2020-04-29
Perché Hillary è un problema per Biden
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Joe Biden e Hillary Clinton (Ansa)
E alla fine è arrivato anche il suo endorsement. Martedì scorso, Hillary Clinton ha appoggiato ufficialmente il candidato democratico, Joe Biden, nella corsa verso la Casa Bianca. «Per me, questo è il momento in cui abbiamo bisogno di un leader, un presidente, come Joe Biden», ha dichiarato l'ex first lady, che - tra l'altro - ha colto l'occasione per definirsi «entusiasta» della sua scelta.Hillary è soltanto l'ultima di una lunga serie di esponenti dell'establishment del Partito democratico che ha dato il proprio appoggio all'ex vicepresidente americano: basti pensare a Barack Obama, Al Gore o Nancy Pelosi negli scorsi giorni. Eppure, differentemente da questi endorsement, quello di Hillary potrebbe rivelarsi alla fine dei conti un'arma a doppio taglio. E questo per una serie di ragioni.In primo luogo, non dimentichiamo che l'ex first lady rappresenti una figura profondamente divisiva all'interno dello stesso Partito democratico. È esattamente in questo senso, del resto, che - alle presidenziali del 2016 - circa il 10% degli elettori di Bernie Sanders alla fine votarono per Donald Trump in alcuni Stati dirimenti, come il Michigan, la Pennsylvania e il Wisconsin. Un dato, guardato con estremo timore dalla campagna elettorale di Biden: quel Biden che deve riuscire a garantirsi il sostegno degli elettori sandersiani, se a novembre vuole realmente provare a conquistare la Casa Bianca. Ecco: un endorsement come quello di Hillary di certo complica le cose all'ex vicepresidente sotto questo punto di vista.Tra l'altro, non bisogna neppure trascurare che il "ritorno" dell'ex first lady sia avvenuto in un momento particolarmente delicato della campagna elettorale di Biden, soprattutto per quanto riguarda i delicati rapporti con lo stesso Sanders. Lunedì scorso, nello Stato di New York si è di fatto stabilito di cancellare le primarie democratiche: primarie che originariamente si sarebbero dovute tenere ad aprile e che – a causa della pandemia in corso – erano state posticipate al mese di giugno. Tutto questo, fin quando, a inizio settimana, non è stata presa la decisione di lasciare sulla scheda elettorale unicamente il nome di Joe Biden: una scelta che ha scatenato la furibonda reazione di Sanders e dei suoi sostenitori. E' vero che il senatore del Vermont avesse infatti sospeso la propria campagna elettorale, conferendo addirittura il proprio endorsement all'ex vicepresidente. Ciononostante aveva altresì dichiarato di voler continuare a raccogliere delegati, per disporre di una maggior forza contrattuale in sede di Convention nazionale. Una strategia che, per quanto possa apparire a prima vista bizzarra, non è del resto una novità nella storia elettorale americana (si tratta infatti del fenomeno che qualcuno ha battezzato dei "candidati zombie").Va da sé che, quanto stabilito nello Stato di New York, cozzi decisamente con le intenzioni di Sanders. E, non a caso, il suo comitato ha emesso un duro comunicato per criticare questa mossa, parlando di «duro colpo per la democrazia». Tutto questo, mentre anche parte cospicua della base è in fermento. I sandersiani, insomma, stanno rinverdendo i propri consueti strali contro l'establishment dell'asinello. E questo è particolarmente rischioso per Biden. Come detto, l'ex vicepresidente ha disperata necessità di compattare l'intero partito sotto il proprio vessillo. Anche per questo, nelle ultime settimane, ha fatto qualche timida apertura programmatica a sinistra, invitando tra l'altro il senatore del Vermont a collaborare nella stesura della Platform di agosto. Il punto è che l'"incidente" newyorchese potrebbe adesso rinfocolare le ataviche tensioni tra centro e sinistra: tensioni che, nonostante una recente concordia di facciata, hanno continuato ad ardere energicamente sotto la cenere. E anche se Biden sulla carta non è responsabile di quanto stabilito nell'Empire State, la polemica sandersiana contro l'establishment non può per forza di cose non investire anche lui, che di quell'establishment è uno dei massimi rappresentanti. Il recentissimo endorsement di Hillary Clinton rischia così di gettare ulteriore (velenosa) benzina sul fuoco, accreditando la tesi secondo cui le alte sfere dell'asinello starebbero cercando di boicottare la volontà popolare.Ma l'ex first lady potrebbe rivelarsi fonte anche di un'altra tipologia di imbarazzo. Non dimentichiamo che, lo scorso 25 marzo, Biden è stato accusato di violenza sessuale da una sua ex collaboratrice, Tara Reade. Ora, non è dato al momento sapere se l'accusa in sé abbia fondamento e sarà ovviamente l'autorità giudiziaria ad occuparsi di fare chiarezza. Il dato oggettivo risiede tuttavia nel fatto che, a settembre del 2018, il giudice conservatore, Brett Kavanaugh, rimediò tre accuse perfettamente identiche. Eppure il trattamento a lui riservato dall'ex first lady fu ben differente da quello serbato oggi per Biden. In quel caso, Hillary - da sempre autoproclamata paladina delle donne - intervenne duramente sul togato, affermando che la prima accusatrice del giudice meritasse il "beneficio del dubbio". Nel suo endorsement di martedì l'ex first lady non ha invece fatto alcun riferimento a Tara Reade. Così come della cosa non ha minimamente parlato Nancy Pelosi né la maggior parte delle donne che Biden sta valutando per la nomina a candidato vicepresidente. La situazione è non poco bizzarra. Non si capisce infatti per quale ragione, a fronte di due circostanze identiche, il "beneficio del dubbio" valga soltanto per Kavanaugh e non per l'ex vicepresidente. Ecco: è proprio questo doppiopesismo che potrebbe gravare negativamente sulla candidatura di Biden. Un Biden che forse - sotto sotto - non dev'essere poi così contento dell'endorsement di Hillary.
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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