2021-12-24
Partiti a caccia di un nome per fermare la marcia di Draghi verso il Quirinale
Sergio Mattarella e Mario Draghi (Ansa)
La maggioranza: «Se il premier lascia, si va al voto. Serve un candidato che piaccia a dem, Lega e M5s». Ieri riunione di tutto il centrodestra: il Cav non molla la corsaNonno Mario e i nipotini monelli: è questo il titolo del film di Natale 2022, un cinepanettone girato alla Camera e al Senato, con il Quirinale sullo sfondo. Nonno Mario, alias Mario Draghi, ha fatto capire assai esplicitamente di voler ascendere al Colle più alto; i nipotini monelli, ovvero i partiti, hanno fatto capire altrettanto esplicitamente che preferirebbero che il premier restasse a Palazzo Chigi. Perché ciò avvenga, sono necessarie due cose: trovare un altro nome per il Colle intorno al quale coagulare una ampia maggioranza e convincere nonno Mario a non prendersela più di tanto e a restare presidente del Consiglio. Facile e dirsi, difficile a farsi. Ma non impossibile: «Per quanto ci riguarda», dice alla Verità uno dei massimi esponenti del centrosinistra, «preferiremmo che Draghi restasse premier, anche perché in caso contrario si andrebbe al voto. Impossibile immaginare che il Pd stia al governo con la Lega con un altro presidente del Consiglio, e credo che anche Matteo Salvini non resterebbe in maggioranza con Pd e M5s se a Palazzo Chigi ci fosse un altro premier. Il problema è trovare l’antidoto a Draghi, ovvero un nome in grado di mettere d’accordo Pd, Lega e M5s». Qualche idea? «No, e anche se ce l’avessi non la direi». Altra telefonata, stavolta a un esponente di primissimo piano di un partito di centro. Allora, davvero non vi convince Draghi al Quirinale oppure è tutta tattica? «Non ci convince», risponde la fonte, «perché un altro governo sarebbe impossibile e andare alle elezioni in questo momento, con il Covid che cresce e l’economia che sta appena ripartendo, sarebbe un gravissimo errore. Certo, occorre trovare un candidato al Quirinale in grado di raggiungere un ampio consenso. Abbiamo 20 giorni per lavorarci». Ma se Draghi venisse stoppato dai partiti, chi vi dice che non mollerebbe tutto, magari alla prima difficoltà nella maggioranza? «Dovrebbe spiegare agli italiani», risponde il parlamentare, «che va via perché non diventa capo dello Stato. Non solo: i partiti lo vogliono tutti a Palazzo Chigi, e dico tutti. Il Parlamento è sovrano, essere eletto presidente della Repubblica contro la volontà di tutti i partiti non è semplice». Sarà: fatto sta che l’idea di uno come Mario Draghi che viene stoppato nella corsa al Quirinale da uno dei Parlamenti più sfilacciati della storia della Repubblica sembra fantascienza, anche se c’è da dire che proprio l’anarchia che regna tra Camera e Senato potrebbe produrre, nel caso di un affossamento di Draghi nel segreto dell’urna, un patatrac di dimensioni colossali. «Io sarò tra i grandi elettori», commenta con la consueta franchezza il governatore del Veneto, Luca Zaia, «Draghi si è detto a disposizione delle istituzioni, ma le istituzioni sono di diversi livelli. Se dovesse decidere di fare il presidente della Repubblica dovrà avere la garanzia di passare al primo scrutinio. Il voto è segreto, però. Nel caso di una strana congiuntura», aggiunge Zaia, riferendosi a un eventuale flop, «si rischia di non avere né il presidente della Repubblica né il presidente del Consiglio. Draghi sta facendo un ottimo lavoro e se non fosse più premier si aprirebbe uno scenario di incertezza totale». Il nodo da sciogliere, per nonno Mario, è abbastanza intricato: stavolta non si tratta di dare ordini, come è stato abituato a fare nella sua vita, ma di conquistare consensi. «Essere eletto presidente della Repubblica», sottolinea alla Verità una autorevolissima fonte di Fratelli d’Italia, «è come diventare sindaco di un paesino di 1.000 abitanti, quanti sono i grandi elettori. Devi fare campagna elettorale, convincere, sedurre: in questo ad esempioSilvio Berlusconi è convinto di avere le sue carte da giocare». Già, Berlusconi: bisnonno Silvio si sente in partita. Magari si illude, magari si fida troppo dei suoi alleati, ma il dato è che alla corsa alla presidenza della Repubblica non ha affatto rinunciato, neanche dopo l’autocandidatura così eclatante di Draghi. Ieri a Villa Grande, presente Gianni Letta, si è riunito il centrodestra: tra un filetto di manzo e un babà, Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Ignazio La Russa, Giovanni Toti, Lorenzo Cesa e Maurizio Lupi hanno assicurato il sostegno di tutto il centrodestra a Berlusconi, se deciderà di candidarsi. «Io candidato al Colle? Abbiamo parlato evidentemente anche di questo», ha detto Berlusconi al termine del summit, «il centrodestra sarà unitario, abbiamo rimandato ogni decisione a dopo Natale, ai primi dell’anno». «Il centro-destra affronterà unito tutti i prossimi appuntamenti istituzionali ed elettorali», recita una nota congiunta diffusa al termine dell’incontro, «dall’elezione del capo dello Stato fino alle prossime elezioni amministrative e politiche, nel rispetto delle scelte fin qui compiute da ciascuna delle sue componenti, ma nella consapevolezza della comune responsabilità di rappresentare la maggioranza naturale degli italiani». Curiosità: torna il trattino tra «centro» e «destra», novità che per gli addetti ai lavori è tutt’altro che un dettaglio. Richiesta dei cespugli centristi? Non si sa. Quello che si sa, è che Berlusconi vuol capire innanzitutto come evolverà la situazione Draghi, per poi eventualmente scendere in campo ufficialmente. La strategia elaborata a Arcore prevede di puntare tutto sulla quarta votazione, quando bastano 505 voti, la maggioranza assoluta. Se anche però Silvio dovesse raggiungere una quota importante ma non sufficiente, intorno ai 480 voti (il centrodestra parte da 450) resterebbe in campo per le successive votazioni.