2020-06-06
Pecorino romano, il sostegno dei legionari
La razione quotidiana dei militi dell'Impero ne prevedeva 27 grammi con pane e zuppa di farro. Furono loro a esportare in Sardegna la tipologia di lavorazione. Decisivo nel 1884 il divieto ai pizzicaroli di salarlo nella Capitale. Tante le varianti regionali, molte di nicchia.Ci sono delle storie che, a volte, nemmeno puoi immaginare dietro le quinte di prodotti che si danno per scontati o di cui non si è più di tanto incuriositi … a grattare sotto la crosta. Questo potrebbe essere, per certi versi, quanto ci si aspetta quando ci si avvicina al pecorino, un formaggio di cui si sanno, più o meno a memoria, le principali varianti regionali e poco altro. In Italia vengono allevate circa 10 milioni di pecore, di cui tre solo in Sardegna. Il quaranta per cento della produzione casearia nazionale è di origine ovina. Latte di pecora che può essere lavorato da solo, ma si presta bene anche a gemellaggi (prevalentemente con quello di capra) o a triangolazioni virtuose (vaccino). Concentreremo il diario di viaggio sui pecorini, per necessaria sintesi. Immancabile partire dalla Romagna, con il formaggio di fossa. Una tradizione dalle origini lontane che ha come capitale Sogliano al Rubicone. In età rinascimentale Ramberto di Malatesta perse … la testa per una giovane fanciulla del luogo. Si liberò della moglie con fare spiccio, mandandola al creatore, ma il popolo non gli perdonò il malaffare, condannandolo a vita entro una fossa posta vicina ad un'altra fossa in uso al tempo, dove si conservavano, tra estate e autunno, preziose forme di cacio, di cui ovviamente l'uxoricida era ghiotto. In attesa della giustizia divina, quella umana lo privò di ciò che desiderava di più, dopo la sua giovane amante. Queste grotte, scavate nel tufo, servivano a proteggere il famoso cacio dalle scorribande dei briganti ma, più probabilmente, erano una sorta di discreta cella di affinamento lungo la stagione calda per consegnare le forme a fine novembre, nelle giornate dedicate a santa Caterina, patrona locale. Gianfranco Bolognesi, storico trattore della Frasca, a Castrocaro Terme, lo ha sempre suggerito come «formaggio da meditazione», per le svariate sensazioni che può regalare all'olfatto prima che al gusto poi, in assolo come da abbinamenti conseguenti. Varchiamo l'Appennino e ci troviamo in Toscana, sui colli di Luni, ai confini con la Liguria. Già Plinio il vecchio magnificava il lunense, che arrivava poi sui mercati dell'urbe. A quel tempo, infatti, il pecorino rientrava nella razione quotidiana dei legionari. Ventisette grammi ad accompagnare la scodella colma di pane e zuppa di farro. Passano i secoli ma la qualità rimane tanto che, nel quattrocento, il Platina, alias Bartolomeo Sacchi, un guru delle cucine di corte, esalta il marzolino d'Etruria (una delle sue millanta varianti), come il miglior formaggio d'Italia, al pari dell'astro nascente, il parmigiano. Nella terra di Dante Alighieri non c'è che l'imbarazzo della scelta, tra gusto e tradizioni a braccetto tra loro. Nel pisano ci racconta le sue storie il pecorino delle balze volterrane, con Volterra capitale, «la città del vento», per Gabriele d'Annunzio. Un humus territoriale frutto del capriccio del clima. Le balze, grandi voragini scavate dalle acque, modellate poi dal vento. Prodotto con il caglio del cardo selvatico, lavorato con antica procedura, poi affinato con olio d'oliva e cenere per formare un astuccio che ne conservi umori e profumi. Ideale con le paste ripiene cotte al forno. Si è calcolato che se dovessimo quantificare le pecore che danno luogo alle forme di pecorino (cosiddetto) di Pienza, ne verrebbe fuori una legione di tre milioni di capi. In realtà sono solo tremila quelle che seguono la disciplinare. La mancanza della denominazione Dop accresce questo ricercare con la lanterna le vere eccellenze. Svariatissime, peraltro. Ad esempio con le forme, dette «ruote», avvolte in foglie di noce e conservate dentro otri di terracota, cioè «ziri», ma anche sotto la cenere, nelle grotte. In una Toscana dove il ciarlare lieto in compagnia trova materia prima nello sbaccellare fave abbinate a pecorino complice, non poteva mancare l'atelier dei pezzi unici. Negli anni Settanta l'architetto svizzero Wendelin Gelpke, in un angolo del Chiantishire, si innamorò di un borgo abbandonato, le quattro case di Corzano, e di una vecchia fattoria appartenuta alla nobile famiglia Pitti prima e Rangoni Machiavelli poi, a Paterno. Comprò dei capi di pecore sarde e si prese cura di loro. Mungitura compresa. Seppe coinvolgere nella sua avventura amici e parenti che arrivarono dall'Olanda e dagli Usa. La sua eredità casearia è stata raccolta da Antonia Ballarin che ha sposato il nipote, Aljosha Goldsmith. Produzioni di nicchia, piccole pepite che stregano il palato. Antonia, infatti, ha girato il mondo per apprendere il meglio delle diverse tecniche casearie. Ecco allora la buccia di rospo, una sorta di brie pecorino, come il blu, risposta toscana al lumbard gorgonzola, o lo zaffero, cugino ideale del piacentinu siciliano. Bisogna andare in Umbria per cogliere il vero significato del misterioso gemellaggio tra «cacio e pere». Galeotto Castore Durante, medico e poeta di Gualdo Tadino, archiatra di papa Sisto V. Nel suo Tesoro della sanità uscito a metà del cinquecento recita testuale. «Il nocumento del cacio si può ridurre mangiandosi seco in compagnia di pere». Bisogna ricordare che, a quel tempo, il formaggio era considerato un cibo di ripiego per chi non poteva permettersi pregiati tagli di carne. Altresì, ai banchetti principeschi, le pere erano tra la frutta più ambita, qualcuno suggerisce per un subliminale rinvio alle intriganti curve femminili. A quel tempo una prova di forza tra caciari era il ruzzolone, una sfida a chi sapeva far correre la sua forma lungo i sentieri dei villaggi, arrivando al traguardo con il pecorino rimasto intatto. Prova quindi di qualità e resistenza. Il ruzzolone ancora resiste come disciplina amatoriale in una vasta area a cavallo della dorsale appenninica, con regolari gare e trofei, ma stavolta con protagonista un disco di legno. L'aspetto curioso del pecorino romano è che la maggior parte di questo è prodotto in Sardegna, con la sede del consorzio di tutela a Macomer. Una vecchia storia iniziata con i primi legionari che ne esportarono la tipologia di lavorazione. Un ambiente ideale dove il pascolo era più agevole rispetto all'agricoltura. Il resto conseguente. Il cambio di passo nel 1884 quando, dal Campidoglio, il sindaco Leopoldo Torlonia dispose che i «pizzicaroli», i salumieri romani, non potevano più salare il pecorino in città. A questo si aggiunse anche un forte aumento della richiesta da parte dei migranti italiani nelle Americhe ed ecco che il novanta per cento della produzione, oramai, avviene fra i nuraghi. Piatti entrati nella leggenda. Dagli spaghetti alla carbonara (con il guanciale) ai bucatini all'amatriciana (con l'aggiunta di pomodoro) o quelli alla gricia, per non parlare degli spaghetti cacio e pepe. Chi si mangerebbe la placenta senza il terrore di passare per antropofago? Lo faceva nientemeno che Catone il censore. Pecorino freschissimo adagiato su foglie d'alloro e ricoperto di miele e farina. Passato alla brace. Adesso i millennial lo chiamerebbero cheese cake. Ma la discesa agli inferi può essere dietro l'angolo, con il pecorino di Carmasciano. Sui colli irpini pascola placida la pecora laticauda, che deve il nome ad una coda larga dall'effetto quasi di gobba di cammello. Riserva alimentare per i tempi di magra. La troviamo nei pressi della rocca di San Felice, i pascoli inebriati dagli umori sulfurei che si spargono dalle acque della Mefite, un piccolo laghetto già descritto da Virgilio che lo indicava come una delle porte di discesa agli inferi. Lunghe stagionature, anche di due anni, consegnano al palato un prodotto dai sentori di mandorla e noce moscata. Ideale a conciare una pasta con patate, rosmarino e guanciale o anche a rinforzare un pesto di basilico con le laganelle, le locali tagliatelle extra large.
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