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2022-05-30
Per l’estate mancano 300.000 lavoratori
È la prima estate normale. Dopo oltre due anni di pandemia, i turisti sono tornati a invadere le città e le località sulle coste. Le stime indicano che sarà una stagione con i botti. Tutto bene, quindi? Non proprio. Il nostro Paese, che avrebbe dovuto mettere a frutto il periodo pandemico per raddrizzare le storture legislative che affliggono il settore, arriva impreparato all’appuntamento con l’estate dei record. Le istanze degli albergatori sulla concorrenza sleale dei b&b non sono state ascoltate. Le grandi piattaforme delle prenotazioni sul Web continuano a dettar legge, schiacciando le agenzie di viaggi. E anche il reddito di cittadinanza continua a creare una vera emergenza per l’occupazione stagionale. Uno scenario paradossale, che non solo penalizza gli operatori del turismo, ma sottrae risorse al Paese in un momento in cui il turismo è uno dei pochi comparti che potrebbe dare una mano a sollevare il pil.
Le città d’arte come le località dei litorali sono il regno incontrastato degli affitti brevi in nero. Mansarde, locali abusivi, perfino garage sono riadattati alla meglio e messi a reddito. L’operazione è semplice; basta inserire la struttura sui grandi portali delle prenotazioni online e il gioco è fatto. Nessuno verrà a controllare perché queste piattaforme non forniscono l’indirizzo esatto dell’immobile, ma si limitano a indicare l’area, magari aggiungendo qualche foto scenografica per solleticare l’interesse del turista. In questo modo, acchiappare gli abusivi equivale a cercare un ago in un pagliaio. I proprietari di queste case, non essendo registrati e privi di qualsiasi licenza, non devono sottostare alle regole sanitarie imposte dalle Asl e tanto meno dotarsi dei dispositivi di sicurezza che invece sono richiesti agli alberghi. Ma soprattutto godono del vantaggio competitivo di potersi sottrarre al versamento della tassa di soggiorno e di pagare Imu e Tari come se fossero semplici cittadini e non gestori di una struttura ricettiva. La maggior parte delle città europee ha posto un freno a questa forma di abusivismo, ma in Italia sembra che il problema non si possa - o voglia - risolvere.
Allo stesso modo non si riesce a mettere un argine allo strapotere che le piattaforme di prenotazione esercitano sul mercato ai danni degli alberghi e delle agenzie di viaggi. Per chi è nel turismo, fare a meno di Expedia o di Booking, solo per citare un paio tra le maggiori, è impossibile. Ormai chi vuole programmare un viaggio si rivolge alle agenzie online perché è più comodo, e anche con la convinzione, che spesso è un’illusione, di trovare l’offerta scontata. Da questa posizione di predominio, esplosa negli ultimi anni, favorita anche dal disinteresse delle autorità europee, esse impongono pesanti commissioni alle transazioni: si va dal 10 al 20% con punte anche fino al 30% sul costo della prenotazione. D’altronde, le agenzie online riescono a veicolare volumi di turisti da tutto il mondo e sono diventate indispensabili.
L’unico tentativo di porre un argine a questa sorta di monopolio vessatorio, effettuato su iniziativa del senatore di Forza Italia Massimo Mallegni, è fallito. L’emendamento al decreto Taglia prezzi, per introdurre un tetto massimo dell’8% alle commissioni sulle prenotazioni, è stato bocciato - così si è detto - per evitare un sicuro intervento dell’Antitrust europea contro l’introduzione di un limite alla libertà di iniziativa economica e di impresa. Questi colossi del Web non solo stritolano gli alberghi e le agenzie fisiche che devono sostenere i costi dei negozi e del personale, ma sono piuttosto opache nel pagamento dell’Iva, come ha denunciato Mallegni. A perderci quindi sono tutti.
L’altro paradosso di questa estate è che l’aumento della domanda di personale da parte degli esercizi pubblici potrebbe non essere soddisfatta. Come è possibile, a fronte di due milioni di disoccupati? Eppure ristoranti, bar, alberghi, discoteche, faticano a trovare addetti. Gli annunci vanno deserti o chi si presenta pone condizioni (dal fine settimana libero a nessuno straordinario serale) impossibili da soddisfare. È l’effetto del reddito di cittadinanza irrobustito dai bonus elargiti, dei quali i 200 euro una tantum erogati a luglio sono solo gli ultimi. Con 700 euro in tasca di reddito di cittadinanza, perché impegnarsi per poche centinaia di euro in più dietro il banco di un bar fino a tardi, o nella cucina di un ristorante, o a portare sdraie e ombrelloni in spiaggia? Prima un disoccupato lottava per il contratto fisso o quello stagionale regolare, ora invece si preferisce concordare con il datore di lavoro una soluzione precaria, magari al nero, pur di continuare a riscuotere il sussidio pubblico.
Secondo la Confcommercio nel 2019, anno pre pandemia, bar e ristoranti avevano 80.400 dipendenti, scesi a 56.800 nel 2020, risaliti a 59.200 nel 2021: a tutt’oggi mancherebbero 21.200 lavoratori. Molti ristoranti hanno scelto di aprire solo a pranzo o a cena, e spesso vi lavora tutta la famiglia, mentre alcuni bar hanno sostituito la consumazione al tavolo con le macchinette che distribuiscono le bibite o il servizio solo al banco. La Confartigianato, che stima con un afflusso inaspettato di turisti, un aumento di introiti tra il 5 e il 7%, ritiene che sono difficili da reperire 3 lavoratori su 10 (il 32%).
«Trovare un cuoco è diventata una caccia al tesoro»
«È diventata una caccia al tesoro. Trovare un cameriere, un cuoco, un addetto alle cucine, un barman è un’impresa titanica. Durante la pandemia abbiamo registrato 190.000 dimissioni di personale a tempo indeterminato in tutto il settore dei pubblici esercizi. Nella ristorazione mancano 200.000 addetti e oltre 130.000 stagionali. Sarà un’estate grandiosa, ma pochissimi riusciranno ad averne i benefici, perché non siamo in grado di soddisfare la domanda». Aldo Cursano, presidente vicario di Fipe Confcommercio, la Federazione degli esercizi pubblici e presidente di Confcommercio Toscana, lancia l’allarme. «Reddito di cittadinanza e bonus vari sono diventati un disincentivo a lavorare. Il messaggio che sta passando è: “state a casa, tanto lo Stato pensa a voi”. Ditemi quale giovane è disposto a rinunciare a 700 euro che gli arrivano standosene comodamente a casa, per lavorare in una pizzeria fino a tardi. E sa cosa ci propongono quelli che si affacciano nei nostri ristoranti? Pretendono forme contrattuali poco chiare pur di continuare a usufruire del reddito di cittadinanza».
Lei è anche proprietario di due ristoranti a Firenze e di un bar storico. Quale è la sua esperienza?
«Ho dovuto rivedere le fasce di orario, altrimenti non ce la faccio. Mi tocca chiudere la domenica alle 15 e durante la settimana ho previsto un turno unico, a cena. Non riesco a trovare personale. Vengono qui e mi dicono che hanno il sostegno pubblico, che non lo vogliono perdere, che non intendono lavorare nei fine settimana, che vogliono un rapporto saltuario. Mi chiedo dove siano i milioni di disoccupati di cui parla l’Istat. È un’emergenza seria».
E il vostro personale storico?
«Perso con la pandemia. Non riuscendo a sopravvivere con la cassa integrazione, arrivata pure in ritardo, ha preferito cercare un’occupazione in altri settori, come i supermercati o le aziende di consegne. La ristorazione, dopo due anni di blocco, non ha più l’appeal di un impiego stabile e sicuro. La pioggia di sostegni pubblici sta disincentivando la ricerca di un’occupazione. Aggiungiamo il modello di vita che ha preso piede durante la pandemia».
Che intende?
«Più spazio al tempo libero. Lo smart working ha impigrito le persone. Ora ci troviamo nella situazione paradossale che la ripresa del turismo estivo potrebbe dare impulso all’economia, contribuire alla ripresa ma non si trova chi vuole lavorare. È un deficit che interessa vari settori industriali».
Ma allora come fate? Vi rivolgete agli immigrati?
«L’attività di cameriere o di cuoco come quella di barman non si può affidare al primo che passa. Miscelare un cocktail non s’improvvisa. Organizzare un menu, fare il cuoco, non ci si improvvisa. Le strutture che lavorano solo con gli stagionali, come quelle sui litorali, faticano ad aprire proprio per la mancanza di personale. E chi apre offre solo la cena e non il pranzo e chiude un paio di giorni la settimana. Il settore sta cambiando pelle, si sta riorganizzando».
In che modo?
«Sempre più bar servono da bere solo al banco e non ai tavoli, o hanno installato i distributori automatici di bibite e gelati. Ma in questo modo viene meno il rapporto con il cliente che fa parte dello stile italiano».
Avete posto il problema al governo?
«Non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire. Manca la percezione di ciò che sta succedendo sul mercato del lavoro. Sembra che il problema siamo noi ristoratori che non vogliamo pagare i dipendenti. Le iniziative governative allontano le persone dall’attività produttiva. Chi non lavora viene pagato mentre chi lavora è tassato in modo spropositato. È questo il meccanismo che crea la disoccupazione. Sapesse che rabbia mi fa vedere questi giovani seduti a prendere l’aperitivo pagato con il reddito di cittadinanza».
«Nessuna difesa dai colossi online»
«Si fa presto a dire estate da record. Le premesse ci sono ma si rischia che i guadagni vadano a finire all’estero, nelle casse delle piattaforme online delle prenotazioni. Non solo. Rischiamo di essere danneggiati anche da iniziative nazionali, come i portali allo studio per promuovere il “prodotto Italia” che, se non fatti nel modo giusto, ci tagliano fuori dal mercato turistico». Fulvio Avataneo è il presidente dell’Aiav, associazione che riunisce 1.900 agenti di viaggio. È fuori di sé: «Si fanno iniziative encomiabili ma se si finisce per favorire i soliti noti, allora noi non ci stiamo».
Non siete felici che si prospetti un’estate con il pieno di prenotazioni?
«Sì, tutto lascia stimare che sarà un’estate gloriosa. Dopo oltre due anni di fermo, le persone hanno voglia di viaggiare. Questo dovrebbe far felici le agenzie di viaggi, ma lo sono solo in parte. Da anni il grosso delle prenotazioni non passa più tramite i nostri canali. Tutti su Internet a illudersi di trovare una camera d’albergo a prezzo stracciato o un volo quasi regalato. Ma sono pronto a dimostrare che nove volte su dieci la soluzione più vantaggiosa si trova nell’agenzia di viaggi. Che offre anche la possibilità, da non sottovalutare, di essere un interlocutore fisico qualora qualcosa non dovesse funzionare, per cambi di programma. Purtroppo combattiamo contro stereotipi difficili da smontare».
Ma è la concorrenza.
«Le piattaforme online sono riuscite a creare una condizione di quasi monopolio perché c’è chi glielo ha permesso. L’Ue non è mai voluta intervenire a regolamentare il settore. Manca la volontà di prendere posizione su una situazione spinosa che mette a rischio la sopravvivenza delle imprese. È la stessa latitanza emersa verso le big tech come Facebook e Google. Ogni tanto arriva una sanzione, ma sono briciole rispetto al giro d’affari. Nel caso di Booking, Expedia e altri portali di prenotazione, non ci sono nemmeno le sanzioni. Sono liberi di imporre le proprie regole e di sottrarre i guadagni al territorio dove operano. Per esempio, dietro un colosso come Amazon ci sono tante micro imprese che hanno trovato un canale distributivo: Booking invece impone commissioni capestro agli albergatori. Questi sono scontenti ma opporsi è impossibile. Il governo dovrebbe progettare un’alternativa in grado di tutelare le agenzie di viaggi».
Il portale Italia.it promuove le eccellenze del nostro Paese.
«Iniziativa lodevole, per la quale c’è anche uno stanziamento importante, ben 114 milioni di euro. Noi però non siamo stati coinvolti. E se la piattaforma dirotta i turisti verso Internet e non verso le agenzie di viaggi nazionali per acquistare i pacchetti turistici, è un boomerang perché si tagliano fuori le aziende italiane a vantaggio delle piattaforme Web internazionali. E poi non è chiara la forma di questo progetto. È stato detto che verrà implementato nei prossimi mesi, ma come e da chi, è un mistero. Mi preoccupa anche la piattaforma di Ita, la nuova Alitalia, che insieme al volo offre pacchetti di alberghi e tour. Nemmeno qui siamo stati coinvolti».
«Quante trappole per chi viaggia»
«L’estate riserva trappole al turista poco accorto. La ricerca frenetica su Internet dell’offerta più vantaggiosa consente ai motori di ricerca di profilare l’utente per poi sommergerlo di proposte. Ma questo, se vogliamo, è l’aspetto più innocuo dell’uso massiccio del Web che si fa nei mesi estivi. Il pericolo viene invece dall’utilizzo delle reti aperte, cioè quando usiamo il wifi di aeroporti, alberghi, bar, ristoranti. È qui che scatta la trappola». Pierluigi Paganini esperto di sicurezza cibernetica e intelligence, svela l’altra faccia delle vacanze.
Perché è un rischio usare il wifi di alberghi e ristoranti?
«Le reti aperte consentono più facilmente l’accesso ai nostri dispositivi connessi e ai dati che conserviamo e scambiamo attraverso di essi. Quando usiamo il wifi di un albergo, un ristorante, un bar, un aeroporto, un centro congressi, è come se mettessimo i nostri dati (mail, numeri delle carte di credito, account social) a disposizione di tutti coloro che accedono a quella rete, compresi i criminali informatici. Lo spionaggio industriale prende di mira proprio manager di aziende in viaggio di lavoro, quando si connettono a reti aperte».
Che cosa significa essere intercettati?
«Che le nostre operazioni online sono osservate, esponendoci al furto d’identità. Un hacker, carpito l’accesso ai nostri dati, può disporre una transazione bancaria, inviare codici malevoli ai nostri contatti o realizzare frodi finanziarie».
Come ci si protegge?
«Quando si è su reti aperte di cui non abbiamo il controllo, sarebbe opportuno usare applicazioni Vpn (Virtual private network). Sono software commerciali che creano una sorta di tunnel riservato sul quale veicolare il nostro traffico dati. Pur essendo su una rete aperta, le informazioni non saranno più accessibili a occhi indiscreti».
Può accadere di essere tracciati dai motori di ricerca che approfittano per proporci soluzioni più care?
«I prezzi dei voli aerei sono condizionati da diversi fattori, come il margine di anticipo in cui si vuole prenotare, le destinazioni, le stagioni. Ci sono diverse teorie sui giorni della settimana e gli orari in cui assicurarsi prezzi più vantaggiosi. Piuttosto, quando l’utente fa una ricerca sul Web è subito profilato. Le informazioni raccolte servono per proporre altri servizi. Il biglietto aereo diventa quindi l’ultimo aspetto di questo ricchissimo mercato. Lasciare i propri dati su Internet disponibili a chiunque espone a numerosi pericoli».
Per esempio?
«Dal furto di identità a furti in appartamento. Mentre si è in viaggio, si tende a postare foto dei luoghi di vacanza. Bande di criminali setacciano il Web proprio per capire chi ha lasciato la casa vuota nelle settimane estive. A quel punto per svaligiare l’appartamento si va a colpo sicuro».
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Sulla carta promette di essere una grande stagione. Ma il poco personale e il far west degli affitti e del Web compromettono le vacanze serene. Nell’indifferenza del governo.Il numero due di Confcommercio Aldo Cursano: «Nella ristorazione mancano 300.000 lavoratori. Le paghe sono buone, la colpa è dei sussidi».Il presidente delle agenzie viaggi Fulvio Avataneo: «L’Ue non ha mai regolamentato le prenotazioni sui portali. Così nessuno si accorge delle commissioni nascoste che ci penalizzano».L’esperto Pierluigi Paganini: collegarsi ai wifi negli aeroporti è molto rischioso.Lo speciale contiene quattro articoliÈ la prima estate normale. Dopo oltre due anni di pandemia, i turisti sono tornati a invadere le città e le località sulle coste. Le stime indicano che sarà una stagione con i botti. Tutto bene, quindi? Non proprio. Il nostro Paese, che avrebbe dovuto mettere a frutto il periodo pandemico per raddrizzare le storture legislative che affliggono il settore, arriva impreparato all’appuntamento con l’estate dei record. Le istanze degli albergatori sulla concorrenza sleale dei b&b non sono state ascoltate. Le grandi piattaforme delle prenotazioni sul Web continuano a dettar legge, schiacciando le agenzie di viaggi. E anche il reddito di cittadinanza continua a creare una vera emergenza per l’occupazione stagionale. Uno scenario paradossale, che non solo penalizza gli operatori del turismo, ma sottrae risorse al Paese in un momento in cui il turismo è uno dei pochi comparti che potrebbe dare una mano a sollevare il pil.Le città d’arte come le località dei litorali sono il regno incontrastato degli affitti brevi in nero. Mansarde, locali abusivi, perfino garage sono riadattati alla meglio e messi a reddito. L’operazione è semplice; basta inserire la struttura sui grandi portali delle prenotazioni online e il gioco è fatto. Nessuno verrà a controllare perché queste piattaforme non forniscono l’indirizzo esatto dell’immobile, ma si limitano a indicare l’area, magari aggiungendo qualche foto scenografica per solleticare l’interesse del turista. In questo modo, acchiappare gli abusivi equivale a cercare un ago in un pagliaio. I proprietari di queste case, non essendo registrati e privi di qualsiasi licenza, non devono sottostare alle regole sanitarie imposte dalle Asl e tanto meno dotarsi dei dispositivi di sicurezza che invece sono richiesti agli alberghi. Ma soprattutto godono del vantaggio competitivo di potersi sottrarre al versamento della tassa di soggiorno e di pagare Imu e Tari come se fossero semplici cittadini e non gestori di una struttura ricettiva. La maggior parte delle città europee ha posto un freno a questa forma di abusivismo, ma in Italia sembra che il problema non si possa - o voglia - risolvere. Allo stesso modo non si riesce a mettere un argine allo strapotere che le piattaforme di prenotazione esercitano sul mercato ai danni degli alberghi e delle agenzie di viaggi. Per chi è nel turismo, fare a meno di Expedia o di Booking, solo per citare un paio tra le maggiori, è impossibile. Ormai chi vuole programmare un viaggio si rivolge alle agenzie online perché è più comodo, e anche con la convinzione, che spesso è un’illusione, di trovare l’offerta scontata. Da questa posizione di predominio, esplosa negli ultimi anni, favorita anche dal disinteresse delle autorità europee, esse impongono pesanti commissioni alle transazioni: si va dal 10 al 20% con punte anche fino al 30% sul costo della prenotazione. D’altronde, le agenzie online riescono a veicolare volumi di turisti da tutto il mondo e sono diventate indispensabili. L’unico tentativo di porre un argine a questa sorta di monopolio vessatorio, effettuato su iniziativa del senatore di Forza Italia Massimo Mallegni, è fallito. L’emendamento al decreto Taglia prezzi, per introdurre un tetto massimo dell’8% alle commissioni sulle prenotazioni, è stato bocciato - così si è detto - per evitare un sicuro intervento dell’Antitrust europea contro l’introduzione di un limite alla libertà di iniziativa economica e di impresa. Questi colossi del Web non solo stritolano gli alberghi e le agenzie fisiche che devono sostenere i costi dei negozi e del personale, ma sono piuttosto opache nel pagamento dell’Iva, come ha denunciato Mallegni. A perderci quindi sono tutti.L’altro paradosso di questa estate è che l’aumento della domanda di personale da parte degli esercizi pubblici potrebbe non essere soddisfatta. Come è possibile, a fronte di due milioni di disoccupati? Eppure ristoranti, bar, alberghi, discoteche, faticano a trovare addetti. Gli annunci vanno deserti o chi si presenta pone condizioni (dal fine settimana libero a nessuno straordinario serale) impossibili da soddisfare. È l’effetto del reddito di cittadinanza irrobustito dai bonus elargiti, dei quali i 200 euro una tantum erogati a luglio sono solo gli ultimi. Con 700 euro in tasca di reddito di cittadinanza, perché impegnarsi per poche centinaia di euro in più dietro il banco di un bar fino a tardi, o nella cucina di un ristorante, o a portare sdraie e ombrelloni in spiaggia? Prima un disoccupato lottava per il contratto fisso o quello stagionale regolare, ora invece si preferisce concordare con il datore di lavoro una soluzione precaria, magari al nero, pur di continuare a riscuotere il sussidio pubblico. Secondo la Confcommercio nel 2019, anno pre pandemia, bar e ristoranti avevano 80.400 dipendenti, scesi a 56.800 nel 2020, risaliti a 59.200 nel 2021: a tutt’oggi mancherebbero 21.200 lavoratori. Molti ristoranti hanno scelto di aprire solo a pranzo o a cena, e spesso vi lavora tutta la famiglia, mentre alcuni bar hanno sostituito la consumazione al tavolo con le macchinette che distribuiscono le bibite o il servizio solo al banco. La Confartigianato, che stima con un afflusso inaspettato di turisti, un aumento di introiti tra il 5 e il 7%, ritiene che sono difficili da reperire 3 lavoratori su 10 (il 32%). <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/per-estate-mancano-300000-lavoratori-2657408287.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="trovare-un-cuoco-e-diventata-una-caccia-al-tesoro" data-post-id="2657408287" data-published-at="1653835820" data-use-pagination="False"> «Trovare un cuoco è diventata una caccia al tesoro» «È diventata una caccia al tesoro. Trovare un cameriere, un cuoco, un addetto alle cucine, un barman è un’impresa titanica. Durante la pandemia abbiamo registrato 190.000 dimissioni di personale a tempo indeterminato in tutto il settore dei pubblici esercizi. Nella ristorazione mancano 200.000 addetti e oltre 130.000 stagionali. Sarà un’estate grandiosa, ma pochissimi riusciranno ad averne i benefici, perché non siamo in grado di soddisfare la domanda». Aldo Cursano, presidente vicario di Fipe Confcommercio, la Federazione degli esercizi pubblici e presidente di Confcommercio Toscana, lancia l’allarme. «Reddito di cittadinanza e bonus vari sono diventati un disincentivo a lavorare. Il messaggio che sta passando è: “state a casa, tanto lo Stato pensa a voi”. Ditemi quale giovane è disposto a rinunciare a 700 euro che gli arrivano standosene comodamente a casa, per lavorare in una pizzeria fino a tardi. E sa cosa ci propongono quelli che si affacciano nei nostri ristoranti? Pretendono forme contrattuali poco chiare pur di continuare a usufruire del reddito di cittadinanza». Lei è anche proprietario di due ristoranti a Firenze e di un bar storico. Quale è la sua esperienza? «Ho dovuto rivedere le fasce di orario, altrimenti non ce la faccio. Mi tocca chiudere la domenica alle 15 e durante la settimana ho previsto un turno unico, a cena. Non riesco a trovare personale. Vengono qui e mi dicono che hanno il sostegno pubblico, che non lo vogliono perdere, che non intendono lavorare nei fine settimana, che vogliono un rapporto saltuario. Mi chiedo dove siano i milioni di disoccupati di cui parla l’Istat. È un’emergenza seria». E il vostro personale storico? «Perso con la pandemia. Non riuscendo a sopravvivere con la cassa integrazione, arrivata pure in ritardo, ha preferito cercare un’occupazione in altri settori, come i supermercati o le aziende di consegne. La ristorazione, dopo due anni di blocco, non ha più l’appeal di un impiego stabile e sicuro. La pioggia di sostegni pubblici sta disincentivando la ricerca di un’occupazione. Aggiungiamo il modello di vita che ha preso piede durante la pandemia». Che intende? «Più spazio al tempo libero. Lo smart working ha impigrito le persone. Ora ci troviamo nella situazione paradossale che la ripresa del turismo estivo potrebbe dare impulso all’economia, contribuire alla ripresa ma non si trova chi vuole lavorare. È un deficit che interessa vari settori industriali». Ma allora come fate? Vi rivolgete agli immigrati? «L’attività di cameriere o di cuoco come quella di barman non si può affidare al primo che passa. Miscelare un cocktail non s’improvvisa. Organizzare un menu, fare il cuoco, non ci si improvvisa. Le strutture che lavorano solo con gli stagionali, come quelle sui litorali, faticano ad aprire proprio per la mancanza di personale. E chi apre offre solo la cena e non il pranzo e chiude un paio di giorni la settimana. Il settore sta cambiando pelle, si sta riorganizzando». In che modo? «Sempre più bar servono da bere solo al banco e non ai tavoli, o hanno installato i distributori automatici di bibite e gelati. Ma in questo modo viene meno il rapporto con il cliente che fa parte dello stile italiano». Avete posto il problema al governo? «Non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire. Manca la percezione di ciò che sta succedendo sul mercato del lavoro. Sembra che il problema siamo noi ristoratori che non vogliamo pagare i dipendenti. Le iniziative governative allontano le persone dall’attività produttiva. Chi non lavora viene pagato mentre chi lavora è tassato in modo spropositato. È questo il meccanismo che crea la disoccupazione. Sapesse che rabbia mi fa vedere questi giovani seduti a prendere l’aperitivo pagato con il reddito di cittadinanza». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/per-estate-mancano-300000-lavoratori-2657408287.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="nessuna-difesa-dai-colossi-online" data-post-id="2657408287" data-published-at="1653835820" data-use-pagination="False"> «Nessuna difesa dai colossi online» «Si fa presto a dire estate da record. Le premesse ci sono ma si rischia che i guadagni vadano a finire all’estero, nelle casse delle piattaforme online delle prenotazioni. Non solo. Rischiamo di essere danneggiati anche da iniziative nazionali, come i portali allo studio per promuovere il “prodotto Italia” che, se non fatti nel modo giusto, ci tagliano fuori dal mercato turistico». Fulvio Avataneo è il presidente dell’Aiav, associazione che riunisce 1.900 agenti di viaggio. È fuori di sé: «Si fanno iniziative encomiabili ma se si finisce per favorire i soliti noti, allora noi non ci stiamo». Non siete felici che si prospetti un’estate con il pieno di prenotazioni? «Sì, tutto lascia stimare che sarà un’estate gloriosa. Dopo oltre due anni di fermo, le persone hanno voglia di viaggiare. Questo dovrebbe far felici le agenzie di viaggi, ma lo sono solo in parte. Da anni il grosso delle prenotazioni non passa più tramite i nostri canali. Tutti su Internet a illudersi di trovare una camera d’albergo a prezzo stracciato o un volo quasi regalato. Ma sono pronto a dimostrare che nove volte su dieci la soluzione più vantaggiosa si trova nell’agenzia di viaggi. Che offre anche la possibilità, da non sottovalutare, di essere un interlocutore fisico qualora qualcosa non dovesse funzionare, per cambi di programma. Purtroppo combattiamo contro stereotipi difficili da smontare». Ma è la concorrenza. «Le piattaforme online sono riuscite a creare una condizione di quasi monopolio perché c’è chi glielo ha permesso. L’Ue non è mai voluta intervenire a regolamentare il settore. Manca la volontà di prendere posizione su una situazione spinosa che mette a rischio la sopravvivenza delle imprese. È la stessa latitanza emersa verso le big tech come Facebook e Google. Ogni tanto arriva una sanzione, ma sono briciole rispetto al giro d’affari. Nel caso di Booking, Expedia e altri portali di prenotazione, non ci sono nemmeno le sanzioni. Sono liberi di imporre le proprie regole e di sottrarre i guadagni al territorio dove operano. Per esempio, dietro un colosso come Amazon ci sono tante micro imprese che hanno trovato un canale distributivo: Booking invece impone commissioni capestro agli albergatori. Questi sono scontenti ma opporsi è impossibile. Il governo dovrebbe progettare un’alternativa in grado di tutelare le agenzie di viaggi». Il portale Italia.it promuove le eccellenze del nostro Paese. «Iniziativa lodevole, per la quale c’è anche uno stanziamento importante, ben 114 milioni di euro. Noi però non siamo stati coinvolti. E se la piattaforma dirotta i turisti verso Internet e non verso le agenzie di viaggi nazionali per acquistare i pacchetti turistici, è un boomerang perché si tagliano fuori le aziende italiane a vantaggio delle piattaforme Web internazionali. E poi non è chiara la forma di questo progetto. È stato detto che verrà implementato nei prossimi mesi, ma come e da chi, è un mistero. Mi preoccupa anche la piattaforma di Ita, la nuova Alitalia, che insieme al volo offre pacchetti di alberghi e tour. 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Perché è un rischio usare il wifi di alberghi e ristoranti? «Le reti aperte consentono più facilmente l’accesso ai nostri dispositivi connessi e ai dati che conserviamo e scambiamo attraverso di essi. Quando usiamo il wifi di un albergo, un ristorante, un bar, un aeroporto, un centro congressi, è come se mettessimo i nostri dati (mail, numeri delle carte di credito, account social) a disposizione di tutti coloro che accedono a quella rete, compresi i criminali informatici. Lo spionaggio industriale prende di mira proprio manager di aziende in viaggio di lavoro, quando si connettono a reti aperte». Che cosa significa essere intercettati? «Che le nostre operazioni online sono osservate, esponendoci al furto d’identità. Un hacker, carpito l’accesso ai nostri dati, può disporre una transazione bancaria, inviare codici malevoli ai nostri contatti o realizzare frodi finanziarie». Come ci si protegge? «Quando si è su reti aperte di cui non abbiamo il controllo, sarebbe opportuno usare applicazioni Vpn (Virtual private network). Sono software commerciali che creano una sorta di tunnel riservato sul quale veicolare il nostro traffico dati. Pur essendo su una rete aperta, le informazioni non saranno più accessibili a occhi indiscreti». Può accadere di essere tracciati dai motori di ricerca che approfittano per proporci soluzioni più care? «I prezzi dei voli aerei sono condizionati da diversi fattori, come il margine di anticipo in cui si vuole prenotare, le destinazioni, le stagioni. Ci sono diverse teorie sui giorni della settimana e gli orari in cui assicurarsi prezzi più vantaggiosi. Piuttosto, quando l’utente fa una ricerca sul Web è subito profilato. Le informazioni raccolte servono per proporre altri servizi. Il biglietto aereo diventa quindi l’ultimo aspetto di questo ricchissimo mercato. Lasciare i propri dati su Internet disponibili a chiunque espone a numerosi pericoli». Per esempio? «Dal furto di identità a furti in appartamento. Mentre si è in viaggio, si tende a postare foto dei luoghi di vacanza. Bande di criminali setacciano il Web proprio per capire chi ha lasciato la casa vuota nelle settimane estive. A quel punto per svaligiare l’appartamento si va a colpo sicuro».
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Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
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Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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