2021-02-16
Paola Quattrini: «Papà nemmeno voleva che facessi l’attrice»
Paola Quattrini (getty images)
La diva con la carriera più longeva del nostro Paese: «Da quando a 4 anni fui “la Shirley Temple italiana” non ho più smesso di recitare. Neanche per l’emergenza Covid. E dire che per mio padre, operaio, il teatro non era “un mestiere perbene”»Paola Quattrini, una longevità professionale che non ha eguali nel mondo dello spettacolo. Calca i set e le scene da quando era bambina, ma a quasi 77 anni non ha tempo né voglia di guardarsi alle spalle. Preferisce pensare al giorno in cui potrà finalmente tornare sul palcoscenico per ritrovare quella che lei definisce la «magia» del teatro: il contatto con il pubblico. Un po’ a malincuore, con la simpatia che la contraddistingue, accetta di aprire l’album dei ricordi e ripercorrere alcune tappe della sua lunga carriera. «Guardo sempre avanti e faccio fatica a guardare indietro. È il mio modo di vivere. Tutti dicono che il passato è importante, che bisogna ricordare... Sarà anche importante perché mi ha fatto diventare quella che sono, però io non ci riesco: penso sempre all’oggi e al domani».È entrata nel mondo dello spettacolo a quattro anni. Come mai?«Mi hanno raccontato, perché io proprio non me lo ricordo, che mi piaceva sempre mettermi in mezzo alle persone a parlare. Ero molto disinvolta, fin da piccola. Non a caso volevo fare la ballerina. Faceva parte del mio carattere evidentemente. Quando mi dicevano per una scena: “Devi piangere”, io subito piangevo, oppure, se occorreva, ridevo in maniera non forzata, molto naturale. Chi mi ha notato è stato il regista Guido Brignone. Le mie zie erano cassiere al Teatro Quirino di Roma e mia madre mi portava lì insieme alle mie sorelle più grandi. Era l’unico svago della mia famiglia. Brignone cercava una bambina per il suo film Il bacio di una morta, mi ha visto, mi ha parlato e sembra che abbia chiesto a mia madre se mi poteva portare a Cinecittà il giorno dopo a fare un provino».Ha rivisto quel suo primo film?«Sì, mi fa molta tenerezza. Da quel momento è stato un film uno dietro l’altro».Era la Shirley Temple italiana!«Conservo ancora dei giornali che dicevano proprio questo: la Shirley Temple italiana. Un giorno in uno spettacolo presentato da Mario Riva mi fecero fare l’imitazione di Wanda Osiris, scendendo da una scalinata come lei, e tutti dicevano: “Non è possibile che sia una bambina!”, tanto ero padrona della scena. Mi fecero scendere vicino ai tavoli per farmi vedere da vicino e constatare che ero una bambina».Nel frattempo ha cominciato a lavorare anche a teatro, a dieci anni...«Con Luigi Squarzina per Il potere e la gloria. Degli esordi a teatro ho più ricordi, visto che ero più grande. Dei primi film ho vaghi ricordi, per esempio una scena in cui non riuscivo a piangere e il regista disse: “Non fate entrare la madre! Lasciatela fuori!”. Ricordo il mio terrore al pensiero di mia mamma fuori dalla porta: cominciai a piangere, in maniera fin troppo violenta!».Il regista fu furbo e crudele...«Crudele come lo fu Paolo Stoppa in Ragazze d’oggi: in una scena non sapevo giocare a palla e il regista Luigi Zampa, che era una persona meravigliosa, la fece ripetere tante volte, Stoppa si stufò e disse: “Ma è possibile che una ragazzina non sappia giocare a palla?!”».Com’era l’atmosfera su quei set rispetto ai film che ha fatto più avanti?«Naturalmente erano tutti molto carini nei confronti di una bambina. Nel film Madonna delle rose di Enzo Di Gianni, Marco Vicario interpretava il ruolo di mio padre e in una scena fondamentale era accasciato a terra perché gli avevano sparato e io, inginocchiandomi sul suo cadavere, dovevo piangere e chiamarlo. Vicario non riuscì a fingere di fare il morto e disse: “No, è troppo brava ’sta ragazzina!”. Ho fatto anche Le fatiche di Ercole di Pietro Francisci con Steve Reeves: ho una foto con questo uomo pieno di muscoli. Facevo il personaggio di Sylva Koscina da bambina. Mi divertivo a vestirmi. Si dice che a Carnevale ci si mascheri: io mi sono mascherata tanto!».Le sue sorelle erano invidiose?«La più grande, Marisa, voleva fare anche lei l’attrice e mio padre diceva: “Assolutamente no! Paola lo fa adesso, ma non lo farà da grande. L’attrice è un mestiere poco perbene”. Mia sorella allora aspettò i diciott’anni per iscriversi all’Accademia nazionale d’arte drammatica, dove a volte mi portava a salutare gli altri studenti. Mi sentivo una diva in quei momenti perché ero al centro dell’attenzione e mi davano tutti molta importanza: rispetto a loro che studiavano, io ero già affermata. Poi non mi sono più sentita una diva».Sua sorella ha proseguito nella carriera?«Abbiamo fatto insieme degli spettacoli al Ridotto dell’Eliseo. Mi diceva che ero molto indisciplinata perché lei, avendo fatto l’Accademia, aveva un modo molto più severo di concepire la professione. Per me era un gioco e lo prendevo molto istintivamente. Per questo ogni tanto mi riprendeva. Ha lavorato con Luca Ronconi e Sergio Fantoni ne I lunatici, ha fatto Liolà con Domenico Modugno, poi si è ammalata ed è morta a quarant’anni. Una donna bellissima e una bravissima attrice. Con lei avevo un rapporto fantastico. Quando stava male, ero in tournée con la commedia Mi è cascata una ragazza nel piatto - io ricordo gli anni secondo le commedie - e mi dissero: “Guarda che è gravissima”. Lei aspettò proprio che arrivassi io per tenermi la mano. È stato il primo grandissimo dolore della mia vita, poi c’è stato quello per la morte di mia madre». Le altre sorelle hanno preso strade diverse?«Rossana, che è morta un anno fa, era dedita alla famiglia. Quando mia madre le diceva: “Vai tu, al posto mio, ad accompagnare Paola”, non voleva mai venire perché si vergognava. Era timida, riservata. L’altra sorella, Gabriella, fa la poetessa: vive in un mondo tutto suo, è molto autonoma, ama la libertà, dice: “Io sono una gazzella”».C’è una vena creativa in tutta la famiglia...«Sì, però da dove sia venuta non lo so!». Suo padre cosa faceva?«Era un operaio. Faceva l’idraulico e per arrotondare andava al mattatoio. Abitavamo a San Saba, avevamo una casa popolare dove stavamo in due stanze».Gli attori bambini a volte hanno la fortuna di continuare, a volte si fermano lì. Lei non ha mai avuto un momento di pausa?«Mai! Mi sono fermata solo per il Covid e neanche tanto perché a un certo punto ho girato un cortometraggio, Fedora di Andrea Marrari, che sta ricevendo premi in giro per il mondo. Si basa sulla figura di un’attrice e del suo abito, che ha disegnato per me lo stilista Marco Coretti, mio grandissimo amico».Tra i film che ha fatto quale reputa più significativo?«Ricordo con piacere i film diretti da Carlo Vanzina, Io no spik inglish, con Paolo Villaggio, e Le finte bionde, ma quello che amo di più è Fratelli e sorelle di Pupi Avati, per il quale ho vinto il Nastro d’argento. Io che sono reputata un’attrice brillante ho avuto i maggiori riconoscimenti e premi quando ho fatto cose drammatiche. Mi piacerebbe tanto fare ancora un film con Pupi. Mi piacerebbe poi interpretare storie di donne di oggi, come nella prossima commedia che porterò in scena: è tratta da un testo di un bravissimo autore che si chiama Luca De Bei, Slot, ed è la storia di una donna malata di gioco, tormentata, infelice, però anche ironica. De Bei mi conosce bene e ha scritto un personaggio proprio sulla mia pelle».Ha avuto la fortuna di recitare con grandi compagni di lavoro: Dario Fo, Luca Ronconi, Walter Chiari...«Nando Gazzolo, Johnny Dorelli, Gino Bramieri, Arnaldo Foà, Paolo Panelli, Vittorio Caprioli, Franca Valeri, ma vorrei ricordare anche Toni Ucci perché tante volte si parla solo di primattori. La prima compagnia che ho fatto seriamente è stata con Franca Valeri ne Le catacombe per la regia di Vittorio Caprioli. Lì ho capito come si faceva il teatro: la disciplina e le regole. Fino ad allora mia sorella provava a dirmelo e io non ci sentivo, seguitavo a giocare grazie al mio istinto che mi consentiva di buttarmi di getto, aiutata anche da una grande memoria. Avevo poca voglia di lavorare, tanto sapevo che salivo sul palco e risolvevo. Invece, in compagnia con Franca Valeri, ho imparato la disciplina e sono diventata un po’ “rompina” anche io. Adesso come prima attrice ci tengo a che si osservino certe regole: il rispetto del palcoscenico, del camerino... Non sopporto più la gente che lo fa tanto per fare».Ha lavorato anche con un maestro come Pietro Garinei.«L’unica foto che conservo incorniciata in casa mia è con lui. Quando è morto, ho pianto le lacrime che avrei dovuto piangere per mio padre. Per me ha rappresentato tantissimo per il rispetto che provavo nei suoi confronti e per le parole che diceva con gentilezza, ma sempre così sottili. Mi diceva: “Devi fare un attimo un respiro per dare agli spettatori la possibilità di applaudire, perché il pubblico partecipa con te al gioco del teatro”. Infatti recito sempre con il pubblico. Ogni sera è diverso perché, a secondo del modo con cui gli spettatori partecipano, io mi adeguo, diventando un tutt’uno con loro. È una cosa magica».Tra gli spettacoli per la regia di Garinei quale ricorda maggiormente?«Intanto porto ancora in scena, da sola, uno spettacolo che ho fatto con lui: Oggi è già domani. Avrei dovuto farlo due mesi fa, poi per la chiusura dei teatri non abbiamo potuto. Era un spettacolo iniziato con una scenografia pazzesca di Uberto Bertacca e la musica di Armando Trovajoli, una grande messinscena, pur essendo io sul palcoscenico da sola, perché nel primo atto c’era una scenografia, nel secondo un’altra. Quando Garinei morì, Pietro Mezzasoma, un altro impresario, mi disse: “Sai, costa troppo portare le scenografie in giro. Non si potrebbe ridurre?”. Io per la voglia di recitare e seguitare a farlo me ne uscii: “Io lo faccio anche senza niente”. Lui, tutto contento, mi disse: “Così è molto più moderno!”. L’altro spettacolo di Garinei che mi accompagna è Se devi dire una bugia dilla grossa, che dovremmo riprendere il prossimo anno. Non vedo l’ora!».
Little Tony con la figlia in una foto d'archivio (Getty Images). Nel riquadro, Cristiana Ciacci in una immagine recente
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Disponibile dal 10 settembre, Las Muertas ricostruisce in sei episodi la vicenda delle Las Poquianchis, quattro donne che tra il 1945 e il 1964 gestirono un bordello di coercizione e morte, trasformato dalla serie in una narrazione romanzata.