2021-05-28
Pechino ha imposto la sua legge farsa. A Hong Kong eletti «solo i patrioti»
Con questa altra stretta, la Cina controllerà la composizione del Parlamento. Inoltre vietato di nuovo il ricordo di TienanmenProsegue la stretta di Pechino su Hong Kong. Il parlamento dell’ex colonia britannica ha approvato ieri un disegno di legge, che modifica il sistema elettorale dell’isola. Si tratta di una riforma che, secondo quanto riferito dall’Associated press, «riduce drasticamente la possibilità di voto del popolo e aumenta il numero di legislatori pro Pechino che prendono decisioni per la città». In particolare, questa norma - che ha avuto 40 voti a favore e appena 2 contrari - istituisce controlli sul background dei potenziali candidati, creando inoltre un comitato per valutarne l’effettivo «patriottismo». In tutto questo, i seggi del parlamento saranno, sì aumentati da 70 a 90, ma verrà ridotto il numero (da 35 a 20) di quelli eletti direttamente dai cittadini di Hong Kong. Di contro, ben 40 seggi saranno scelti dal Comitato elettorale: una realtà pesantemente influenzata da Pechino. La quasi unanimità con cui è stata approvata questa legge si spiega con il fatto che, a novembre scorso, i parlamentari pro democrazia si fossero dimessi in massa, come forma di protesta contro l’espulsione di quattro loro colleghi per volontà del Comitato permanente del congresso nazionale del popolo cinese. Pechino - soprattutto tramite il Global Times - ha sostenuto che questa riforma elettorale sia necessaria per dare stabilità all’isola, ridurne la polarizzazione politica ed evitare influenze di «forze straniere». In realtà, l’approvazione di questa norma sembra soltanto confermare ulteriormente la ben nota strategia cinese, volta a un progressivo smantellamento delle istituzioni democratiche dell’ex colonia britannica. Un’erosione di fatto del principio «un Paese, due sistemi». Guarda caso, sempre ieri, le forze dell’ordine di Hong Kong hanno vietato, per il secondo anno consecutivo, la veglia -prevista per il 4 giugno- in onore delle vittime del massacro di Piazza Tienanmen. Anche stavolta, come nel 2020, sono state citate motivazioni di sicurezza legate alla pandemia: motivazioni che stridono tuttavia con l’atteggiamento (neppur troppo velatamente) minaccioso delle autorità locali. In particolare, il segretario alla Sicurezza, John Lee, ha dichiarato che «chiunque parteciperà [alla veglia] violerà la legge». Il ministro ha in particolare ventilato il ricorso alla controversa norma sulla sicurezza nazionale, approvata l’estate scorsa: una legge che, tra le altre cose, prevede misure più stringenti nei confronti di manifestazioni e proteste. «La legge sulla sicurezza nazionale afferma chiaramente che se qualcuno organizza, pianifica o attua qualsiasi mezzo illegale per danneggiare o rovesciare il sistema fondamentale secondo la costituzione cinese, costituirebbe un sovvertimento del potere statale», ha specificato Lee. Tutto questo, senza trascurare gli arresti che, negli ultimi tempi, hanno colpito alcuni esponenti di spicco del fronte pro democrazia: dal magnate Jimmy Lai all’attivista Joshua Wong. Ricordiamo tra l’altro che quest’anno la commemorazione di Piazza Tienanmen risulti particolarmente fastidiosa per Pechino, in quanto il primo luglio cadrà il centenario della nascita del Partito comunista cinese. L’inasprimento della presa del Dragone su Hong Kong è destinato a creare nuove turbolenze tra la Repubblica popolare e gli Stati Uniti. In tal senso, è arrivato ieri un duro commento da parte del segretario di Stato americano, Tony Blinken. «Il governo cinese continua a minare le istituzioni democratiche di Hong Kong, negando ai residenti di Hong Kong i diritti che la stessa Repubblica popolare cinese ha garantito», ha affermato in una nota. «Chiediamo ancora una volta alla Repubblica popolare e alle autorità di Hong Kong», ha proseguito, «di far sentire la voce di tutti gli abitanti di Hong Kong». «Chiediamo inoltre a queste autorità», ha aggiunto, «di rilasciare e ritirare le accuse contro tutti gli individui accusati ai sensi della legge sulla sicurezza nazionale». Non è del resto la prima volta che la questione di Hong Kong finisce al centro degli attriti tra Joe Biden e Xi Jinping (si pensi soltanto al loro colloquio telefonico di febbraio o alle sanzioni comminate da Washington lo scorso marzo). Tanto più che, adesso, viene a sommarsi ad altre cause di fibrillazione. Mercoledì, l’inquilino della Casa Bianca aveva chiesto all’intelligence americana di indagare più dettagliatamente sule origini del Covid-19, soprattutto dopo che è tornata a prendere quota l’ipotesi che il virus possa provenire da un laboratorio di Wuhan. La circostanza ha provocato la dura reazione di Pechino. «Alcune persone negli Stati Uniti ignorano completamente i fatti e la scienza», ha sentenziato ieri il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian, il quale ha citato le conclusioni dell’indagine condotta dall’Oms, secondo cui sarebbe «estremamente improbabile» un’origine del Covid-19 in laboratorio. Peccato che lo stesso Blinken, a fine marzo, avesse espresso timori di influenze cinesi sull’agenzia Onu (una posizione non poi così dissimile da quella di Donald Trump). Da Hong Kong alla pandemia il Dragone continua, insomma, a mostrare il suo vero volto.