2021-09-02
Fantin nuota nell’oro: è record del mondo
Da sx senso orario: Xenia Palazzo, Bebe Vio, Antonio Fantin, Katia Aere, Luca Mazzone (Ansa)
L'Italia fa incetta di medaglie (ben 48) e vince nelle discipline acquatiche ma pure nel ciclismo, nel ping pong e nel judo. Gli azzurri proseguono nella striscia positiva delle Olimpiadi e dell'Europeo. E in piscina è anche sbocciato un amore.«La dimora adatta per un poeta, uno scenario messo a punto in modo corretto» è Venezia, secondo una descrizione di Ezra Pound che non lascia spazio a fraintendimenti. Su quello scenario, il vento della Serenissima soffia ancora, a volte un po' sonnecchiante, e però pronto a sferrare la zampata felina, specie alla quale il Leone appartiene di diritto, non soltanto a San Marco. Sarà anche per questo compendio di retorica glocal che i veneti hanno di che essere felici: diverse medaglie paralimpiche italiane a Tokyo parlano la lingua del Doge. Dopo l'exploit di Bebe Vio, arriva ieri l'oro con tanto di record mondiale per il nuotatore Antonio Fantin da Bibione nella specialità dei 100 metri stile libero maschile classe S6: 1'03"71 il tempo, migliorato di 5 centesimi il record precedente. Sempre dalla piscina, arriva la soddisfazione per Xenia Palazzo, bronzo nei 50 metri stile libero femminili, categoria S8. In totale sono 48 medaglie azzurre agguantate in quest'edizione delle Paralimpiadi: 12 d'oro, 19 d'argento, 17 di bronzo. Un record, ovviamente ripartito su tutto il Paese, come già accaduto nei Giochi giapponesi di luglio, una valanga di ciliegine forgiate con metalli preziosi su una torta resa già succulenta dalla vittoria della nazionale di calcio a Euro 2020 e dalla finale - precedente quasi metafisico per l'Italtennis - di Matteo Berrettini sull'erba di Wimbledon. Insomma, l'Italia sportiva è in salute e quest'estate sarà ricordata dagli almanacchi. Ma si parlava di primati impareggiabili. Quello di Antonio Fantin ha le caratteristiche delle belle storie raccontate nei romanzi di formazione. Lui, oggi ventenne, nell'acqua c'è finito per malasorte, seguendo quel consiglio che i medici sono soliti dare alle famiglie quando si debbono pronunciare su una disciplina ricreativa utile a ritemprare la salute di un figliolo cagionevole: «Lo iscriva a nuoto, signora, è uno sport completo», si usa dire. Ma Antonio non aveva solo bisogno di rinforzare la tempra. Nel febbraio 2005, dopo alcune visite, accertò di essere afflitto da una malformazione artero-venosa (mav in gergo scientifico) che rischiava di metterne a repentaglio le capacità neuro-motorie. Dopo l'intervento chirurgico, la riabilitazione obbligatoria in piscina, le prime bracciate che lo rendevano simile a un pesciolino in lotta disperata per la sopravvivenza nelle sabbie mobili. Bracciata su bracciata, le sabbie sono diventate malleabili e l'acqua ha acquisito la consistenza gradita ai giovani agonisti affamati. Sono arrivati ori nei campionati Europei e Mondiali, fino al botto clamoroso di ieri. «Vincere la mia prima medaglia in una Paralimpiade, per di più d'oro, è qualcosa di incredibile», ammette. «Significa moltissimo, vuol dire che il lavoro fatto è stato consistente e ci dà fiducia per il futuro. Nuotare, per me, equivale a migliorare me stesso a tutto tondo». Fosse solo questo. Su quest'edizione veglia pure l'ombra profumata del Dolce Stilnovo. Chiedetelo alla coppia di fidanzati nuotatori Stefano Raimondi e Giulia Terzi. Il primo ha appena conquistato un argento nei 100 metri delfino maschili, la seconda un oro nei 100 metri stile libero femminili. I due stanno rendendo il medagliere italico zeppo come un salvadanaio: un oro, due argenti e un bronzo lui, due ori e due argenti lei. Stefano ha 23 anni, ha dovuto modificare la sua tecnica agonistica dopo il 2017, quando un incidente in motorino gli ha provocato lesioni serie alla gamba sinistra. Giulia è nata nel 1995, soffre dall'età di quattro anni di una scoliosi congenita che la costringe su una sedia a rotelle. Si laureerà tra poco in scienze motorie. Hanno annunciato la loro unione durante i successi nel Sol Levante. «Questa medaglia l'abbiamo vinta praticamente insieme, ho seguito con il cuore in gola la sua prova dalla camera di chiamata», spiega Raimondi. «È stata un'emozione straordinaria. Volevo fare anch'io la gara sulla falsariga di Giulia. Ma mi farò bastare l'argento, il mio avversario era nettamente più forte, va bene così». Visto come viaggiano entrambi spediti, dovessero mai avere discendenza, nascerà già con le pinne. Vasche a parte, le Paralimpiadi vedono successi tricolori in molte altre discipline. È arrivata dal ciclismo la prima medaglia nell'ottava giornata. Luca Mazzone si è aggiudicato l'argento nella categoria H1-H2 di handbike. Cinquantenne nato a Terlizzi, provincia di Bari, tesserato per il Circolo Canottieri Aniene, è giunto secondo nella prova in linea, mettendosi al collo il suo settimo podio paralimpico in carriera, il quinto nel paraciclismo. Ha sfrecciato in 1'53"43, alle spalle del francese Jouanny e davanti allo spagnolo Garrote Munoz. «Sono contento. La gara era dura e non l'ho capita fino in fondo, ero convinto che avremmo ripreso il francese in salita, invece è andato fortissimo. Ho battuto lo spagnolo, quello che tre mesi fa ha dimostrato di essere il più forte ai Mondiali, mentre il francese proprio non me l'aspettavo così rapido perché gli avevamo dato tre minuti in Portogallo. Sto pensando già alle prossime sfide, le medaglie arrivate le mettiamo in valigia». Nel femminile, bronzo per Katia Aere da Spilimbergo, Friuli, nella prova in linea di categoria H5. E se nel tennistavolo a squadre Michela Brunelli e Giada Rossi conquistano il bronzo nella classe 1-3, c'è spazio pure per togliersi qualche sassolino dalle scarpe sul tatami di judo, luogo in cui tradizionalmente si combatte scalzi. Carolina Costa, ipovedente, capitana della Nazionale italiana della Fspic, agguanta il bronzo nella categoria femminile +70kg, battendo l'ucraina Harnyk. Per lei una prova di carattere, dopo l'inaspettato scivolone nelle semifinali contro la kazaka Baibutina, avversaria alla sua portata. «Sono abbastanza emozionata e allo stesso tempo stanca, dopo cinque anni di preparazione e di ottimi risultati, questo bronzo vale oro», spiega, un po' di delusione a scandirle la voce, cancellata nell'istante in cui il pubblico può contemplare la bacheca italiana. Mai così tanti successi da quando esistono le Paralimpiadi.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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