In un anno diminuita dell’8% la quantità di alimenti comprata dagli italiani. Che però hanno speso il 5% in più. La manovra (contro cui scioperano i sindacati) mette una toppa. Ma la soluzione è geopolitica.
In un anno diminuita dell’8% la quantità di alimenti comprata dagli italiani. Che però hanno speso il 5% in più. La manovra (contro cui scioperano i sindacati) mette una toppa. Ma la soluzione è geopolitica.La manovra si avvia a entrare nel tunnel degli emendamenti. Solo dai 5 stelle ne arriveranno 800. I vari gruppi parlamentari sanno che possono attingere a un bacino di modifiche che cuba qualcosa come 400 milioni di euro di spese. Ovviamente come accade da cinque anni a questa parte si arriverà a chiudere la partita il 28 del mese accelerando sul finale e tagliando corto. Speriamo che le modifiche vadano a migliorare lo schema, nel complesso il perimetro non sarà toccato. Nel senso che non può essere toccato. La spesa è quella stabilità, circa 35 miliardi, di cui circa due terzi vanno a tappare l’enorme buco provocato dall’aumento dei costi energetici. Il deficit finisce però a esaurirsi con la toppa. Il resto è coperto da nuove tasse che anche se a saldo zero andranno a toccare qualcuno. Meno fondi per il reddito di cittadinanza, meno soldi per le pensioni, più imposte per il ceto medio che si vedrà tagliare le tax expenditures e più imposte per le circa 6.000 società (grandi, piccole e minuscole) che saranno chiamate a fare meno utili per contribuire con gli extraprofitti al taglio delle bollette. «Le risorse della manovra di bilancio sono limitate», ha detto ieri il premier Giorgia Meloni, «La nostra intenzione è quella di fare di più, ma dobbiamo confrontarci con margini di spesa ridotti». Una frase breve che riassume benissimo la realtà dei fatti. Il premier fa bene a difendere la flat tax e l’intervento sui redditi da lavoro. A chi la critica dovrebbe rispondere mostrando le «Country raccomandations» targate Ue e datate 2019. Lì dentro si spiega che i governi devono concorrere alla riduzione del tax gap in varie maniere. È vero c’è il ricorso alla digitalizzazione, ma anche la riduzione della pressione fiscale sul lavoro. Esattamente ciò che fa la flat tax. Visto che per la sinistra i paper dell’Ue sono vangelo la polemica dovrebbe finire qui. Continua solo per motivi ideologici e purtroppo non focalizza né i giornali né l’opposizione sui temi da affrontare. Gli oltre 22 miliardi messi a deficit a tappare la voragine degli extra costi energetici (parliamo solo nel 2022 di quasi 70 miliardi di euro) si esauriranno a fine marzo. Che cosa succederà dopo? Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti l’altro ieri in Aula ha voluto rassicurare tutti spiegando che ci saranno nuove misure di sostegno. Quanti soldi serviranno dipenderà dall’andamento dei prezzi del gas e - aggiungiamo noi - da quelli dei metalli industriali, la cui crescita si appresta a diventare la nuova bolla. Il rischio di andare avanti con il metodo Draghi (fare deficit, lasciare le tasse invariate e utilizzare gli extra gettiti per ridare i soldi a determinate categorie) sta nell’alimentare continuamente il percorso inflattivo. Tradotto in altre parole, dallo scorso aprile l’Italia è appesa alle promesse Ue sul price cap (un obiettivo impossibile da raggiungere) e assiste all’enorme voragine che uccide la capacità produttive delle aziende. Invece che tappare la voragine si è raccolta altra acqua da terra e la si è versata nel buco nella speranza di dare da bere agli assetati. È chiaro a tutti che non si può andare avanti a lungo. A dirlo non siamo noi. Basta andare a prendere i dati diffusi dall’Istat in merito ai consumi degli italiani relativi al mese di ottobre. Nella tabella in pagina si vede chiaramente, rispetto all’ottobre 2021, la forchetta che si sta aprendo tra il dato relativo ai valori spesi e ai volumi consumati. Gli italiani spendono molto di più per consumare di meno. Il carrello della spesa è l’esempio tremendamente perfetto. La spesa è crescita circa del 5% a fronte di consumi diminuiti del 7,9%. Si potrebbe dire che la somma (13%) è il dato reale dell’inflazione e quindi dell’impoverimento degli italiani. E ciò vale per definizione per una spesa che è incomprimibile. A meno che si voglia immaginare che gli italiani debbano smettere di mangiare. Se poi andiamo a spulciare i dati relativi alla grande distribuzione si vede che le grandi catene hanno aumentato i flussi, ma a crescere del 10% sono i volumi dei discount. Gli acquisti non alimentari sono invece crollati del 9%. In pratica gli italiani tagliano quello che possono. Continuare ad alimentare a deficit o con nuovo scostamento queste dinamiche non cambierà la situazione inflattiva del Paese. La manovra aiuta i più poveri, ma non stanzia nulla per il ceto medio. Altri due anni di inflazione a due cifre uccideranno il ceto medio e a quel punto non basteranno i soldi per sostenere i poveri. Si chiama circolo vizioso. Tagliare la rivalutazione delle pensioni è servito ad aiutare con un miliardo e mezzo le famiglie più numerose, ma tutti sanno che gli assegni dei nonni sono spesso necessari a sostenere i portafogli dei nipoti. In parole povere, il governo a un certo punto arriverà a un bivio. O allinearsi con il volere della Banca centrale (che combatte l’inflazione solo a parole) oppure trovare una soluzione geopolitica per tappare la voragine che drena risorse, fondi e capacità produttiva. L’Italia non può permettersi di spendere anche nel 2023 una extra bolletta da 70 miliardi. E la soluzione occulta dell’Europa (tagliare i consumi) riporta la nostra economia comunque al punto di partenza. La produzione crollerebbe e la nostra bilancia commerciale andrebbe ancora di più in negativo. Non è facile trovare una soluzione, però sarebbe interessante avviare un dibattito trasparente.
La poetessa russa Anna Achmatova. Nel riquadro il libro di Paolo Nori Non è colpa dello specchio se le facce sono storte (Getty Images)
Nel suo ultimo libro Paolo Nori, le cui lezioni su Dostoevskij furono oggetto di una grottesca polemica, esalta i grandi della letteratura: se hanno sconfitto la censura sovietica, figuriamoci i ridicoli epigoni di casa nostra.
Obbligazionario incerto a ottobre. La Fed taglia il costo del denaro ma congela il Quantitative Tightening. Offerta di debito e rendimenti reali elevati spingono gli operatori a privilegiare il medio e il breve termine.
Alice ed Ellen Kessler nel 1965 (Getty Images)
Invece di cultura e bellezza, la Rai di quegli anni ha promosso spettacoli ammiccanti, mediocrità e modelli ipersessualizzati.
Il principe saudita Mohammad bin Salman Al Sa'ud e il presidente americano Donald Trump (Getty)
Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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