
L’antiterrorismo: «Le “spose del Califfato” francesi ritornate in patria sono ancorate alla loro radicalizzazione islamista».Il ritorno in Francia di ex combattenti di Daesh con passaporto transalpino, preoccupa giudici e agenti dell’antiterrorismo di Parigi, soprattutto da quando le governative d’Oltralpe sembrano aver scelto di generalizzare il ritorno in patria delle «spose del califfato». Si tratta di alcune centinaia di cittadine francesi che, qualche anno fa, avevano scelto di raggiungere i macellai islamici, nemici della Francia e dell’Occidente. Le ultime a riposare i propri piedi sul suolo transalpino sono state 15 donne arrivate a Parigi la scorsa settimana, accompagnate dai loro 32 figli. Per gli agenti dell’antiterrorismo transalpino queste donne rappresentano una seria minaccia per la sicurezza nazionale. Come ha scritto il quotidiano Le Figaro, in un’inchiesta che riporta anonimamente le parole di alcuni esperti dell’antiterrorismo, le ex foreign fighter «rimangono profondamente ancorate alla loro radicalizzazione terrorista e islamista». Volendo essere ancora più espliciti, gli esperti affermano senza problemi che «bisogna dimenticare la leggenda delle donne che tornano dai campi (di prigionia spesso affidati ai curdi, ndr) del Nord-Est della Siria e che sarebbero vittime di Daesh». Ma bisogna anche smetterla di pensare che la Francia abbia fatto «scelta tardiva» in merito al loro rimpatrio. Le fonti citate dal quotidiano d’Oltralpe sottolineano un cambiamento molto importante che riguarda le spose di Daesh. Le personalità delle donne rientrate nel biennio 2016-2017 e di quelle del 2022-2023 sono profondamente diverse. Tra le prime c’erano molte sprovvedute che, lasciandosi sedurre da islamisti su internet, si erano trovate impantanate in storie più grandi di loro. Le ultime arrivate invece, sono decisamente più pericolose e tra l’altro, molte di loro non avrebbero voluto tornare in Francia. Tra di esse ci sono dei profili di primo piano perché, secondo gli addetti dell’antiterrorismo «ormai ci sono principalmente le mogli di uomini che hanno ricoperto responsabilità nello Stato islamico». Non mancano, ad esempio, «alcune pioniere» arrivate nel califfato già nel 2013-2014 che «hanno contribuito attivamente a forgiarlo e a difenderlo fino alla fine». Si tratta «di quelle che non si sono mai arrese, anche in occasione della battaglia di Baghouz». Donne che, «nonostante avessero la possibilità di essere tratte in salvo, erano pronte a combattere fino alla morte anche a costo di vedere morire i propri figli». Altri particolari della condotta di queste ex foreign fighter islamiche lasciano a bocca aperta. Tra queste rimpatriate ci sono infatti donne che hanno torturato dei prigionieri o abusato delle loro schiave domestiche. Tra queste c’erano, ad esempio, anche molte cristiane d’Oriente rapite, seviziate, violentate dagli islamisti. Ma oltre ad avere dato man forte alla costruzione della patria del terrorismo islamico, molte di queste donne hanno anche assolto un ruolo «educativo» nei confronti dei loro figli, i cosiddetti «leoncini del califfato». In effetti, hanno spiegato gli esperti dell’antiterrorismo di Parigi, ai figli dei boia islamici veniva riservato un indottrinamento «molto precoce» attraverso la visione di video di addestramento. Proprio i figli e le figlie degli assassini di Daesh rappresentano un’ulteriore preoccupazione per la sicurezza d’Oltralpe e, più in generale, dell’Occidente. In effetti, con il passare degli anni, i piccoli nati nel califfato sono diventati adolescenti ma, a differenza delle loro madri, loro non devono scontare alcuna pena quindi potrebbero favorire l’indottrinamento di altri giovani francesi. In ogni caso sia per le spose di Daesh che per i loro figli resta il sospetto che molti applichino la cosiddetta taqiyya, ovvero la tecnica di «dissimulazione» della fede islamica che i proseliti del profeta della Mecca possono usare in caso di pericolo. Le cronache di questi anni hanno dimostrato che, tra gli autori di attentati e stragi islamiste, molti avevano condotto vite ordinarie fino alla vigilia degli attacchi, questo mentre si infiltravano in istituzioni o nelle società che avrebbero poi attaccato. Ma perché la Francia di Emmanuel Macron, già colpita duramente dal terrorismo islamico, si espone alla minaccia degli ex foreign fighters? La risposta sta forse nella volontà di ottenere informazioni su Daesh. Oppure Parigi vuole solo evitare che queste persone fuggano dai campi di prigionia in Medio oriente e diventino ancora più pericolose. Il problema è che l’amministrazione francese ha già mostrato - ad esempio in occasione dell’assassinio del professor Samuel Paty per mano di un rifugiato ceceno - di non riuscire ad interpretare i segnali di pericolo emessi dai terroristi «della porta accanto». Da quando è crollato lo Stato islamico, la Francia ha riaccolto sul proprio territorio 305 persone: 164 uomini e 131 donne. Tra queste persone, 192 sono state condannate per vari reati dalla giustizia transalpina (36 donne e 156 uomini): 70 di loro scontano pene carcerarie, mentre altre 40 sono a piede libero, sebbene restino sotto il controllo dell’amministrazione penitenziaria francese.
Benjamin Netanyahu (Ansa)
Colpi sulle forze Onu in Libano. Gerusalemme: «Abbiamo confuso i soldati per sospetti a causa del maltempo». E l’esercito avverte: «Se necessario operazioni a Gaza».
Ennesimo attacco alle stazioni Unifil in Libano da parte dell’Idf, ennesimo rimpallo di responsabilità. «Le forze israeliane (Idf) hanno aperto il fuoco contro peacekeeper di Unifil da un tank Merkava nei pressi di una postazione allestita da Israele in territorio libanese» ha denunciato Unifil ieri mattina, precisando che «i colpi sono arrivati a circa cinque metri dai peacekeeper, che erano a piedi» e sono stati costretti a mettersi al riparo. «I caschi blu hanno chiesto alle Idf di cessare il fuoco tramite i canali di collegamento di Unifil. Sono riusciti ad allontanarsi in sicurezza circa trenta minuti dopo, quando il carro armato Merkava si è ritirato all'interno della postazione delle Idf. Fortunatamente nessuno è rimasto ferito». Poco dopo l’Idf si è difeso chiarendo di non aver «sparato deliberatamente» contro le forze di pace delle Nazioni Unite in Libano. Hanno affermato di aver scambiato i soldati per «sospetti» a causa «delle cattive condizioni meteorologiche».
Un volo breve, un dirottatore Naif e un mistero ancora irrisolto. Ecco la storia del terrorista a bordo di Northwest 305.
Volodomyr Zelensky e Kyriakos Mitsotakis (Ansa)
Prima è stato in Grecia, oggi va a Parigi e domani in Spagna: il presidente ucraino ha la faccia tosta di pretendere gas, fondi e aerei dopo che i suoi hanno sperperato svariati miliardi per farsi i water d’oro.
Non indossa il saio del pentimento anche se assomiglia sempre più a Fra Galdino impegnato in una questua perenne. È Volodymyr Zelensky che ieri è andato in Grecia, oggi sarà a Parigi e domani in Spagna a chiedere soldi, energia e armi. Come il frate cercatore del Manzoni dice: noi siam come il mare che riceve acqua da tutte le parti e la torna a distribuire ai fiumi. Solo che i suoi fiumi sono gli oligarchi e gli amici dello stesso Zelensky, che si sono spartiti tangenti miliardarie mentre gli ucraini continuano a morire di guerra e di freddo. Lo scandalo sulla corruzione – che l’Europa conosceva dal 2021 attraverso una denuncia della sua Corte dei conti, ma che Ursula von der Leyen ha scelto di ignorare – non si placa e il presidente ucraino, mentre va in giro a fare la questua, ha annunciato profonde modifiche negli assetti istituzionali a cominciare da un radicale cambiamento della e nella Commissione per l’energia e ai vertici delle aziende di Stato, che ha chiesto al governo di presentare con urgenza alla Verkovna Rada, il Parlamento.
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Una tassa su chi non vota. L’idea l’ha lanciata il direttore della Stampa, Andrea Malaguti, per arrestare il calo della partecipazione popolare alle elezioni, sintomo - a suo dire - del declino della democrazia.
L’articolo 48 della Costituzione dice che votare è un dovere civico, cioè una specie di impegno morale, ma non un obbligo. Per l’illustre collega, invece, si dovrebbe essere costretti a partecipare alle elezioni. «Si va», ha spiegato, «con la forza». Non mi è chiaro se Malaguti preveda l’intervento dei carabinieri o, visto che «chi non va alle urne fa un danno alla collettività», quello degli esattori del fisco, per monetizzare il diritto a non esercitare un diritto (di voto). Quali che siano le procedure che il collega intende adottare per risolvere i problemi della crisi della democrazia, segnalo che il fenomeno dell’astensionismo riguarda ogni Paese occidentale.






