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2018-04-28
Per risolvere il rebus armeno, Putin sceglie il dialogo
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ANSA
Occhi puntati sull'Armenia. Le recenti dimissioni del primo ministro Serzh Sargsyan potrebbero infatti determinare una fase di relativa instabilità interna. Ma soprattutto non pochi punti interrogativi sul fronte geopolitico. Il passo indietro è avvenuto dopo che, per giorni, una serie di nutrite proteste aveva attraversato il Paese, con i manifestanti in piazza che accusavano il primo ministro di tendenze autoritarie a causa della scelta di prolungare il proprio potere per un nuovo mandato. A tutto questo si sono aggiunti poi i fastidi suscitati dalla sua volontà di riformare le istituzioni per trasformare l'Armenia da repubblica parlamentare in repubblica presidenziale.
Da questa situazione non poco tesa si attendono ora sviluppi. Non soltanto per sapere chi sarà il prossimo primo ministro. Ma anche - e forse soprattutto - per scoprire quali saranno le mosse del Cremlino in questa vicenda. Non dimentichiamo infatti che, dall'Ottocento, Russia e Armenia intrattengano profonde relazioni geopolitiche. Inoltre, questa vicinanza è proseguita anche dopo il crollo dell'Unione Sovietica e, in fin dei conti, lo stesso Sargsyan è sempre stato considerato un politico molto vicino al presidente russo Vladimir Putin. In tutto questo, al momento Mosca tiene una posizione piuttosto attendista, limitandosi ad affermare di sperare che i recenti capovolgimenti in seno alla politica armena avvengano nel solco dello Stato di diritto.
È allora lecito chiedersi perché, davanti a quella che potrebbe rivelarsi una sorta di nuova «rivoluzione colorata», Putin mantenga, almeno per il momento, una simile cautela. Probabilmente le ragioni sono molteplici. E vanno al di là della semplice attesa di sviluppi futuri. Come difatti nota il Moscow Times, solitamente, occorrono due condizioni affinché il presidente russo opti per un intervento diretto (come accaduto, nel passato, in Georgia e in Ucraina): o che ci sia il rischio che un Paese amico si avvicini troppo alla Nato, divenendo così un pericolo per la sicurezza nazionale, o che gli interessi in gioco risultino di una importanza tale da giustificare l'onere di un impegno militare. Per quanto riguarda la prima possibilità, pare che, almeno allo stato attuale, l'Armenia non sembri orientata a chissà quali svolte geopolitiche. Non soltanto perché, in politica interna, il Partito repubblicano filorusso guidato da stesso Sargsyan continua ad avere la maggioranza parlamentare (nonostante qualche analista sostenga possa finire presto all'opposizione). Ma anche perché il leader del fronte di protesta, Nikol Pashinyan, al di là delle dichiarazioni, non parrebbe intenzionato, nei fatti, ad avvicinarsi troppo alla Nato o all'Unione europea. Questo non tanto per convinzione ideale quanto, semmai, per banale pragmatismo. È cosa nota che l'alleanza atlantica sia ultimamente piuttosto restia a includere tra le sue file le repubbliche post sovietiche; senza poi trascurare che nessuno può essere così ingenuo da ritenere troppo semplice sottrarsi improvvisamente dall'ombrello politico-militare del Cremlino.
Alla luce di tutto questo, è allora plausibile credere che Putin possa decidere di muoversi soltanto a fronte di un concreto avvicinamento armeno in direzione della Nato o di Bruxelles: un po' come accadde con la Georgia, nel 2008, o con l'Ucraina, nel 2014. Ma, fino ad allora, è altamente probabile che sarà l'attendismo a caratterizzare gli atteggiamenti del Cremlino sulla questione armena. Anche perché, pur coltivando sino a oggi relazioni tutto sommato amichevoli con l'Occidente, l'Armenia non ha mai mostrato una effettiva volontà di aderire alla Nato o, più in generale, di entrare in rotta di collisione con le politiche di Putin. Non va infine trascurato il fatto che un eventuale avvicinamento all'alleanza atlantica susciterebbe probabilmente le reazioni piccate della Turchia che della Nato fa parte - almeno teoricamente viste le recenti politiche del sultano Recep Tayyip Erdogan che sembra dare l'impressione di avvicinarsi al Cremlino - e che dai tempi dell'Impero ottomano intrattiene relazioni a dir poco ostili con l'Armenia.
In secondo luogo, anche qualora il Cremlino non vedesse di buon occhio le recenti dimissioni di Sargsyan, non è detto che gli convenga troppo un intervento militare. Non solo, infatti, la Russia risulta attualmente già coinvolta nel complicato conflitto siriano. Ma il popolo russo sembra contrario ad azioni belliche che non tirino direttamente in ballo la difesa di interessi vitali in termini di sicurezza nazionale. Anche per questo, è abbastanza improbabile che Putin opti per la linea dura (almeno nel breve periodo). E infatti, nelle ultime ore, Mosca ha iniziato a ritagliarsi il ruolo di mediatrice, per arrivare a una soluzione «pilotata» della crisi armena: un modo pragmatico, forse, per salvare capra e cavoli. Incanalando le proteste e salvaguardando i rapporti con un alleato prezioso. In particolare, Putin ha avuto di recente un colloquio telefonico con il primo ministro ad interim, Karen Karapetyan, per arrivare alla nomina di un nuovo capo del governo entro i primi di maggio. La linea del dialogo, insomma, sembra al momento prevalere. Gli occhi del Cremlino restano tuttavia guardinghi. Soprattutto su Pashinyan. Perché una nuova rivoluzione colorata è un rischio che Mosca non vuole assolutamente correre.
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La «rivoluzione colorata» ha spinto alle dimissioni il primo ministro Serzh Sargsyan. Ma Mosca non teme una svolta verso la Nato o l'Unione europea da parte del Paese caucasico, da secoli legato alla Russia. Il Cremlino lascia così da pare la linea dura e avvia i negoziati per garantire stabilità all'ex satellite in tempi brevi. Onde evitare di soffiare sul fuoco delle proteste.Occhi puntati sull'Armenia. Le recenti dimissioni del primo ministro Serzh Sargsyan potrebbero infatti determinare una fase di relativa instabilità interna. Ma soprattutto non pochi punti interrogativi sul fronte geopolitico. Il passo indietro è avvenuto dopo che, per giorni, una serie di nutrite proteste aveva attraversato il Paese, con i manifestanti in piazza che accusavano il primo ministro di tendenze autoritarie a causa della scelta di prolungare il proprio potere per un nuovo mandato. A tutto questo si sono aggiunti poi i fastidi suscitati dalla sua volontà di riformare le istituzioni per trasformare l'Armenia da repubblica parlamentare in repubblica presidenziale.Da questa situazione non poco tesa si attendono ora sviluppi. Non soltanto per sapere chi sarà il prossimo primo ministro. Ma anche - e forse soprattutto - per scoprire quali saranno le mosse del Cremlino in questa vicenda. Non dimentichiamo infatti che, dall'Ottocento, Russia e Armenia intrattengano profonde relazioni geopolitiche. Inoltre, questa vicinanza è proseguita anche dopo il crollo dell'Unione Sovietica e, in fin dei conti, lo stesso Sargsyan è sempre stato considerato un politico molto vicino al presidente russo Vladimir Putin. In tutto questo, al momento Mosca tiene una posizione piuttosto attendista, limitandosi ad affermare di sperare che i recenti capovolgimenti in seno alla politica armena avvengano nel solco dello Stato di diritto. È allora lecito chiedersi perché, davanti a quella che potrebbe rivelarsi una sorta di nuova «rivoluzione colorata», Putin mantenga, almeno per il momento, una simile cautela. Probabilmente le ragioni sono molteplici. E vanno al di là della semplice attesa di sviluppi futuri. Come difatti nota il Moscow Times, solitamente, occorrono due condizioni affinché il presidente russo opti per un intervento diretto (come accaduto, nel passato, in Georgia e in Ucraina): o che ci sia il rischio che un Paese amico si avvicini troppo alla Nato, divenendo così un pericolo per la sicurezza nazionale, o che gli interessi in gioco risultino di una importanza tale da giustificare l'onere di un impegno militare. Per quanto riguarda la prima possibilità, pare che, almeno allo stato attuale, l'Armenia non sembri orientata a chissà quali svolte geopolitiche. Non soltanto perché, in politica interna, il Partito repubblicano filorusso guidato da stesso Sargsyan continua ad avere la maggioranza parlamentare (nonostante qualche analista sostenga possa finire presto all'opposizione). Ma anche perché il leader del fronte di protesta, Nikol Pashinyan, al di là delle dichiarazioni, non parrebbe intenzionato, nei fatti, ad avvicinarsi troppo alla Nato o all'Unione europea. Questo non tanto per convinzione ideale quanto, semmai, per banale pragmatismo. È cosa nota che l'alleanza atlantica sia ultimamente piuttosto restia a includere tra le sue file le repubbliche post sovietiche; senza poi trascurare che nessuno può essere così ingenuo da ritenere troppo semplice sottrarsi improvvisamente dall'ombrello politico-militare del Cremlino. Alla luce di tutto questo, è allora plausibile credere che Putin possa decidere di muoversi soltanto a fronte di un concreto avvicinamento armeno in direzione della Nato o di Bruxelles: un po' come accadde con la Georgia, nel 2008, o con l'Ucraina, nel 2014. Ma, fino ad allora, è altamente probabile che sarà l'attendismo a caratterizzare gli atteggiamenti del Cremlino sulla questione armena. Anche perché, pur coltivando sino a oggi relazioni tutto sommato amichevoli con l'Occidente, l'Armenia non ha mai mostrato una effettiva volontà di aderire alla Nato o, più in generale, di entrare in rotta di collisione con le politiche di Putin. Non va infine trascurato il fatto che un eventuale avvicinamento all'alleanza atlantica susciterebbe probabilmente le reazioni piccate della Turchia che della Nato fa parte - almeno teoricamente viste le recenti politiche del sultano Recep Tayyip Erdogan che sembra dare l'impressione di avvicinarsi al Cremlino - e che dai tempi dell'Impero ottomano intrattiene relazioni a dir poco ostili con l'Armenia. In secondo luogo, anche qualora il Cremlino non vedesse di buon occhio le recenti dimissioni di Sargsyan, non è detto che gli convenga troppo un intervento militare. Non solo, infatti, la Russia risulta attualmente già coinvolta nel complicato conflitto siriano. Ma il popolo russo sembra contrario ad azioni belliche che non tirino direttamente in ballo la difesa di interessi vitali in termini di sicurezza nazionale. Anche per questo, è abbastanza improbabile che Putin opti per la linea dura (almeno nel breve periodo). E infatti, nelle ultime ore, Mosca ha iniziato a ritagliarsi il ruolo di mediatrice, per arrivare a una soluzione «pilotata» della crisi armena: un modo pragmatico, forse, per salvare capra e cavoli. Incanalando le proteste e salvaguardando i rapporti con un alleato prezioso. In particolare, Putin ha avuto di recente un colloquio telefonico con il primo ministro ad interim, Karen Karapetyan, per arrivare alla nomina di un nuovo capo del governo entro i primi di maggio. La linea del dialogo, insomma, sembra al momento prevalere. Gli occhi del Cremlino restano tuttavia guardinghi. Soprattutto su Pashinyan. Perché una nuova rivoluzione colorata è un rischio che Mosca non vuole assolutamente correre.
Giorgio Locatelli, Antonino Cannavacciuolo e Bruno Barbieri al photocall di MasterChef (Ansa)
Sono i fornelli sempre accesi, le prove sempre uguali, è l'alternarsi di casi umani e talenti ai Casting, l'ansia palpabile di chi, davanti alla triade stellata, non riesce più a proferire parola.
Sono le Mistery Box, i Pressure Test, la Caporetto di Iginio Massari, con i suoi tecnicismi di pasticceria. Sono, ancora, i grembiuli sporchi, le urla, le esterne e i livori fra brigate, la prosopopea di chi crede di meritare la vittoria a rendere MasterChef un appuntamento imperdibile. Tradizionale, per il modo silenzioso che ha di insinuarsi tra l'Immacolata e il Natale, addobbando i salotti come dovrebbe fare l'albero.
MasterChef è fra i pochissimi programmi televisivi cui il tempo non ha tolto, ma dato forza. E il merito, più che dei giudici, bravissimi - loro pure - a rendere vivo lo spettacolo, è della compagine autoriale. Gli autori sono il vanto dello show, perfetti nel bilanciare fra loro gli elementi della narrazione televisiva, come comanderebbe l'algoritmo di Boris. La retorica, che pur c'è, con l'attenzione alla sostenibilità e alla rappresentazione di tutte le minoranze, non ha fagocitato l'impianto scenico. L'imperativo di portare a casa la doggy bag sfuma, perché a prevalere è l'esito delle prove. Il battagliarsi di concorrenti scelti con precisione magistrale e perfetto cerchiobottismo. Ci sono, gli antipatici, quelli messi lì perché devono, perché il politicamente corretto lo impone. Ma, tutto sommato, si perdono, perché accanto hanno chi merita e chi, invece, riesce con la propria goffaggine a strappare una risata sincera. E, intanto, le puntate vanno, queste chiedendo più attenzione alla tradizione, indispensabile per una solida innovazione. Vanno, e poco importa somiglino alle passate. Sono nuovi i concorrenti, nuove le loro alleanze. Pare sempre sincero il divertimento di chi è chiamato a giudicarle, come sincero è il piacere di vedere altri affannarsi in un gesto che, per ciascuno di noi, è vitale e quotidiano, quello del cucinare.
Bene, male, pazienza. L'importante, come ci ha insegnato MasterChef, è farlo con amore e rispetto. E, pure, con un pizzico di arroganza in più, quella dovuta al fatto che la consuetudine televisiva ci abbia reso più istruiti, più pronti, più giudici anche noi del piatto altrui.
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Ecco #DimmiLaVerità del 12 dicembre 2025. Il nostro Alessandro Da Rold ci rivela gli ultimi sviluppi dell'inchiesta sull'urbanistica di Milano e i papabili per il dopo Sala.