2020-06-09
Pechino allunga le mani anche sui Balcani
Il ministro degli Esteri serbo, Ivica Dacic, e il suo omologo cinese Wang Yi (Ansa)
La Cina ha saputo sfruttare la storica instabilità dei Paesi della zona per accrescere la propria influenza nel continente europeo. Risultato reso possibile grazie al vuoto strategico dell'Italia, incapace di trarre vantaggio dal proprio potenziale geoeconomico. L'Europa, essendo il più grande importatore ed esportatore del mondo, è il garante del benessere internazionale. Conseguentemente rimane, insieme alla sua appendice mediterranea, il terreno di competizione principale tra le grandi potenze che qui si incontrano e si scontrano. Questo terreno di competizione ha da sempre, ma in special modo in seguito alla Prima guerra mondiale, che ne ha sminuzzato i sistemi statali, un ventre molle: l'Europa centrale e balcanica. [...]Se per l'Europa la Cina rappresenta il terzo partner commerciale, noi europei siamo il primo per Pechino. L'interscambio commerciale nel 2018 si attestava intorno ai 670 miliardi di dollari con 65 miliardi di investimenti esteri cinesi, rispetto ai miseri 1,6 miliardi del 2010. Ma in entrambi i settori la Cina comunista è superata per importanza dagli Stati Uniti.La regione dell'Europa centrale e balcanica, con i suoi 57 miliardi di euro d'interscambio, rappresenta per il gigante asiatico un mercato marginale per potere d'acquisto e investimenti, ma diviene il luogo di realizzazione della grande strategia con cui entrare a gamba tesa nei problemi geopolitici che affliggono il continente sfruttando la leva della cooperazione economica. [...] Nel mese d'aprile 2012, l'allora premier Wen Jiabao inaugurava a Varsavia la Cooperazione tra la Cina e i Paesi dell'Europa Centrale e Orientale ovvero l'Iniziativa 16+1 a cui si aggiunse, in seguito all'acquisto cinese del porto del Pireo, anche la Grecia. Con tale mossa il gigante asiatico approfittava della distrazione dell'amministrazione Obama e dell'assenza strategica europea per proporsi quale partner affidabile, ufficialmente privo di pretese politiche, a tutti quegli Stati che usciti vent'anni prima dal giogo sovietico faticavano – e faticano ancora oggi – a trovare comprensione nelle stanze di Bruxelles. Nei Balcani, tra il 2008 e il 2018, la Cina ha investito 12 miliardi di euro. Di questi, ben 10 miliardi sono stati convogliati in Serbia, dove la Cina è oggi il principale partner economico non europeo e, grazie alla proprietà delle acciaierie Smederevo, ha superato la Fca nel primato delle esportazioni. L'alleanza strategica siglata con la Serbia nel 2016 racchiude in sé un momento fortemente simbolico. [...]La Cina nel nostro vicinato vuole penetrare nei sistemi tecnologici e accreditarsi quale costruttrice affidabile di infrastrutture critiche offrendo, qualora necessario, soluzioni finanziarie accomodanti ai governi interessati. Sul lungo termine ciò potrebbe far scivolare i governi coinvolti nella spirale debitoria controllata da Pechino, ma per il momento lo scopo principale è quello di riuscire ad aggiudicarsi progetti infrastrutturali legati all'Unione europea da utilizzare come referenza per futuri tender intracomunitari. Le aziende cinesi hanno un disperato bisogno di tali referenze essendo, per ora, la costruzione del ponte che collegherà Dubrovnik alla madre Patria, saltando il passaggio stradale attraverso la Bosnia, l'unico di questo genere. Inoltre, avendo constatato d'essere proprietaria di un porto mediteranno, il Pireo, sostanzialmente isolato, e compreso quanto sia antieconomico collegarlo con Budapest attraverso investimenti nella rete stradale, Pechino ha cercato negli ultimi anni di garantirsi l'amicizia dei Paesi adriatici in modo da trovare uno scalo che permettesse alle proprie merci di giungere velocemente nel cuore dell'Europa. [...]Resasi conto delle mosse avversarie e del fatto che la Cina stava uscendo dall'ambito regionale entro il quale le si poteva riconoscere una funzione di ordine utile al sistema globale, la nuova amministrazione Usa è passata alla controreazione. Lo stesso presidente Trump, per non perdere terreno nemmeno dal punto di vista simbolico, ha lanciato nel 2017 proprio a Varsavia l'Iniziativa dei Tre Mari, ovvero un progetto di stabilizzazione energetica ed economica dello spazio compreso tra mar Baltico, mar Nero e mar Adriatico, focalizzato a liberare la regione dagli eccessivi influssi tedeschi, russi e soprattutto cinesi. Anche se non tutti gli Stati dell'Iniziativa cinese fanno parte di quella americana è ovvio che lo spazio geopolitico dello scontro tra le due potenze ricomprende in pieno il nostro vicinato orientale, ovvero tutta quella zona a Est del confine di Trieste con cui l'Italia ha da sempre un rapporto schizofrenico. Nella regione balcanica l'Italia, pur rappresentando generalmente, a seconda dei Paesi, il primo o il secondo partner commerciale, non ha mai saputo sfruttare la sua leva economica per fare sistema. Partita spesso in posizione di vantaggio nel periodo di dissoluzione della Jugoslavia grazie al massiccio coinvolgimento civile e militare – a fianco o per conto degli usa – orientato ad arrestare i conflitti e ricostruire la pace, non ha successivamente saputo delineare un piano d'azione geopolitica credibile. Nelle relazioni verso l'Est col tempo ci siamo appiattiti sulle posizioni dell'Ue nella speranza che queste potessero essere anche di nostro interesse. Un atteggiamento supino che ha avuto come unico risultato quello di avvantaggiare la Germania e la Cina, sinergiche a livello globale quanto a quello regionale e capaci di delineare una politica estera maggiormente coerente. [...]L'interscambio italiano con i Paesi dei Balcani Occidentali, comprese anche Slovenia e Croazia, ammonta a circa 11 miliardi d'euro di esportazioni e 9,5 miliardi di importazioni mentre gli investimenti nostrani nel territorio valgono circa 10,4 miliardi. Eppure, mentre la Cina marciava dal Pireo verso Lubiana e Budapest, acquisendo aziende, commesse infrastrutturali e influenza politica, l'Italia latitava e non sfruttava il proprio potenziale geoeconomico a favore del sistema nazionale e, conseguentemente, di quello nordatlantico in generale. Anziché divenire sponda di contenimento si trasformava, per mancanza di strategia, in facilitatore dell'interesse cinese diventando – agli occhi del principale alleato – parte del problema anziché della soluzione. L'azione cinese nei Balcani e nell'Europa centrale aveva tra gli scopi principali quello di conquistare l'Italia legandola alla proiezione imperiale sinica. Una volta acquisite le posizioni di vantaggio nell'entroterra la Cina aveva giocoforza bisogno di un porto nell'Adriatico. [...] La conquista del Belpaese doveva garantire un formidabile ritorno d'immagine al Partito comunista in patria ed era stata pianificata dagli strateghi cinesi fin dagli albori della marcia balcanica, basandosi sulla convinzione che l'ultima crisi finanziaria avesse reso l'Italia sufficientemente debole e disillusa dei propri partner storici. Un Paese finanziariamente alle corde e a corto di capitali avrebbe dovuto cedere facilmente alla lusinga di cospicui investimenti e tecnologie economicamente competitive, soprattutto se a dar man forte all'interesse di Pechino avesse contribuito con la sua smisurata influenza la Santa Sede, guidata da un Papa ansioso di recarsi in visita da Xi Jinping. Il susseguirsi, tra il 2015 e il 2019, delle visite in Cina di Renzi, Gentiloni e della governatrice del Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani ha portato nel marzo 2019 alla firma del Memorandum di collaborazione tra l'Italia e la Repubblica Popolare di Cina. [...] È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso della pazienza statunitense. A giugno Trump ha incaricato il segretario per l'energia Rick Perry di chiarire a tutti i partecipanti al vertice dei Tre Mari di Lubiana che il progetto americano è marcatamente anti cinese e ha nominato poco dopo un suo rappresentante personale per i Balcani e uno per la Serbia, escludendo del tutto l'Italia dalle eventuali combinazioni politiche. Per l'Italia la presenza cinese nel vicinato orientale, oltre che essere la prova di una mancata capacità di ragionamento strategico e di comprensione delle opportunità geoeconomiche, rappresenta in seguito alla crisi del Covid-19 anche il focolaio di una possibile destabilizzazione del sistema sociale regionale. [...]Pechino può ricattare quei governi che dovessero mostrare eccessivo pensiero critico, risultando troppo vicini alle posizioni Usa nell'accusarla d'essere responsabile della pandemia, facendo leva sulla sua proprietà dei grandi siti produttivi. [...]