2024-12-05
Quel regista prestato alla politica fra Milano da bere e Tangentopoli
Paolo Pillitteri e Bettino Craxi nel 1984 (Getty Images)
Scomparso nel giorno del suo 84° compleanno l’ex sindaco meneghino. Fu cognato e sodale di Craxi, poi venne spazzato via dalla furia delle toghe. Ma la sua vera vocazione era artistica e intellettuale.«Il mio regno per un piatto di pizzoccheri». Le conversazioni a tavola cominciavano sempre così. Ma il suo regno culturale non era la politica, bensì il cinema che amava alla follia. E il suo regno geografico non era Milano, dove è stato sindaco nei ruggenti anni ’80, ma la corona delle montagne di Valtellina, elette luogo dell’anima. Lì passeggiava, scriveva, tornava con lo spirito dov’era nata mamma Zelia. Postalesio, la sua Cold Mountain. E dove, grazie ai padri salesiani, aveva conosciuto da ragazzino la settima arte. Nato il 5 dicembre 1940 a Sesto Calende (Varese), Paolo Pillitteri avrebbe frequentato felicemente anche le altre sei. Nel 1970, da assessore alla Cultura di Milano, fece impacchettare a un Christo semisconosciuto la statua di Vittorio Emanuele II in piazza Duomo e il monumento a Leonardo da Vinci in piazza della Scala. Da appassionato di teatro sapeva anche scegliere i tempi delle uscite di scena: se n’è andato ieri nel giorno dell’84º compleanno. Lo ha annunciato sui social il figlio Stefano, avvocato ed ex assessore nella giunta di Letizia Moratti: «Mio padre ha scelto questo giorno per salutarci per sempre. Ha avuto un’esistenza assai ricca, nel bene e nel male. Ed è ciò che più conta nel nostro passaggio terreno, anche se poteva essergli risparmiato un decennio di persecuzione giudiziaria. Ma ciò che ancora più conta, è che resta e resterà nel cuore di tante persone». Innanzitutto nel suo, in quello dell’altra figlia Maria Vittoria, dei nipoti e dell’adorata Cinzia Gelati, giornalista sposata in seconde nozze.Il gran valtellinese con gli occhiali sulla fronte è stato tante cose, una su tutte per la vulgata dell’Italia in prima pagina: fu il cognato di Bettino Craxi. La sorella dell’ex premier, Rosilde, fu sua moglie nella stagione tellurica del garofano socialista, dopo la «rivoluzione dei quarantenni» e lo strappo con le ambiguità da politburo del Pci berlingueriano. Il Pilli fu sindaco della Milano da bere (1986-1992) con le ultime due dita di champagne nel flûte prima del terremoto di Tangentopoli. Allora pagò la parentela e la mancata sottomissione alle toghe rosse: undici processi, nove assoluzioni, una condanna per ricettazione a due anni e sei mesi, e un patteggiamento. Poi si costruì una seconda vita da scrittore, regista, critico cinematografico, condirettore con Arturo Diaconale dell’Opinione. «Mica paglia» s’inorgogliva nel ricordo, «il primo giornale liberale d’Italia, sul quale Cavour imparò a scrivere in italiano». Ha firmato 18 libri con ritmi da Georges Simenon, ne aveva altri in canna e diceva: «La cultura mi ha salvato la vita». Anche i medici, più volte. In un’intervista rilasciata alla Verità qualche anno fa riassumeva con piglio notarile, sorseggiando Sassella: «Ho sopportato due infarti, un intervento al centro cardiologico Monzino, cinque bypass, sette stent. Mi mancava il pacemaker, ho vinto anche quello. Numeri da giocare al Lotto».Ha sempre considerato suo cognato un vulcano, un rivoluzionario, «capace di pensare il futuro con la velocità di un lampo». Quando uscì il film Hammamet di Gianni Amelio storse la bocca: «Bettino appare solitario e remissivo mentre io lo ricordo lottatore fino all’ultimo. Era la sua natura da guerriero. Mi chiamava anche due, tre volte al giorno. Non si arrendeva mai». Dopo di lui, solo Francesco Cossiga. Diceva: «Mi voleva bene, tutte le volte che pubblicavo un libro mi chiamava. Per farlo venire a Milano abbiamo inaugurato tre volte la linea 3 della metropolitana nel periodo di Italia ’90. Andò anche sulla tomba di Craxi a recitare L’Eterno riposo. Schiena dritta, altri non l’hanno avuta». Quando raccontava l’aneddoto si intristiva perché a lui, indagato, i pm impedirono di partecipare ai funerali del cognato. Pillitteri amava Milano e ne ha sempre colto lo spirito innovatore. Nel 1963 girò un documentario e lo intitolò Milano oh cara, lo sceneggiatore era Craxi. Commentava: «Questa città cambia sempre in meglio. È solida, consapevole, non riesci neanche a violentarla. È la più a Sud d’Europa, non la più a Nord del Mediterraneo. Mi piace anche la Milano verticale. Secondo Giò Ponti il grattacielo Pirelli doveva essere il buongiorno che la città dava ai lavoratori che arrivavano dalla stazione centrale. Quanta gente abbiamo salutato. Certo, il benvenuto è per chi rispetta le regole, perché le regole le fa Milano, patria di ogni avanguardia». Eppure il ricordo più hard da sindaco fu un alterco con i tramvieri finito a parolacce («razzisti, straccioni»). Non se n’è mai fatto una ragione. «Fuori dal deposito dell’Atm c’erano alcune roulotte di immigrati e loro non le volevano. Mi sono arrabbiato. I tranvieri erano di sinistra ma sembravano dei nazisti. Adesso i radical chic, che allora mi crocifissero, mi avrebbero applaudito».Da uomo di penna e di cinema trascorse un anno con Federico Fellini per scriverne la biografia. «Mi portava in tutti i ristoranti e assaggiava anche quello che ordinavo io; sarebbe stato più facile mettere insieme un volume di ricette. Lo pubblicai nel 1995, titolo La baracca di Fellini. Lui non era un regista, era uno sciamano. Con Prova d’orchestra riuscì a prevedere anche Tangentopoli e la palla nera che spazzò via la prima repubblica». Tanta vita, tanti libri. Uno è speciale. È un piccolo pamphlet dedicato ad Antonio Di Pietro nella stagione da star sudamericana. S’intitola Evito, dos pesos y dos misuras e dice tutto del peggior vizietto della magistratura, ieri come oggi. Va ricordato, mentre il suo autore torna per l’ultima volta fra le amate montagne.
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