2022-12-23
«Mio padre era pronto a graziare i Br per Moro ma nessuno lo chiese»
Giovanni Leone, nel riquadro il figlio Paolo (Ansa)
Paolo Leone, figlio dell’ex presidente della Repubblica: «Per lui il politico dc venne sacrificato dallo “Stato leviatano”. Voleva dimettersi già nel 1975».Il 3 novembre 1998, giorno del novantesimo compleanno di Giovanni Leone (1908-2001), presidente della Repubblica dal 29 dicembre 1971 al 15 giugno 1978, i radicali Marco Pannella e Emma Bonino, suoi principali accusatori assieme al Pci, si scusarono, riconoscendogli di «aver spinto la sua lealtà fino alle sue estreme conseguenze, accettando di essere il capro espiatorio di un assetto di potere». Nato a Napoli, si laureò in giurisprudenza a 20 anni e in scienze politiche a 21, divenne professore ordinario a 27. Fu tra i 75 della commissione alla Costituente. Venne eletto alla Camera, per la Dc, nel 1948, e nominato senatore a vita da Saragat nel 1967. Nel 1943 evitò la rappresaglia nazista per oltre 40 prigionieri politici, tra cui alcuni comunisti, firmando, da Procuratore militare, l’ordine di scarcerazione e rischiando la vita. Nel Vajont gli rimproverano di esser stato tra i legali della Sade-Enel, responsabile del disastro. Per la questione Lockheed - corruzione sulla vendita all’Italia di velivoli C130 Hercules - non fu mai incriminato. La commissione inquirente ravvisò l’infondatezza dei sospetti nei suoi confronti. La puntuta Oriana Fallaci, che nel 1973 lo intervistò, scrisse: «A noi serve che rimanga giovane a lungo, visto che afferma di voler difendere bene questa nostra Repubblica». Camilla Cederna, invece, nel libro La carriera di un presidente (Feltrinelli, marzo 1978) fu spietata. Ma ebbe una condanna per diffamazione. Ammise di aver attinto a fonti di dubbia origine. Nelle sue dimissioni, in diretta tv, Leone disse: «Per sei anni e mezzo avete avuto come presidente della Repubblica un uomo onesto». Con Paolo Leone, classe 1954, secondo dei tre figli dell’ex capo dello Stato, laurea in diritto costituzionale, oggi avvocato cassazionista e titolare dello studio Leone, fondato nel 1905, padre di due figli, Luca, 40 anni, e Giovanni 38, conversiamo sulla figura istituzionale, politica e privata del sesto inquilino del Quirinale.Leone non aderì mai ad alcuna corrente Dc. Indipendenza politica o strategia?«Non c’era nessuna strategia. Non si è mai considerato un uomo di potere, ma al servizio delle istituzioni. Questo gli derivava non solo dalla sua formazione familiare - mio nonno era stato tra i fondatori del Partito popolare, nel 1919 - ma anche perché veniva dalla scuola di Enrico De Nicola. Nel 1953 era vicepresidente della Camera e nel 1955 ne divenne presidente. Non ha mai accettato ministeri. Erano questi il suo taglio culturale e la sua natura, lontani dai giochi politici». In famiglia parlava con lui di politica? «Papà era una persona aperta, con un’elasticità mentale tale per cui si poteva parlare di tutto. Ogni cosa si traduceva in un insegnamento. Si parlava anche di personaggi politici che incontravano la mia simpatia o antipatia».Chi, ad esempio, le stava antipatico?«Non ho antipatie preconcette, ma ricordo che ritenevo sconvenienti certi atteggiamenti di Pajetta, che ogni tanto in aula dava in escandescenza e lanciava oggetti. Venivo da un’educazione molto rigida, io e i miei fratelli eravamo stati inquadrati da una governante inglese, avevo fatto l’ufficiale in Aeronautica militare». Nel 1963 e nel 1968, suo padre fu presidente del Consiglio di governi definiti «balneari», in attesa di accordi tra i partiti. In ballo, la questione, cara a Moro, del centrosinistra. Come la vedeva Leone? «Fu chiamato, prima da Segni e poi da Saragat, in virtù della sua indipendenza nel più grande partito, per fare questi governi, in attesa che le forze politiche trovassero soluzioni per esecutivi più stabili. Per definizione non era un uomo che potesse occhieggiare alla sinistra, era un assertore dell’Alleanza atlantica. Aveva massimo rispetto per tutti i partiti, ma non avrebbe fatto un governo con la sinistra. I suoi furono governi monocolori». Nel 1962 Togliatti lo considerò adatto per la presidenza della Repubblica.«Godeva di stima dall’estrema destra all’estrema sinistra. Chiaro che Togliatti, politico navigato, avendo a cuore le sorti del suo partito, pensava che avrebbe potuto condizionare un presidente eletto con i voti del Pci. Ma il Pci aveva uno strettissimo legame con l’Urss. A Togliatti mio padre rispose: “No, grazie”». Dopo un’estenuante votazione, Leone fu eletto capo dello Stato. Gli iniziali candidati erano Fanfani e Moro. «Fu Moro a far convergere su papà, all’interno della Dc».Si parlava di una candidatura di Moro al Quirinale anche nel 1978, prima del suo sequestro. Ma voleva aprire al Pci…«Non penso fosse il vero problema, ma col senno di poi tutto diventa fantapolitica. Moro era autorevole, non credo che le sue visioni a sinistra fossero un ostacolo. Se si considera che, dopo mio padre, fu fatto presidente Pertini…». Sul destino di Moro, nel 1978, chi decise nella Dc?«Per la decisione sulla questione trattativa sì trattativa no, c’era un’anima democristiana che faceva capo a Zaccagnini. Le decisioni del partito le prese lui». Suo padre era per la linea umanitaria e avrebbe firmato la richiesta di grazia per una brigatista. «La propensione di mio padre alla trattativa, fatta in un certo modo, era nota. Si espresse affinché si utilizzasse il suo potere di grazia per la Besuschio, terrorista non condannata per reati di sangue. Ma la domanda di grazia non gli arrivò mai. Vorrei leggerle un passo di un volumetto, non in vendita, che scrisse, Moro: inascoltata invocazione del diritto alla vita». Prego. «”Il concetto del diritto alla vita, dedotto dall’articolo 27 della Costituzione, è da includere nel novero dei diritti inviolabili dell’uomo (…) Coloro che, come me, professavano la linea umanitaria, contrapposta alla linea della fermezza, si collocavano nel giusto (…) La vita di Moro faceva parte di questi diritti (…). La realtà, purtroppo, è questa: Moro è stato sacrificato sull’altare di una concezione dello Stato assoluto, o di uno Stato col marchio Leviatano, che è poi la negazione assoluta dello Stato a ispirazione liberale-cristiana”».Disastro del Vajont, 9 ottobre 1963. I sopravvissuti si risentirono con Leone che, da presidente del Consiglio, promise vicinanza, ma esaurito poco dopo il suo mandato da premier, divenne il legale di Sade-Enel, responsabile del disastro. «Da quello che ricordiamo in famiglia dopo 60 anni, fu avvocato di parte civile, non difensore, incarico che durò poco. La funzione dell’avvocato è tecnica e non politica, l’avvocato può dire ciò che vuole ma, sulle calamità, il risarcimento lo decide lo Stato, con leggi o decreti, a prescindere dell’esito dei processi».Fu tuttavia Leone, da avvocato, a trovare il cavillo giuridico della commorienza, che limitò fortemente i risarcimenti ai familiari di alcune vittime rimaste senza parenti.«È facile fare valutazioni a posteriori. Inoltre, nel 1971 nacquero le Regioni e il quadro si complicò. Il presidente della Repubblica non decreta risarcimenti. Può fare solo moral suasion. Dopo il terremoto del Friuli (1976, ndr), incontrò le persone, ebbe una parola per tutti e poi se ne occupò, sempre con la moral suasion». Nel 1975 suo padre si pronunciò per la non rieleggibilità del capo dello Stato.«La propose nel messaggio del 1975, assieme all’abolizione del semestre bianco. Il Parlamento decise di non discutere il messaggio e allora mio padre volle rassegnare le dimissioni. Una processione di politici, tra cui Forlani, l’implorò a rimanere. Si fece convincere, per alto senso di responsabilità. Anni dopo ci confidò il suo rammarico per non essersi dimesso».Sullo scandalo Lockheed, Leone fu riconosciuto estraneo ai fatti. «Mio padre non fu mai processato né incriminato, nemmeno dalla commissione inquirente. La vicenda Lockheed ha avuto un processo, ed è stato condannato un ministro di un governo che non era il suo (Mario Tanassi, nrd). Questa storia fu cavalcata per fini politici». Leone fu un capro espiatorio?«Diciamo che molti aspiravano a prendere il suo posto e ad avere un presidente condizionabile».Il giorno del suo sequestro, i giornali si chiedevano se fosse Moro «Antelope Cobbler», presunto principale collettore delle bustarelle Lockheed. Si parlò pure di Rumor. Ma chi era questa figura? «Non si è mai saputo. Venne fuori dalla commissione Church negli Stati Uniti per questo scandalo che non colpì solo l’Italia ma anche altri Paesi, ma non c’è un nessun nesso con determinati personaggi. Inoltre Moro era sopra a qualsiasi tipo di logica di questo genere».Similmente al Watergate, sulle dimissioni di Leone incise la stampa.«La campagna stampa non si limitò solo alla questione Lockheed, ma prese spunto da accuse del tutto infondate sul privato di noi familiari. Queste diffamazioni trovarono, dopo la morte di Moro, e ciò non è casuale, l’ascolto di una certa politica, tra cui il Pci, che la Dc non seppe o non volle contrastare».Perché sostiene che non è casuale che ciò sia avvenuto dopo la morte di Moro? «La Dc, con Moro, che era il presidente del partito, non si sarebbe comportata così e Zaccagnini non avrebbe prevalso». Ritiene che il libro della Cederna fosse stato suggerito da poteri sottostanti?«Il sospetto è lecito».Si dice che suo padre fosse molto scaramantico. È vero?«Non era scaramantico. Il gesto delle corna di Pisa avvenne perché, all’uscita dell’università, un gruppo di contestatori gridava “A morte Leone”, ma fu occasionale».Si demoralizzò dopo le dimissioni?«Una depressione di fondo lo ha accompagnato fino all’ultimo giorno. Continuava a studiare, scrivere, a fare attività in Senato, ma con animo ferito». Come giudicò Tangentopoli? «La ritenne un’esagerazione, anche mediatica, che poteva essere risolta senza grandi traumi, pur facendo i processi». Lei votava Dc?«Sempre votato Dc».E alle ultime elezioni?«Non ho votato a sinistra».Dove pensa si trovi suo padre nella dimensione ultraterrena?«Lo vedo nel più alto dei cieli a dialogare con San Paolo, che considerava il più grande santo della Chiesa».
A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
Continua a leggereRiduci
Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)