- Parere sfavorevole del pm sulla revoca dei domiciliari: ci sarebbe scarsa collaborazione da parte dei genitori dell'ex premier. Secondo l'accusa possono restare amministratori di fatto. Inviarono mail all'Esselunga dopo lo scoop della Verità sul macero.
- Molti clienti hanno lasciato, meno la catena gestita (guardacaso) da un renziano doc.
Lo speciale contiene due articoli
Un noto sito di viaggi ha inserito il Palazzo di giustizia di Firenze tra i cinque edifici più brutti al mondo e anche Vittorio Sgarbi ne ha biasimato «la bruttezza sordida». I genitori di Renzi devono pensarla alla stessa maniera, soprattutto dopo le quattro ore di interrogatori a tratti molto tesi che hanno dovuto affrontare là dentro. Ma a peggiorare la loro percezione dell'edificio ieri è intervenuto il parere negativo del procuratore aggiunto Luca Turco alla revoca dei loro arresti domiciliari. Il motivo del niet è presto detto: i coniugi continuano a negare di essere stati gli amministratori di fatto, almeno sino al marzo 2018, di due cooperative fallite e di una terza, la Marmodiv, sull'orlo del crac, ma ancora in pista. Dunque non stanno contribuendo in nessun modo alle indagini.
Per suffragare la sua tesi Turco ha depositato nuovi atti d'indagine emersi nel secondo filone d'inchiesta, quello sullo stato di dissesto della Marmodiv, da cui emergerebbe in modo chiaro il ruolo direttivo dei genitori e della loro Eventi 6.
Per tale motivo le dimissioni di Laura Bovoli da presidente del consiglio d'amministrazione della Eventi 6 e la cancellazione del marito dal registro degli agenti di commercio non sono stati considerati sufficienti. Anche perché Tiziano, nonostante da un decennio non ricopra più cariche ufficiali, nella Eventi 6 la fa ancora padrone, come avrebbe «sostanzialmente ammesso» in due diverse inchieste (interrogatori dell'8 ottobre 2014, a Genova, e del 5 ottobre 2017, a Rignano sull'Arno). Per questo all'accusa non è bastato l'annunciato passo indietro della Bovoli e di suo marito Tiziano. Senza contare che i due in questo momento non hanno alcun divieto di comunicazione con l'esterno e vivono sopra la Eventi 6, a casa della figlia trentaquattrenne Matilde Renzi, consigliere delegato dell'azienda di famiglia e quindi, attualmente, l'amministratrice ufficiale. Possibile che i genitori, magari a cena, non mettano il becco nelle strategie aziendali che vengono portate avanti dalla figlia al piano di sotto?
Nell'appartamento rignanese vive pure il cognato Andrea Conticini, già braccio destro di Tiziano. Il giovanotto curava, tra l'altro, i rapporti tra la Eventi 6 e la Marmodiv. Non è finita. Il gip Angela Fantechi (chiamata a decidere entro sabato sulla revoca degli arresti), quando li ha mandati ai domiciliari, aveva scritto in modo non equivocabile: «Occorre rilevare che avendo gli stessi rivestito ruoli di amministratori di fatto e avendo gli stessi agito tramite “uomini di fiducia" non è possibile ritenere sufficiente una misura quale il divieto di esercitare uffici diretti di persone giuridiche ed imprese atteso che essa consentirebbe di impedire agli indagati di rivestire solo cariche formali, lasciandoli invece liberi di agire con condotte assai più subdole e pericolose perché di più difficile accertamento». Insomma per il gip i Renzi sono in grado di operare in modo «criminogeno» anche senza «cariche formali».
Per questo la Procura, a quanto risulta alla Verità, aveva chiesto un vero distacco dei Renzi dai propri affari, attraverso la cessione dell'azienda, o, in subordine, degli appalti di volantinaggio o con l'assunzione diretta dei dipendenti necessari all'esecuzione in proprio dei contratti. Tutte condizioni che i Renzi non hanno dato l'impressione di voler accogliere. L'avvocato Bagattini ha ribadito che quello dei volantini è un mercato aleatorio in cui non conviene stabilizzare i lavoratori, ma affidarsi a coop specializzate nel lavoro a cottimo. E infatti alla Eventi 6 risultano solo cinque dipendenti, compresa una nipote.
Il gip ha evidenziato che «la srl Eventi 6, a fronte di un volume di affari che è cresciuto nel corso degli anni (in particolare dal 2014), ha sempre avuto un numero di dipendenti modestissimo (da 3 a 7) operando attraverso personale fornito dalle cooperative Delivery Service, Europe Service, Marmodiv».
Una scelta aziendale confermata anche quando gli affari andavano a gonfie vele. Poi Matteo Renzi ha lasciato Palazzo Chigi e il fatturato del 2017 è calato di circa 1 milione di euro. Le catene della grande distribuzione hanno iniziato a cambiare fornitore perché le aziende dei Renzi hanno distribuito male i volantini e, secondo i magistrati, hanno lucrato sul macero, facendosi rimborsare centinaia di migliaia di euro dalle cartiere per i volantini non spediti. Ma anche in questo caso Bagattini ha provato a rispedire le accuse al mittente e ha rivendicato la buona fede dei suoi clienti depositando una mail di Tiziano Renzi alla Esselunga, «in cui si chiedeva di mandare meno volantini perché avanzavano». In realtà la storia parrebbe un po' diversa. Tra giugno e luglio 2017, nel pieno delle indagini sul crac della Delivery Italia service (da Cuneo era stato appena trasmesso un nuovo faldone, con approfondimenti sulla Marmodiv) babbo Tiziano, a quanto risulta alla Verità, avrebbe spedito all'Esselunga tre comunicazioni in cui faceva presente che rispetto alla montagna volantini inviati ne erano avanzati poche centinaia, al massimo 1.000, e chiedeva dove potesse farli recapitare. Mail che dopo la pubblicazione dei nostri articoli (nel novembre 2016 ne uscì uno intitolato «Esselunga & c. pagavano babbo Renzi, ma i loro volantini finivano al macero») hanno insospettito l'azienda, vista l'esiguità del materiale avanzato di cui si chiedeva la restituzione e la concentrazione di queste mail in un ristretto arco temporale. Tanto da dare l'impressione che si trattasse di excusatio non petita.
Nella difesa dei Renzi, l'Esselunga è rientrata anche per un altro motivo. L'avvocato Bagattini ha spiegato che il pericolo di reiterazione del reato da parte dei suoi assistiti sarebbe scongiurato dal fatto che la Eventi 6 ha perso il suo principale cliente, proprio Esselunga che a luglio 2018 aveva comunicato l'intenzione di non rinnovare il contratto di distribuzione in scadenza il 31 dicembre. Un cliente da 500.000 volantini ogni due settimane. Anche l'Unicoop ha smesso di utilizzare la Marmodiv prima di Ferragosto (350.000 volantini ogni 15 giorni), nonostante la distribuzione fosse programmata sino a fine anno.
Nell'ordinanza si capisce quale sia il motivo della rottura con la Esselunga: la scoperta, da parte del colosso della grande distribuzione, della mancata consegna dei volantini.
I finanzieri hanno intercettato una conversazione telefonica del 5 aprile 2018 tra Tiziano Renzi e Andrea Conticini in cui i due sembrano ammettere le mancate consegne (parlano di distribuzione «blanda»).
Nonostante le carte contengano così tanti elementi di prova, Matteo Renzi, che sostiene di aver letto gli atti, continua a difendere i genitori. Anche se all'ex premier, ospite a Porta a Porta, è sfuggito quello che appare come un lapsus: «Chiedo che per i miei genitori si vada a processo subito; non lo direi se non avessi consapevolezza di quello che è successo». Papera o no, se lo dice lui che è stato dirigente (in aspettativa) dell'azienda di famiglia sino al 2014, verrebbe da credergli.
È noto da tempo che le regole Ue, dai Trattati in giù, siano dotate di eccezionale flessibilità, in modo da essere applicate ai nemici e interpretate per gli amici. Ma ciò che sta accadendo pur di erogare un prestito (di fatto un sussidio) all’Ucraina rischia davvero di superare ogni limite di fantasia legale e finanziaria.
Il primo ostacolo era la procedura in forma scritta per prorogare a tempo indeterminato la sanzione del sequestro degli asset russi (circa 210 miliardi di euro immobilizzati e detenuti in gran parte presso il depositario belga Euroclear). Proprio ieri, è arrivata l’adozione a maggioranza qualificata da parte del Consiglio della proposta basata sull’articolo 122 del Tfue, che permette di agire in caso di emergenze economiche gravi, senza richiedere l’unanimità. Come prevedibile, l’Ungheria ha già annunciato ricorso alla Corte di Giustizia Ue, definendo la mossa «illegale».
Su questo punto, si sprecano i dubbi dei giuristi - da ultimo Marina Castellaneta sul Sole 24 Ore di ieri - sulla legittimità di questa scelta.
Ma il peggio, se possibile, è ancora davanti a noi. Perché si sta preparando, sempre che la Bce accetti di «fare il palo», un’operazione di finanziamento monetario degli Stati membri, vietata dai Trattati. In questo senso, una spia di allarme si era già accesa mercoledì scorso, leggendo l’intervista dell’amministratore delegato di Euroclear, Valerie Urbain, sul Corriere della Sera.
Il timore della Urbain è che se la Ue costringesse Euroclear a cedere la liquidità (e non anche altre attività finanziarie, si badi bene) dei russi immobilizzata nei loro conti, contro un «pagherò» firmato dalla Commissione improduttivo di interessi, si realizzerebbe una confisca di quei beni russi con tutte le conseguenze sulla stabilità finanziaria e sull’affidabilità del mercato dei capitali europeo.
Accadrebbe infatti che, qualora i russi vedessero riconosciuto il loro diritto a vedersi restituire quelle somme, Euroclear non avrebbe più un centesimo in cassa, ma solo un inservibile «pagherò» della Ue. Che la Ue potrebbe onorare soltanto se e quando la Russia pagasse i danni di guerra all’Ucraina, in modo da permettere a quest’ultima di rimborsare Bruxelles. Roba da fantapolitica. È quindi necessario che Euroclear abbia la liquidità necessaria per restituire i soldi ai russi e c’è solo una banca in grado di prendere il «pezzo di carta» della Commissione in garanzia per erogare un prestito di liquidità al depositario belga: la Bce. Ed è proprio lo scenario ipotizzato nell’intervista, quando la Urbain ha risposto che se la Commissione offrisse un titolo di credito «che dia interessi e che dunque la Bce accetti», si andrebbe «in una direzione migliore: sarebbe uno strumento rivendibile in cui possiamo investire».
Da qui si può dedurre - perché se la Bce fosse stata contraria, la Urbain avrebbe dovuto dirlo - che lo spazio a Francoforte c’è. Tanto è vero che la domanda se avesse parlato di questo a Ursula von der Leyen ha ricevuto una risposta possibilista (Be’, stiamo discutendo…).
Quindi è uno scenario concreto che la Bce - pur di non vedere Euroclear diventare insolvente davanti al rimborso dei fondi ai russi, come espressamente ammesso dalla Urbain - crei liquidità dal nulla per fornire un prestito a Euroclear, e accetti come garanzia dai belgi il «pagherò» della Ue, munito delle garanzie pro-quota di tutti gli Stati membri e del bilancio Ue.
È notizia di ieri pomeriggio che la Banca Centrale russa ha citato in giudizio Euroclear davanti al tribunale di Mosca accusando l’istituzione belga di aver reso inaccessibili fondi e titoli con azioni illegali e chiedendo danni pari al valore dei fondi, dei titoli e dei mancati guadagni. La Russia promette di contestare la misura in ogni tribunale internazionale e minaccia ritorsioni, tra cui il sequestro di 17 miliardi di Euroclear detenuti in Russia e possibili nazionalizzazioni.
E qui si concretizza lo scenario del finanziamento monetario. Perché se la Russia non pagasse i danni di guerra o, ancora prima, vedesse riconosciuto il suo diritto al rimborso di quei fondi sequestrati in Belgio, chi rimarrà col cerino in mano sarà Christine Lagarde.
Infatti, a cascata, l’Ucraina non rimborserà il prestito alla Ue, la Ue non rimborserà Euroclear e quest’ultima utilizzerà il prestito Bce per rimborsare i russi, lasciando la garanzia in mano alla Bce. Così a Francoforte si vedranno costretti a chiedere alla Commissione di onorare il «pagherò» ed escutere le garanzie degli Stati membri, a meno di non voler subire una perdita patrimoniale comunque priva di effetti concreti, perché la Bce non potrà mai essere insolvente in euro.
Una versione più raffinata di questa struttura è stata ipotizzata sul Financial Times il 7 dicembre, sempre terminante col cerino in mano alla Bce e in cui si ammette che l’alternativa, costituita dall’emissione di debito comune, non esiste, perché la «capacità di indebitamento della Ue e degli Stati membri è limitata».
Di fronte a tale marchingegno finanziario e legale, la memoria va immediatamente ai tanti «non si può… non ci sono i soldi… è vietato dai Trattati, ecc…» che ascoltiamo in modo ricorrente quando si respingono richieste di fondi per la sanità, l’istruzione, le pensioni o per un taglio di tasse.
Qui sono al lavoro da settimane per tirare come una molla tutte le regole e permettere alla Bce di stampare 90 miliardi con un click e farli partire, via Euroclear e Ue, verso Kiev. Il 18 dicembre ci sarà la decisione finale del Consiglio Europeo e il trucco di questo gioco delle tre carte sarà svelato.
Resta per il momento aggrovigliato il processo di pace in Ucraina. Donald Trump si è mostrato disponibile verso delle garanzie di sicurezza nei confronti di Kiev ma ha al contempo ammesso che un accordo tra i belligeranti sia più lontano del previsto. «Daremmo una mano con la sicurezza perché è, credo, un fattore necessario», ha dichiarato il presidente americano, per poi aggiungere: «Pensavo che fossimo molto vicini a un accordo con la Russia. Pensavo che fossimo molto vicini a un accordo con l’Ucraina. In realtà, a parte il presidente Zelensky, la gente ha apprezzato l’idea dell’accordo».
L’inquilino della Casa Bianca non ha infine del tutto escluso la partecipazione statunitense all’incontro in programma oggi a Parigi sulla crisi ucraina. «Vedremo se partecipare o meno all’incontro», ha detto Trump. «Parteciperemo all’incontro di sabato in Europa se pensiamo che ci siano buone probabilità. E non vogliamo perdere troppo tempo se pensiamo che sia negativo», ha proseguito.
«Il nostro obiettivo è avere una base comune solida per i negoziati. Questo terreno comune deve unire ucraini, americani ed europei», ha affermato, sempre ieri, un funzionario francese. «Ciò dovrebbe consentirci, insieme, di fare un’offerta negoziale, un’offerta di pace solida e duratura che rispetti il diritto internazionale e gli interessi sovrani dell’Ucraina, un’offerta che i negoziatori americani sono disposti a presentare ai russi», ha continuato. Nel frattempo, il governo tedesco ha confermato che Volodymyr Zelensky prenderà parte a un vertice sull’Ucraina che si terrà lunedì a Berlino: un vertice a cui è attesa anche Giorgia Meloni.
In questo quadro, il presidente ucraino ha diffuso un proprio video, registrato nella città di Kupiansk. «Oggi è estremamente importante ottenere risultati in prima linea affinché l’Ucraina possa ottenere risultati nella diplomazia», ha affermato. Dall’altra parte, secondo il Financial Times, il piano di pace attualmente in discussione tra americani e ucraini prevedrebbe un’adesione di Kiev all’Ue entro gennaio 2027. In tutto questo, il primo ministro ucraino, Yulia Svyrydenko, ha reso noto che, ieri, la delegazione di Kiev e quella di Washington hanno tenuto una nuova tornata di colloqui dedicati alla ricostruzione dell’Ucraina.
Sta frattanto trapelando un certo irrigidimento da parte di Mosca. «Non abbiamo visto le versioni riviste delle bozze americane. Quando le vedremo, potremmo non apprezzare molte cose: questa è la mia sensazione», ha affermato il consigliere presidenziale russo, Yuri Ushakov. «Un cessate il fuoco potrà avvenire solo dopo il ritiro delle truppe ucraine», ha continuato, riferendosi al Donbass. «Se non attraverso negoziati, allora con mezzi militari, questo territorio passerà sotto il pieno controllo della Federazione russa. Tutto il resto dipenderà interamente da questo», ha altresì specificato. Ushakov ha anche respinto la proposta, avanzata da Zelensky, di tenere un referendum sul futuro del Donbass. «Il Donbass è russo. Tutto il Donbass è russo», ha detto. Nel frattempo, ieri Vladimir Putin si è incontrato ad Ashgabat con Recep Tayyip Erdogan. Nell’occasione, il presidente turco ha proposto «l’attuazione di un cessate il fuoco limitato, mirato principalmente agli impianti energetici e ai porti». Il sultano ha anche precisato che Ankara sta «seguendo i processi negoziali volti a porre fine alla guerra» e che è «pronta a ospitare colloqui in tutti i formati all’interno di questo quadro».
In tutto questo, sempre ieri, il Washington Post ha rivelato che, in occasione del suo soggiorno negli Stati Uniti per i colloqui diplomatici, il capo delegazione ucraino, Rustem Umerov, ha avuto degli incontri con il direttore dell’Fbi, Kash Patel, e con il suo vice, Dan Bongino. «Alcuni ritengono che Umerov e altri funzionari ucraini abbiano contattato Patel e Bongino nella speranza di ottenere un’amnistia da eventuali accuse di corruzione», ha riferito il quotidiano americano, che ha poi aggiunto: «Altri temono che il canale appena istituito possa essere usato per esercitare pressioni sul governo Zelensky affinché accetti un accordo di pace, proposto dall’amministrazione Trump, che prevede ampie concessioni territoriali per Kiev». Vale a tal proposito la pena di sottolineare come sia Patel che Bongino abbiano manifestato scetticismo, in passato, verso il sostegno statunitense all’Ucraina.
In questo quadro, Guido Crosetto ha espresso delusione sul debole ruolo europeo nei negoziati. «Sono molto deluso dal fatto che siano gli Usa che intervengano per trattare una pace nel cuore dell’Europa. Se domani gli Stati europei dicessero che c’è una persona a rappresentare tutto il negoziato, né Trump né la Russia potrebbero dire di no», ha detto il ministro della Difesa. «Il principio non può essere muovere guerra per fare la pace: è paradossale. Appare insensata la pace evocata da parte di chi, muovendo guerra, pretende in realtà di imporre le proprie condizioni», ha inoltre affermato, riferendosi alla Russia, Sergio Mattarella, che ha anche auspicato che l’Ucraina sia coinvolta nel processo d’integrazione Ue. «L’Europa e l’Italia restano saldamente al fianco dell’Ucraina e del suo popolo», ha altresì detto il capo dello Stato. Si registrano frattanto tensioni tra Roma e Mosca. «Le relazioni fra Italia e Russia stanno attraversando la crisi peggiore dalla fine della Seconda guerra mondiale», ha dichiarato la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, secondo cui l’Italia sarebbe «oggetto di pressioni da parte della Nato e del mondo anglosassone».
La marcia di Bruxelles per utilizzare gli asset russi congelati prosegue imperterrita, nonostante le ripercussioni siano dietro l’angolo. E il primo step in tale direzione è stato raggiunto con il via libera ufficiale sul blocco a tempo indeterminato degli asset russi.
Ad approvare l’uso dell’articolo 122 del Tfue che consente di congelare i beni russi senza scadenza, quindi senza la necessità del rinnovo semestrale e del voto all’unanimità, sono stati 25 Paesi, tra cui il Belgio, la Bulgaria, l’Italia e Malta. Dall’altra parte, a votare contro sono state Ungheria e Slovacchia.
Il sì italiano non è una sorpresa, visto che il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, poco prima aveva comunicato il parere favorevole sul congelamento degli asset sine die. La perplessità italiana riguarda però il passo successivo, ovvero il loro utilizzo: «Noi abbiamo sempre detto che avevamo qualche riserva non tanto sulla scelta politica, quanto sulla base giuridica per l’utilizzo di frozen asset. Ci può essere anche un altro strumento per finanziare l’Ucraina con garanzie che poi devono essere fuori naturalmente del debito pubblico. Quindi è un dibattito in corso».
E queste riserve sono condivise dal Belgio, dalla Bulgaria e da Malta, che insieme all’Italia hanno specificato in una dichiarazione: «Tale voto non pregiudica in alcun caso la decisione sull’eventuale utilizzo dei beni russi immobilizzati che deve essere presa a livello dei leader». I quattro Paesi, riferisce Politico, hanno scritto che «invitano la Commissione e il Consiglio a continuare a esplorare e discutere opzioni alternative in linea con il diritto dell’Ue e internazionale, con parametri prevedibili, che presentino rischi significativamente inferiori, per far fronte alle esigenze finanziarie dell’Ucraina, sulla base di un meccanismo di prestito dell’Ue o di soluzioni ponte». Questa posizione non è detto che metta concretamente i bastoni tra le ruote alla Commissione, ma mina la speranza di Bruxelles di arrivare all’accordo la prossima settimana. Il premier belga, Bart De Wever, però, dopo un bilaterale con l’omologo britannico, Keir Starmer, non ha del tutto escluso l’ipotesi di utilizzare i beni russi per finanziare Kiev. Pur sostenendo che sarà «un’impresa ardua», la ritiene possibile qualora i leader europei cooperino.
Intanto a tirare un sospiro di sollievo è stato il presidente della Commissione Ue, Ursula von de der Leyen, che ha scritto su X: «Stiamo inviando un forte segnale alla Russia: finché questa brutale guerra di aggressione continuerà, i costi per la Russia continueranno ad aumentare. Si tratta di un messaggio potente per l’Ucraina: vogliamo assicurarci che il nostro coraggioso vicino diventi ancora più forte sul campo di battaglia e al tavolo dei negoziati». Il presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, ha aggiunto: «Il prossimo passo è garantire i bisogni finanziari dell’Ucraina per il 2026-27».
Il dossier dei beni russi congelati è stato tra i temi affrontanti ieri durante il Consiglio di economia e finanza dell’Ue (Ecofin). Incalzato dalle domande dei giornalisti durante la conferenza stampa, il commissario Ue all’Economia, Valdis Dombrovskis, non ha mostrato la minima incertezza: «Le proposte» della Commissione Ue sul prestito a Kiev sono «giuridicamente solide, in linea con il diritto dell’Ue e internazionale e sostenute dal fatto che l’Ucraina soddisfi i prerequisiti essenziali». E ha voluto specificare che il lavoro continua «per affrontare le preoccupazioni residue di alcuni Stati membri», soprattutto «il Belgio». Ma il tempo stringe per l’Ue, con la priorità sugli asset russi che sembra scavalcare quella sulle trattative di pace. E quindi Dombrovskis ha ribadito: «È cruciale che troviamo una soluzione, che finalizziamo questo lavoro la settimana prossima. L’Ucraina ha un fabbisogno urgente di finanziamenti». Presente al suo fianco durante le dichiarazioni alla stampa, il ministro dell’Economia danese, Stephanie Lose, ha dichiarato che l’utilizzo degli asset russi «è la soluzione migliore» anche se «non è perfetta».
Dall’altra parte, il presidente russo, Vladimir Putin, ha affrontato il dossier con l’omologo turco, Recep Tayyip Erdogan, definendo le manovre europee come una «truffa colossale». Ma Mosca alle parole ha dato seguito coi fatti: la Banca centrale russa ha presentato ricorso contro Euroclear per «azioni illegali» che «hanno provocato danni alla Banca di Russia». E ha dichiarato che contesterà i tentativi di bloccare i suoi asset «in tutte le sedi competenti». A prendere la questione sottogamba è stato Dombrovskis, che ha commentato: «L’Ue ritiene che questi depositari centrali di titoli possano compensare qualsiasi sequestro in Russia con beni congelati o immobilizzati detenuti qui. Possiamo aspettarci che la Russia continui ad avviare procedimenti legali speculativi per impedire all’Ue di rispettare il diritto internazionale e per far valere l’obbligo legale della Russia di risarcire l’Ucraina per i danni causati loro».
Le reazioni isteriche della sinistra lasciano il campo alle mosse istituzionali: ieri la notizia della probabile vendita da parte degli Elkann all’armatore ed editore greco Theodore Kyriakou di tutte le attività del gruppo Gedi, ovvero i quotidiani La Repubblica (ieri in sciopero) e La Stampa, il sito HuffPost.it e le radio, Deejay e Capital, è stata oggetto di incontri tra governo, editori e rappresentanze dei lavoratori. Lo sciopero di Repubblica è stato accompagnato da un comunicato apocalittico del Cdr, in cui si chiamava alla «difesa delle garanzie democratiche fondamentali per l’intero Paese», dato che «in ballo non c’è un semplice marchio, ma la sopravvivenza stessa di un pensiero critico».
Quanto al presunto ruolo di mediatore di Matteo Renzi nell’affare, ieri, a Otto e mezzo, l’ex premier ha commentato; «È evidente che non sono il mediatore dell’affare Gedi o altro. Conosco molti dei personaggi in questione. Credo di aver capito come tutti che Elkann intende uscire dal mondo dell’editoria. Se accadrà, spero che a prendere in mano il gruppo sia qualcuno di capace».
Giornata piena, quella di ieri, per il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’Informazione e all’Editoria, Alberto Barachini, che ha incontrato sia i vertici di Gedi che i Cdr di Repubblica e Stampa. «Barachini», si legge in una nota, «ha ascoltato tutte le preoccupazioni espresse dal Cdr di Repubblica e Stampa, condividendo con loro le garanzie chieste questa mattina (ieri, ndr) ai vertici del gruppo. Sto seguendo con la massima attenzione l’intera vicenda», prosegue il comunicato di Barachini.
Soddisfatta quindi la richiesta delle opposizioni di un impegno del governo, va registrato il commento positivo del Comitato di redazione di Repubblica che, «ricevuto dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’Informazione e all’Editoria, Alberto Barachini, accoglie con fiducia l’impegno del governo a seguire passo passo l’evolversi della trattativa per la cessione del gruppo Gedi e in particolare la condivisione, da parte del governo, della richiesta a Gedi di mettere sul tavolo delle trattative le dovute garanzie a tutela dei livelli occupazionali e dell’indipendenza. Il governo ha anche assicurato che eserciterà i suoi poteri di vigilanza sulla presenza di eventuali quote extraeuropee nella compagine societaria del gruppo Kyriakou individuato come acquirente da Gedi. Impegno e rassicurazioni, quelle fornite dal sottosegretario Barachini», aggiunge il Comitato di redazione, «che rafforzano e sostengono la battaglia delle giornaliste e dei giornalisti di Repubblica a salvaguardia del loro lavoro e di una testata che da 50 anni costituisce una delle voci più importanti nel panorama di un’informazione libera e indipendente nel nostro Paese». Barachini, come dicevamo, ha ricevuto anche i vertici di Gedi: «La proprietà», si legge in una nota del presidente Paolo Ceretti e dell’ad Gabriele Comuzzo, »ha deciso di approfondire le trattative con il gruppo Antenna, un gruppo media con significativa presenza internazionale, che opera in 22 Paesi, con portafoglio prodotti multisettoriale (Tv, Digital, Radio, Cinema, Eventi, Formazione, Musica, Editoria) e con 35 anni di esperienza nel settore. Sono aspetti concreti che dimostrano le dimensioni e l’ambizione di una realtà, che mira a dare ulteriore impulso allo sviluppo di Gedi, nella convinzione che la sostenibilità economica sia fondamentale per garantire piena indipendenza editoriale. L’incontro con il sottosegretario Barachini si è svolto in un clima di ampia e piena condivisione e collaborazione istituzionale. Tra i temi oggetto di particolare attenzione, sono stati sottolineati la necessità di preservare il pluralismo informativo, l’indipendenza editoriale delle redazioni e le garanzie occupazionali. Questi temi», conclude la nota, «sono sempre stati prioritari per Gedi e per il suo azionista e il dialogo con Antenna Group è la migliore soluzione per raggiungere questi obiettivi».





