2022-01-18
Martina Sammarco: «Per noi trentenni farsi una vita è utopia»
Martina Sammarco con Fabrizio Bentivoglio nella serie tv «Monterossi» (A.Miconi/Amazon Studios)
Nel noir «Monterossi» fa la precaria accanto a Bentivoglio: «La mia generazione è intrappolata in mestieri molto diversi da quelli per cui si studia tanto». La serie parla di crimini, «ma ha il registro della commedia, lo specchio più fedele nel riprodurre la realtà». Nadia Federici ha occhi cangianti, d’un verde che la rabbia fa virare al grigio. «Ha un carattere forte, spesso spigoloso, un’intelligenza brillante unita a una tagliente ironia». Ed è moderna, di quella modernità che non ha solo accezioni positive. Il personaggio creato da Alessandro Robecchi, protagonista con Carlo Monterossi di otto romanzi, è schietto, preparato e - ineluttabilmente - condannato al precariato. Eppure, con sé non porta la retorica pomposa della politica odierna. Nadia Federici, come Monterossi, possiede cinismo sufficiente a leggere con ironia una realtà che d’ironico avrebbe poco. È divertente. Come la saga che l’ha vista crescere e che, da ieri su Amazon Prime Video, si è trasformata in serie televisiva. Questa non è una canzone d’amore e Dove sei stanotte, i primi romanzi che Robecchi ha pubblicato con Sellerio, nel 2014 e nel 2015, sono stati adattati in una produzione inedita. Fabrizio Bentivoglio è diventato Carlo Monterossi, autore televisivo schifato dal suo stesso mestiere, detective per caso. Martina Sammarco, nata ad Asmara 31 anni fa, si è trasformata in Nadia Federici, fedele e critica aiutante di colui che ha deciso di arricchirsi con «la grande fabbrica della merda» senza riuscire, però, ad assolversi per questo suo peccatuccio. Carlo Monterossi, nei romanzi di Robecchi, è colui che ha inventato un programma bizzarro: Crazy Love lo ha chiamato, dove «pazze» sono le storie d’amore delle persone ordinarie. Madri, mogli, mariti e figli, in un racconto del reale che ha fruttato alla televisione milioni di spettatori e a Monterossi migliaia di euro. Per una serie di sfortunate coincidenze, uno scambio di persona, l’autore è vittima di un tentato omicidio, poi di indagini tanto mediocri da necessitare un intervento personale. Insieme a Nadia, sarà protagonista di una vicenda bizzarra in cui vendette di zingari si intrecciano alle azioni di militanti dell’estrema destra. Quello di Nadia è il primo ruolo in cui non le è chiesto di interpretare una straniera. Perché il nostro cinema e la tv faticano tanto a liberarsi di maschere ed etichette? «Penso che spesso la tv sia legata a una rappresentazione della realtà che non va alla velocità della realtà stessa. Ha bisogno di più tempo per introiettare cambiamenti che invece ci appaiono evidenti camminando per strada. A mio parere, è necessario partire dalla scrittura, dalle sceneggiature, dare spazio anche a voci di seconda generazione, creare nuovi immaginari». Nadia Federici nei romanzi di Robecchi è (anche) il simbolo delle nuove generazioni: una giovane piena di talento, costretta però a vivere una vita di precariato. «È un esempio perfetto di cosa voglia dire avere 30 anni oggi in Italia. Fa parte di una generazione, la mia, che continua a specializzarsi e investire nello studio, una generazione che, a conti fatti, non si può nemmeno permettere di vivere da sola. È una generazione che vede la possibilità di avere una famiglia come un’utopia e pensa alla vita che hanno vissuto i propri genitori come ad un modello di stabilità praticamente irraggiungibile. In queste condizioni è facile rimanere intrappolati in lavori che sono lontani da quello per cui ci si è preparati». Di precariato, soprattutto se legato al settore dello spettacolo, si è parlato a lungo in questi due anni. Come ha vissuto il lockdown? «Il settore dello spettacolo è stato fra quelli messi più in difficoltà dalla pandemia. Vengo da una formazione teatrale, ero in tournée quando hanno chiuso i teatri e conosco bene la condizione di immobilità forzata che è arrivata subito dopo, il senso di sconforto e abbandono che hanno provato i lavoratori dello spettacolo dal vivo». Nadia insegna che il talento non sempre è condizione sufficiente ad assicurarsi un posto di lavoro. Quanto è difficile emergere nel cinema? «Non credo che la difficoltà più grande sia emergere. È un mestiere che pare irraggiungibile, mentre a volte tutto sembra succedere velocemente. La vera sfida è consolidare una carriera nel tempo». Nei romanzi di Robecchi, la televisione è «la grande fabbrica della merda». Che rapporto ha con questo media? «Il mio rapporto con la tv generalista è quasi nullo. In compenso uso molto di più le piattaforme streaming per seguire film e serie, un po’ per deformazione professionale e un po’ perché per fortuna non ho mai perso la gioia di essere spettatrice». Monterossi è la prima serie «all’americana», capace cioè di rileggere in chiave ironica un genere tradizionale come il noir. Come mai c’è tanta diffidenza nei confronti della commedia? «Penso che la commedia, come gli altri generi, abbia la sua dignità. Anzi, credo sia forse lo specchio che meglio rifletta la società. Nella nostra tradizione ci sono stati molti attori, etichettati come “comici”, che sono stati capaci di straordinarie interpretazioni drammatiche. Nella vita quotidiana dramma e commedia si mescolano di continuo, al dolore segue la risata e viceversa. E anche in Monterossi è così: l’ironia pungente che caratterizza la serie fa da contrappunto all’empatia del protagonista nei confronti dei vinti, al suo sguardo nostalgico verso un passato che non esiste più». La cronaca vera, in questi giorni, ha portato alla ribalta il caso delle ragazze aggredite a Capodanno in piazza del Duomo a Milano. Come vive all’interno di una società dove la questione femminile rimane tanto urgente? «La questione è ampia e difficile da sintetizzare. I fatti di Capodanno a Milano sono di una gravità indescrivibile e dovrebbero portare ognuno di noi, uomo o donna, a ragionare sulla società in cui viviamo. Quello che è successo è la dimostrazione evidente di quello che spesso è meno visibile e viene “derubricato” come scherzo innocuo, goliardata. È necessario educare all’empatia e al rispetto dell’altro. E in questo penso che anche il teatro possa essere una grande scuola e dare il suo contributo nell’educazione dei giovani».
Jose Mourinho (Getty Images)