
Altro che globalizzazione, altro che società liquida: un saggio americano svela i benefici dei gruppi con forte senso d'appartenenza. «In Occidente esistenze troppo isolate. Non si tratta di riscoprire il mito del buon selvaggio, ma l'importanza dei legami sociali».Già alla fine del Settecento vari osservatori europei commentavano con stupore il fatto che molti uomini giunti in America dal Vecchio Continente, fatti prigionieri dagli indiani, dopo aver passato mesi in seno alle varie tribù rifiutassero di abbandonarle. Il francese Hector de Crèvecoeur, nel 1792, scriveva: «Deve esserci qualcosa nel loro legame sociale di straordinariamente accattivante e di gran lunga superiore a qualunque cosa di cui ci si possa gloriare tra di noi». Aveva ragione. L'essere umano, ancora oggi, dimostra di avere un fortissimo e inestinguibile senso di appartenenza a «piccoli gruppi definiti da obiettivi chiari e comprensibili». Gruppi che possiamo considerare a tutti gli effetti delle tribù. A fugare ogni dubbio in proposito pensa una approfondita e suggestiva indagine del premiatissimo giornalista americano Sebastian Junger (Tribù. Ritorno a casa e appartenenza, Libreria editrice goriziana), il quale ha condotto numerose interviste fra i veterani dell'esercito statunitense. Molti di loro soffrono di un disagio psichico noto come «disturbo da stress post traumatico». Nell'immaginario comune, tale disordine mentale viene associato agli orrori del campo di battaglia, alle esperienze terribili che i militari hanno vissuto durante le missioni. In realtà, però, Junger ha scoperto che spesso non è la guerra a causare scompensi, bensì la sua assenza. Quando i soldati tornano a casa, infatti, perdono «i legami incredibilmente intimi della vita del plotone». Perdono la vicinanza, il contatto umano con i commilitoni, il senso di comunità che si sviluppa passando mesi all'interno del medesimo gruppo. Insomma, smarriscono il rapporto con la propria tribù. Si sentono soli, isolati e disorientati. Ecco perché, centinaia di anni fa, era piuttosto frequente che un europeo si facesse adottare da una tribù indiana, ma estremamente raro che un nativo americano abbandonasse i suoi fratelli e sorelle. «La natura fortemente comunitaria di una tribù indiana», spiega Junger, «esercitava un richiamo di fronte al quale i benefici materiali della civiltà occidentale non necessariamente riuscivano a competere». Dunque «la domanda che deve porsi la società occidentale non è tanto perché la vita tribale possa risultare così attraente», prosegue il giornalista, «ma perché la società occidentale lo sia tanto poco».Uno dei motivi di questa scarsa attrattiva è il ritmo della nostra esistenza. Si sente spesso ripetere che il progresso tecnologico ha affrancato gli uomini dalla fatica donando loro il «tempo libero» e la possibilità di dedicarsi agli svaghi. In verità, nelle società tribali si lavorava molto meno di adesso. Uno studio risalente agli anni Sessanta sui Kung del deserto del Kalahari svelò che costoro avevano bisogno di lavorare appena 12 ore a settimana per sopravvivere. Oggi molti di noi lavorano 12 ore in un solo giorno. Come nota Sebastian Junger, la civiltà moderna ha creato «un forsennato ciclo di lavoro, impegno economico e ancora lavoro». Non è soltanto una questione di stress, ma pure di isolamento sociale. Oggi si può essere economicamente indipendenti dal resto della propria comunità, ma si vive anche immersi in una società iper competitiva, quasi interamente basata sulle prestazioni del singolo e sul soddisfacimento dei desideri individuali. Intendiamoci: qui non stiamo cadendo nella vecchia trappola del «buon selvaggio». Le società cosiddette primitive avevano la loro bella dose di orrori e spietatezze. Notiamo solo che alla radice di tanti mali contemporanei (le «malattie del benessere», depressione compresa) c'è lo sfaldamento dei legami sociali. Che nelle tribù erano così forti da far passare in secondo piano ristrettezze economiche e difficoltà materiali. Possiamo imparare qualcosa da chi è venuto prima di noi. E la prima lezione da apprendere riguarda proprio la valorizzazione degli spazi comunitari, nella difesa delle appartenenze. Di questi tempi, purtroppo, tali concetti non vanno molto di moda. La tendenza è quella di distruggere ogni appartenenza comunitaria, e quando qualche intellettuale usa la parola «tribù» lo fa con lo sdegno che si riserva ai trogloditi. In sovrappiù, la tecnologia debordante ci offre un surrogato, una triste illusione del vivere comunitario, contribuendo a isolarci ancora di più. La vita «tribale» però, non ci trasforma in selvaggi. Anzi, ci ricorda che siamo umani. Per questo ne abbiamo bisogno. Nelle tribù si sta bene, il tepore dei sentimenti caccia via il gelo feroce della solitudine. Proprio come il fuoco, nei tempi antichi, scacciava le belve. Attorno a quel fuoco gli esseri umani si scoprivano fratelli. Oggi, invece, siamo tutti figli unici.
Attività all'aria aperta in Val di Fassa (Gaia Panozzo)
Dal 19 al 21 settembre la Val di Fiemme ospita un weekend dedicato a riposo, nutrizione e consapevolezza. Sulle Dolomiti del Brenta esperienze wellness diffuse sul territorio. In Val di Fassa yoga, meditazione e attenzione all’equilibrio della mente.
Non solo il caso Kaufmann: la Procura di Roma ha aperto diversi fascicoli su società di produzione che hanno goduto di faraonici sussidi. C’è pure la Cacciamani, ad di Cinecittà. Intanto i film italiani spariscono dalle sale.
Gabriele D'Annunzio (Getty Images)
Lo spettacolo Gabriele d’Annunzio, una vita inimitabile, con Edoardo Sylos Labini e le musiche di Sergio Colicchio, ha debuttato su RaiPlay il 10 settembre e approda su RaiTre il 12, ripercorrendo le tappe della vita del Vate, tra arte, politica e passioni.
Il ministro dell'Agricoltura Francesco Lollobrigida (Ansa)
Oggi a Vercelli il ministro raduna i produttori europei. Obiettivo: contrastare gli accordi commerciali dell’Ue, che col Mercosur spalancano il continente a prodotti di basso valore provenienti da Oriente e Sud America: «Difendiamo qualità e mercato».