2021-04-27
Paralisi da chiusure. I ristoranti hanno il delivery alla gola
Sbaglia chi irride i gestori dicendo che non guardano al futuro. A perdere sono cibo, agricoltura, cultura, vino, professionalità.Dalle penne all'arrabbiata dei ristoratori - a Firenze domenica sera c'è stata l'ennesima manifestazione contro il coprifuoco, ieri in piazza della Signoria e a Torino sono andati i wedding planner: non lavorano da 14 mesi - a quelle del Paone, in arte Alessandro Cecchi. Non sapendo nulla di cucina né di come si gestisce un ristorante da una tribuna televisiva prevede: «Se ne facciano una ragione: il delivery è il futuro. I tanti italiani che hanno imparato a farsi mandare da mangiare a casa non cambieranno abitudine. Sul delivery ci campa tutto il mondo avanzato». Nel senso degli avanzi. Per un Cecchi Paone che si pavoneggia nella sua ignoranza gastronomica, c'è però un governo che continua a reprimere un quarto del Pil. Ieri Mario Draghi, emulo di Mosè che ha ricevuto le tavole della legge sotto forma di Pnrr, esortava: «Costruiamo l'Italia futura». I ristoranti parafrasando Lucio Dalla hanno risposto: e se è una femmina si chiamerà frittura! Resta irrisolto il punto della ripartenza dei locali paralizzati dal coprifuoco e da norme contraddittorie. La stampa mainstream ha fatto a gara a magnificare il ritorno alla normalità, che non c'è. Dicono che a Roma abbia riaperto l'88% dei locali, Moody's fa sapere che la «riapertura dà una spinta alla ripresa». Non è però normale che i gestori di bar debbano fare gli scongiuri contro la pioggia. Altrimenti addio incassi. Gianfranco Vissani è tornato a ripetere: «Così io non apro, e poi se un cliente deve fare la pipì gli indico un cespuglio?». Antonello Colonna lamenta: «Non abbiamo istruzioni precise». Cristina Bowerman che non ha riaperto insiste: «E se mentre mangiano comincia a piovere che faccio?».Niente paura c'è il delivery. E allora raccontiamo che se il futuro passa da lì, per l'Italia non c'è futuro. Per Francesco Cerea, Da Vittorio a Brusaporto, tre stelle Michelin da decenni: «Il delivery è incompatibile con la cucina italiana di qualità!». Gianfranco Vissani, aggiunge: «È una catena di montaggio del cibo, i menù devono essere per forza standardizzati. Moltissimi piatti sono incompatibili con l'asporto. E poi va posta la questione igienica». Altroconsumo - mensile dei consumatori - ha fatto un'indagine ad ampio spettro sul delivery. Risultato? I prezzi sono cari, non c'è garanzia sugli allergeni e 23 porzioni su 60 avevano una contaminazione batterica. Del report inviato al ministero della Salute non se ne è saputo più nulla. E però il mercato del delivery è raddoppiato in un anno: vale 1,45 miliardi di euro. Chi comanda è il poker d'assi: Deliveroo, Just Eats, Glovo/Fodigno, Uber Eat. Ci sono anche piccoli aggregatori di domanda e hanno commissioni intorno al 20%: funzionano quasi fossero radiotaxi del cibo. I colossi invece dettano i tempi alla cucina, organizzano la consegna, fanno la gestione dell'ordine. E annotano le scelte dei clienti profilandole. Questo è il vero business: come tutti i big del web gestiscono i dati: dimmi come mangi e ti dirò chi sei. E magari lo dicono anche ad altri. Guadagnandoci. Si pigliano oltre il 30% di commissioni, c'è chi arriva al 40. Ci sono le penali per i ritardi (fino a 5 euro oltre i 10 minuti nella consegna del piatto), e tendono a trasformare i ristoratori in conto terzisti. Uber Eats ha inventato i ristoranti fantasma (ci sono anche in Italia). Sono cucine senza marchio, catene di montaggio che producono i menù da asporto ridottissimi nelle opzioni e studiati dagli algoritmi delle ordinazioni. Just Eat ogni anno pubblica un report. Per esempio, gli studenti universitari ordinano le ragazze pizza, i ragazzi kebab. Peraltro l'app Just Eat tra gli studenti, via Google o Apple, è cresciuta del 75% in anno. Si scopre così che abbiamo smesso di mangiare italiano: consumiamo hamburger (41% degli ordini) sushi, cinese e il poke (il piatto misto polinesiano di pesce e verdure) che è diventato un cult col 19%. Dice Paolo Bianchini, presidente del Mio, l'uomo delle proteste dei ristoranti: «I giganti del delivery si stanno comprando le licenze di chi non ce la fa per trasformarli in ristornati fantasma, ci vuole blocco delle licenze». È il futuro bellezza, direbbe Cecchi Paone. Che poi si perda agricoltura, cultura del cibo, valore aggiunto della convivialità, del servizio, del vino che, chiusi i ristoranti, ha perso metà del mercato interno (3 miliardi di fatturato svaniti), che si cancellino professionalità costruite in anni e anni chi se ne frega. Conta l'algoritmo! E però una speranza c'è. Un sondaggio di The Fork, l'esatto opposto del delivery, gestisce le prenotazioni dei ristoranti online, dice che il 79% degli italiani tornerà al ristorante entro le prossime tre settimane. Con buona pace dell'ex segretario del Pd, Nicola Zingaretti, che considera «un lavoretto» quello di bar e ristoranti, e del suo successore Enrico Letta che sfida Matteo Salvini sul coprifuoco per cacciarlo dal governo, il 51% si sente più al sicuro a cena in un ristorante che rispetta le misure anti Covid che a mangiare a casa di amici e il 47% è parzialmente d'accordo con l'apertura solo all'aperto. Tempo permettendo.