visti tutti e dietro c’è una società che ha avuto trasformazioni da tanti punti di vista, favorite da certe visioni rispetto ad altre. Guardo il risultato». E il risultato è che i figli escono di casa per formare una famiglia sempre più tardi e talvolta non per creare una coppia. «Si calcola che per ogni 100 30-34enni già genitori ce ne siano 279 ancora nella condizione di figli che vivono nella loro famiglia originaria. Ed è una situazione che ultimamente è decisamente peggiorata: fino al 2018 il valore era nel complesso attorno a 150-200 in condizione di figli per ogni 100 già genitori». In Francia ha fatto discutere ed è un successo editoriale, il libro Perché ho scelto di avere un cane e non un bambino, nel quale l’autrice, la veterinaria Hélène Gateau dice di preferire il suo Border Terrier, a un compagno e ad una famiglia. Che ne pensa? «È il segno di una scelta di libertà che si può criticare ma è comunque una prerogativa di un individuo. Diventare genitori è una scelta. Piuttosto bisogna intervenire su ciò che ostacola chi vorrebbe diventare genitore». C’è un deficit di educazione alla famiglia? «La famiglia è riconosciuta costituzionalmente e svolge e svolgerà un ruolo fondamentale nella società. Il problema è che la famiglia si sta indebolendo e questo una società che invecchia non se lo può permettere. Una rete familiare solida è un obiettivo che va perseguito perché è nell’interesse della società». La sinistra sostiene che il problema demografico si risolve con più immigrati, è così? «L’immigrazione non è la soluzione magica a tutti i problemi e non è un contributo risolutivo al crollo delle nascite anche se nel 2022 i bambini da genitori stranieri erano 55.000 su un totale di 393.000. Anche se è una quota importante non è la soluzione a cui puntare perché non funziona. Gli stranieri nel tempo hanno ridotto la loro fecondità perché si trovano a dover far fronte agli stessi problemi dei residenti. Quando si va in un Paese con condizioni diverse, si tende a fare meno figli. 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Fior di debunker vi spiegheranno che questo titolo non deve spaventare. Ancora recentemente, l’Huffington Post spiegava che nel 2000 «l’Onu non prefigurava alcuna cospirazione contro i Paesi ad alta anzianità e bassa natalità, né tanto meno augurava uno scenario in cui tali Stati puntassero sulle popolazioni meno fortunate per correggere le storture del loro sistema. Quello che piuttosto intende il report è l’opportunità - temporanea - che offre la migrazione». Ma in realtà non c’è bisogno di alcuna cospirazione: il semplice fatto che si immagini di spostare popoli sul planisfero come fossero i carri armati del Risiko è già gravissimo. Che poi tali trasferimenti di massa siano «temporanei» lo dice il giornalista, senza prove (anche perché gli stessi ambienti che propongono queste «soluzioni» spingono contestualmente formule di cittadinanza sempre più facile per i nuovi arrivati). Non contente, comunque, le Nazioni Unite, nel 2017, sono tornate sull’argomento. Nel rapporto World Population Prospects: 2017 Revision, l’Onu si preoccupava del fatto che non ci stessimo facendo sostituire abbastanza in fretta. Testualmente: «Anche se le migrazioni internazionali al livello attuale non saranno sufficienti a compensare pienamente la perdita prevista della popolazione legata ai livelli di fertilità, specialmente nella regione europea, il movimento delle persone tra i vari Paesi può contribuire ad attenuare alcune delle conseguenze negative dell’invecchiamento della popolazione». Con tali input giunti dalle massime istituzioni globali, non stupisce che i fiduciari locali colgano al volo il messaggio. Nel 2015, per esempio, un tweet del profilo ufficiale «Deputati Pd», che riprendeva una frase pronunciata dal deputato Enrico Borghi, allora presidente della commissione Ambiente e territorio, recitava: «Dati dicono immigrati si stanno integrando e sostituendo ad autoctoni nella filiera produttiva». Incredibilmente, questa cosa veniva raccontata con una certa fierezza (notare come la parola «autoctoni» suoni razzista se rivendicata in positivo, mentre diventi neutra se li si sta sostituendo). Ma c’è chi ha formulato gli stessi concetti con ancora meno peli sulla lingua. In un articolo uscito sull’Espresso nel 2017, Eugenio Scalfari se ne uscì così: «La vera politica dei Paesi europei è quindi d’essere capofila di questo movimento migratorio: ridurre le diseguaglianze, aumentare l’integrazione. Si profila come fenomeno positivo, il meticciato, la tendenza alla nascita di un popolo unico, che ha una ricchezza media, una cultura media, un sangue integrato. Questo è un futuro che dovrà realizzarsi entro due o tre generazioni e che va politicamente effettuato dall’Europa. E questo deve essere il compito della sinistra europea e in particolare di quella italiana». Chi non ha bisogno di queste esortazioni è l’esponente della sinistra francese, Jean-Luc Mélenchon. Nel 2011 criticò l’allora ministro dell’Interno, Claude Guéant, spiegando che «la sua idea di una Francia bionda dagli occhi azzurri non è mai esistita». Nel 2013 sbottò: «Non posso sopravvivere quando ci sono solo biondi con gli occhi azzurri, è al di là delle mie forze». Il 21 settembre 2020, al lancio del think tank Institut La Boétie, tenne un vero e proprio elogio della sostituzione etnica, pudicamente ribattezzata come créolisation: «Il popolo francese ha cominciato una forma di creolizzazione che è nuova nella nostra storia. Ma non bisogna averne paura, è un bene! Si va avanti, si cambia, si respira, si vive!». Infine, se servisse una conferma «dall’altra parte», si veda il discorso del presidente turco Recep Tayyip Erdogan ai connazionali in Europa, pronunciato nel 2017: «Non fate tre figli, ma cinque. Perché voi siete il futuro dell’Europa. Questa sarà la migliore risposta all’ingiustizia che vi è stata fatta». Complottista!
Nel riquadro, l'attivista Blm Tashella Sheri Amore Dickerson (Ansa)
Tashella Sheri Amore Dickerson, 52 anni, storica leader di Black lives matter a Oklaoma City è stata accusata da un Gran giurì federale di frode telematica e riciclaggio di denaro. Secondo i risultati di un’indagine condotta dall’Fbi di Oklahoma City e dall’Irs-Criminal Investigation e affidata procuratori aggiunti degli Stati Uniti Matt Dillon e Jessica L. Perry, Dickerson si sarebbe appropriata di oltre 3 milioni di dollari di fondi raccolti e destinati al pagamento delle cauzioni degli attivisti arrestati e li avrebbe investiti in immobili e spesi per vacanze e spese personali. Il 3 dicembre 2025, un Gran giurì federale ha emesso nei confronti dell’attivista un atto d’accusa di 25 capi, di cui 20 di frode telematica e cinque di riciclaggio di denaro. Per ogni accusa di frode telematica, Dickerson rischia fino a 20 anni di carcere federale e una multa fino a 250.000 dollari. Per ogni accusa di riciclaggio di denaro, l’attivista rischia fino a dieci anni di carcere e una multa fino a 250.000 dollari o il doppio dell’importo della proprietà di derivazione penale coinvolta nella transazione. Secondo gli inquirenti, a partire almeno dal 2016, Dickerson è stata direttore esecutivo di Black lives matter Okc (Blmokc). Grazie a quel ruolo Dickerson aveva accesso ai conti bancari, PayPal e Cash App di Blmokc.
L’atto d’accusa, la cui sintesi è stata resa nota dalle autorità federali, sostiene che, sebbene Blmokc non fosse un’organizzazione esente da imposte registrata ai sensi della sezione 501(c)(3) dell’Internal revenue code (la legge tributaria federale americana), accettava donazioni di beneficenza attraverso la sua affiliazione con l’Alliance for global justice (Afgj), con sede in Arizona. L’Afgj fungeva da sponsor fiscale per Blmokc, alla quale imponeva di utilizzare i suoi fondi solo nei limiti consentiti dalla sezione 501(c)(3). L’Afgj richiedeva inoltre a Blmokc di rendere conto, su richiesta, dell’erogazione di tutti i fondi ricevuti e vietava a Blmokc di utilizzare i suoi fondi per acquistare immobili senza il consenso dell’Afgj.
A partire dalla tarda primavera del 2020, Blmokc ha raccolto fondi per sostenere la sua presunta missione di giustizia sociale da donatori online e da fondi nazionali per le cauzioni. In totale, Blmokc ha raccolto oltre 5,6 milioni di dollari, inclusi finanziamenti da fondi nazionali per le cauzioni, tra cui il Community Justice Exchange, il Massachusetts Bail Fund e il Minnesota Freedom Fund. La maggior parte di questi fondi è stata indirizzata a Blmokc tramite Afgj, in qualità di sponsor fiscale.
Secondo l’atto d’accusa, il Blmokc avrebbe dovuto utilizzare queste sovvenzioni del fondo nazionale per le cauzioni per pagare la cauzione preventiva per le persone arrestate in relazione alle proteste per la giustizia razziale dopo la morte di George Floyd. Quando i fondi per le cauzioni venivano restituiti al Blmokc, i fondi nazionali per le cauzioni talvolta consentivano al Blmokc di trattenere tutto o parte del finanziamento della sovvenzione per istituire un fondo rotativo per le cauzioni, o per la missione di giustizia sociale del Blmokc, come consentito dalla Sezione 501(c)(3).
Nonostante lo scopo dichiarato del denaro raccolto e i termini e le condizioni delle sovvenzioni, l’atto d’accusa sostiene che a partire da giugno 2020 e almeno fino a ottobre 2025, Dickerson si è appropriata di fondi dai conti di Blmokc a proprio vantaggio personale. L’atto d’accusa sostiene che Dickerson abbia depositato almeno 3,15 milioni di dollari in assegni di cauzione restituiti sui suoi conti personali, anziché sui conti di Blmokc. Tra le altre cose, Dickerson avrebbe poi utilizzato questi fondi per pagare: viaggi ricreativi in Giamaica e nella Repubblica Dominicana per sé e i suoi soci; decine di migliaia di dollari in acquisti al dettaglio; almeno 50.000 dollari in consegne di cibo e generi alimentari per sé e i suoi figli; un veicolo personale registrato a suo nome; sei proprietà immobiliari a Oklahoma City intestate a suo nome o a nome di Equity International, Llc, un’entità da lei controllata in esclusiva. L’atto d’accusa sostiene inoltre che Dickerson abbia utilizzato comunicazioni interstatali via cavo per presentare due false relazioni annuali all’Afgj per conto del Blmokc. Dickerson ha dichiarato di aver utilizzato i fondi del Blmokc solo per scopi esenti da imposte. Non ha rivelato di aver utilizzato i fondi per il proprio tornaconto personale.
Tre anni fa una vicenda simile aveva travolto la cofondatrice di Black lives matter Patrisse Cullors, anche lei accusata di aver utilizzato i fondi donati per beneficenza al movimento per pagare incredibili somme di denaro a suo fratello e al padre di suo figlio per vari «servizi». Secondo le ricostruzioni del 2022, Paul Cullors, fratello di Patrisse, ha ricevuto 840.000 dollari sul suo conto corrente per aver presumibilmente fornito servizi di sicurezza al movimento, secondo i documenti fiscali visionati dal New York Post. Nel frattempo, l’organizzazione ha pagato una società di proprietà di Damon Turner, padre del figlio di Patrisse Cullors, quasi 970.000 dollari per aiutare a «produrre eventi dal vivo» e altri «servizi creativi». Notizie che, all’epoca, avevano provocato non pochi malumori, alimentate anche dal fatto che la Cullors si professava marxista e sosteneva di combattere per gli oppressi e le ingiustizie sociali.
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Francesca Albanese (Ansa)
Rispetto a due mesi fa, la percentuale degli sfiduciati è cresciuta di 16 punti mentre quella di coloro che si fidano è scesa di 9. Il 42% degli intervistati, maggiorenni e residenti in Italia, dichiara di non conoscere la relatrice pasionaria o di non avere giudizi da esprimere, il che forse è quasi peggio: avvolta dalla sfiducia e dall’indifferenza.
Il 53% degli elettori di centrodestra non si fida dell’Albanese, e questo era un dato diciamo scontato, ma fa riflettere che la giurista irpina abbia perso credibilità per il 47% di coloro che votano Pd. Appena il 34% degli elettori dem oggi si fida della relatrice Onu, sotto sanzioni da parte di Washington e accusata da Israele di ostilità strutturale. La sinistra, dunque, non si limita ad essere in disaccordo al suo interno se rilasciare o meno la cittadinanza onoraria alla pro Pal. Sta dicendo che non la sostiene più.
«I cattivi maestri di sinistra non piacciono agli italiani», ha subito postato su X il partito della premier Giorgia Meloni, che sempre secondo il sondaggio Youtrend sarebbe la più convincente per il 48% degli italiani in un ipotetico dibattito assieme a Giuseppe Conte ed Elly Schlein.
Tramonta dunque l’astro effimero di Albanese, spacciata per l’eroina progressista che condanna la violenza sui palestinesi mentre la giustifica a casa nostra. L’assalto alla redazione della Stampa doveva e deve servire «da monito alla stampa», ha dichiarato la relatrice Onu, confermando la pericolosità del suo attivismo politico.
Eppure ha continuato a essere invitata per esporre le sue idee anti Israele, e non solo. In alcune scuole della Toscana avrebbe «ripetuto i suoi soliti mantra, sostenendo che il governo Meloni sia composto da fascisti e complice di un genocidio, accusando Leonardo di essere una azienda criminale e arrivando persino a incitare gli studenti ad occupare le scuole, di fatto, incitando dei minorenni a commettere reati sanzionati dal codice penale», hanno scritto Matteo Bagnoli capogruppo di Fratelli d’Italia al Comune di Pontedera e Christian Nannipieri responsabile di Gioventù nazionale Pontedera.
La mossa successiva è stata un’interrogazione presentata da Alessandro Amorese, capogruppo di Fdi alla commissione Istruzione della Camera alla quale ha prontamente risposto il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, chiedendo agli organi competenti di avviare una immediata ispezione per verificare quanto accaduto in alcune scuole in Toscana.
Secondo l’interrogazione, anche una classe della seconda media dell’Istituto Comprensivo Massa 6 avrebbe partecipato ad un incontro proposto dalla rete di insegnanti Docenti per Gaza, con Francesca Albanese che esponeva le tematiche del suo libro Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite dalla Palestina.
Non solo, con una nuova circolare inviata alle scuole sul tema manifestazioni ed eventi pubblici all’interno delle istituzioni scolastiche, il ministro ribadisce l’esigenza che la scelta di ospiti e relatori sia «volta a garantire il confronto tra posizioni diverse e pluraliste al fine di consentire agli studenti di acquisire una conoscenza approfondita dei temi trattati e sviluppare il pensiero critico».
Una raccomandazione necessaria, alla luce anche di quanto stanno sostenendo i docenti del liceo Montale di Pontedera che in una nota hanno definito «attività formativa» la presentazione online del libro di Albanese ad alcune classi. «Un’iniziativa organizzata su scala nazionale nell’ambito delle attività di educazione alla cittadinanza globale, come previsto dal curriculum di Educazione civica d’istituto […] nel quadro delle iniziative promosse dalla scuola per favorire la partecipazione democratica, la conoscenza delle istituzioni internazionali e il dialogo tra studenti e professionisti impegnati in contesti globali», scrivono. Senza contraddittorio, le posizioni pro Pal e anti governo Meloni della relatrice Onu non sono «partecipazione democratica».
Incredibilmente, però, due giorni fa la relatrice è comparsa accanto a Tucker Carlson, il giornalista e scrittore tra i creatori dell’universo Maga, che gestisce la Tucker Carlson Network dopo aver lasciato Fox News. Intervistata, ha detto che gli Stati Uniti l’hanno sanzionata a causa del suo dettagliato resoconto sulle politiche genocide di Israele contro i palestinesi. «Una penna, questa è la mia sola arma», si è difesa Albanese raccontando che il suo rapporto con Washington sarebbe cambiato bruscamente dopo che ha iniziato a documentare come le aziende statunitensi non solo stavano consentendo le azioni di Israele a Gaza, ma traendo profitto da esse.
«Tucker sta promuovendo le opinioni di una donna sottoposta a sanzioni da parte degli Stati Uniti per aver preso di mira gli americani», ha protestato su X l’American Israel public affairs committee (Aipac), il più importante gruppo di pressione filo israeliano degli Stati Uniti. Ma c’è anche chi non si sorprende perché Carlson avrebbe cambiato opinione su Israele negli ultimi mesi, criticando l’amministrazione Trump per il supporto incondizionato dato allo Stato ebraico così come fa la sinistra antisionista.
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Kaja Kallas (Ansa)
Kallas è il falco della Commissione, quando si tratta di Russia, e tiene a rimarcarlo. A proposito dei fondi russi depositati presso Euroclear, l’estone dice nell’intervista che il Belgio non deve temere una eventuale azione di responsabilità da parte della Russia, perché «se davvero la Russia ricorresse in tribunale per ottenere il rilascio di questi asset o per affermare che la decisione non è conforme al diritto internazionale, allora dovrebbe rivolgersi all’Ue, quindi tutti condivideremmo l’onere».
In pratica, cioè, l’interpretazione piuttosto avventurosa di Kallas è che tutti gli Stati membri sarebbero responsabili in solido con il Belgio se Mosca dovesse ottenere ragione da qualche tribunale sul sequestro e l’utilizzo dei suoi fondi.
Tribunale sui cui l’intervistata è scettica: «A quale tribunale si rivolgerebbe (Putin, ndr)? E quale tribunale deciderebbe, dopo le distruzioni causate in Ucraina, che i soldi debbano essere restituiti alla Russia senza che abbia pagato le riparazioni?». Qui l’alto rappresentante prefigura uno scenario, quello del pagamento delle riparazioni di guerra, che non ha molte chance di vedere realizzato.
All’intervistatore che chiede perché per finanziare la guerra non si usino gli eurobond, cioè un debito comune europeo, Kallas risponde: «Io ho sostenuto gli eurobond, ma c’è stato un chiaro blocco da parte dei Paesi Frugali, che hanno detto che non possono farlo approvare dai loro Parlamenti». È ovvio. La Germania e i suoi satelliti del Nord Europa non vogliano cedere su una questione sulla quale non hanno mai ceduto e per la quale, peraltro, occorre una modifica dei trattati su cui serve l’unanimità e la ratifica poi di tutti i parlamenti. Con il vento politico di destra che soffia in tutta Europa, con Afd oltre il 25% in Germania, è una opzione politicamente impraticabile. Dire eurobond significa gettare la palla in tribuna.
In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea già nel 2027, come vorrebbe il piano di pace americano, Kallas se la cava con lunghe perifrasi evitando di prendere posizione. Secondo l’estone, l’adesione all’Ue è una questione di merito e devono decidere gli Stati membri. Ma nel piano questo punto è importante e sembra difficile che venga accantonato.
Kallas poi reclama a gran voce un posto per l’Unione al tavolo della pace: «Il piano deve essere tra Russia e Ucraina. E quando si tratta dell’architettura di sicurezza europea, noi dobbiamo avere voce in capitolo. I confini non possono essere cambiati con la forza. Non ci dovrebbero essere concessioni territoriali né riconoscimento dell’occupazione». Ma lo stesso Zelensky sembra ormai convinto che almeno un referendum sulla questione del Donbass sia possibile. Insomma, Kallas resta oltranzista ma i fatti l’hanno già superata.
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