2025-06-23
Paolo Capitini: «Tycoon felice? Occhio agli strascichi»
Il generale: «Israele ha aperto troppi fronti, Trump è intervenuto con una operazione chirurgica. Spero non abbia scoperchiato il vaso dell’ennesima tragedia mediorientale. Difficile che Cina e Russia riescano a mediare».Paolo Capitini, da generale dei bersaglieri ed analista, lei mi insegna che ogni missione militare si pone almeno un obiettivo. Quale è quello di Israele? «Premetto che in ogni guerra gli obiettivi strategici sono tra i segreti più tutelati. Svelarli significherebbe, infatti, concedere all’avversario la destinazione del percorso e quindi far comprendere la strada che si intende percorrere per raggiungerla. Però sono spesso le stesse azioni a svelare, se non tutti gli obiettivi, almeno parte di essi. Prendo per buona, e ci vuole molta fantasia, la necessità per Israele di neutralizzare una volta e per tutte il programma atomico iraniano. È dal 2001, anno in cui l’Iran ha avviato il suo programma nucleare, che Israele grida alla bomba. Cosa è cambiato ora, dunque, per rendere possibile un attacco di queste proporzioni? In primo luogo, l’Iran. Dopo quarant’anni di sanzioni e severi problemi di tenuta interna, e con forze armate che, a parte la componente missilistica, non rappresentano una minaccia credibile, l’Iran è debole. Isolato nel contesto mediorientale. L’asse della resistenza, che con tanta pazienza aveva tessuto per oltre 15 anni (Hezbollah, mujahidin iracheni, Huthi yemeniti e non ultimo Hamas), è quasi annichilito. Quasi è parola da non dimenticare. In secondo luogo, la leadership statunitense non è mai stata così debole e ondivaga come in questo periodo. Altri partner - come Russia e Cina - in questo momento hanno da guardare altrove. Quindi questo per Israele era il momento propizio».L’ipotesi del regime change? «Certamente Netanyahu l’ha messa nel cesto, ma non so con quali reali speranze. Un regime che da oltre quarant’anni governa un Paese di 90 milioni di abitanti con oltre 25 secoli di storia non può farlo solo con il terrore e la repressione. Deve avere necessariamente una base di consenso, magari mugugnante, ma reale e non trascurabile. Bombardare, uccidere e distruggere di solito non sortisce effetti. Le opposizioni passerebbero immediatamente come traditori della patria al soldo del nemico. Realisticamente l’obiettivo potrebbe essere dunque di far regredire l’Iran di una ventina d’anni o, meglio, portarlo a livello della Siria attuale o, peggio, dell’Afghanistan. Visione che mi appare parecchio ottimista. Ricordiamoci però che nel governo di Bibi ci sono ministri che vedono Israele estesa dal Nilo all’Eufrate».Possiamo stimare le perdite subite da Teheran in questi primi giorni di guerra? «In questa fase no. Di certo i centri di comando israeliani hanno una valutazione molto realistica dei danni inflitti finora, ma si guardano bene dal renderla pubblica. Così come il numero delle vittime civili o militari. A qualche giorno dall’inizio della guerra, questa si combatte anche con i numeri».Molti osservatori sono rimasti scottati dalla «fialetta di Colin Powell». Una scenetta per giustificare l’azione Usa e che doveva farci capire quella che poi si sarebbe rivelata una bufala. L’Iraq non era in possesso di armi chimiche. Lei ritiene che sia logico diffidare del fatto che l’Iran stia lavorando alla sua bomba atomica o c’è del vero in queste accuse? «Che l’Iran stesse realisticamente lavorando alla realizzazione di una bomba è possibile ma non verificabile in modo incontrovertibile. È vero che l’ayatollah Khamenei già nel 2005 lanciò una fatwa che proibiva la realizzazione di armi atomiche da parte della Repubblica islamica e di solito da quelle parti le raccomandazioni della Guida suprema hanno maggior seguito di quanto da noi hanno quelle del Santo Padre. Tuttavia, realizzare una bomba atomica non è poi solo una questione di uranio arricchito oltre il 90%. Direi anzi che quella è davvero la parte più facile».Il difficile cosa è? «Rendere la bomba trasportabile, ad esempio, da un missile. Servono capacità di costruzione, materiali e tecnologie molto sofisticate che poco hanno a che vedere con il materiale radioattivo. Devi costruire inneschi, involucri, dispositivi elettronici, specchi esplosivi in materiali rari, con tolleranze infinitesimali. Metodi di lavoro che pochi al mondo posseggono. Se invece vuoi realizzare una “bomba rozza” (tipo quella fatta esplodere nel 1945 ad Alamogordo, nel deserto del New Mexico) allora la cosa è di gran lunga più facile. L’Iran in questo caso avrebbe potuto dire di possedere una bomba, ma che per ingombri e pesi non sarebbe potuta essere lanciata contro nessuno. In ogni caso per realizzare anche questa bomba rozza sarebbero stati necessari almeno quattro o cinque anni. Netanyahu non ha voluto aspettare per scoprire se queste fossero o meno le reali intenzioni di Teheran».Secondo il Wall Street Journal la capacità di lancio di missili iraniani si è drasticamente ridotta da 200 al giorno a poco più di 20. Però i danni in Israele sembrano essere sempre più evidenti. Come si spiega questa apparente contraddizione? «Potrebbe trattarsi di un’errata valutazione delle reali consistenze degli arsenali missilistici iracheni, che di certo non sono stati sorpresi dall’attacco israeliano. Teheran ha avuto tutto il tempo per diradare, sparpagliare i suoi missili e i sistemi di lancio in un territorio che ricordo essere equivalente a quello di Germania, Francia, Spagna e Italia messe assieme. Altra ipotesi che non smentisce la prima è che le difese aeree israeliane siano a corto di missili da intercettazione, soprattutto per il sistema ad altissima quota (Arrows III) e a media quota (“Fionda di Davide”). Intercettare missili balistici o da crociera impone infatti un dispendio di armamento molto elevato. Per colpirne uno devi lanciarne tre. Le scorte di missili antimissile a disposizione di Israele diminuirebbero in fretta. Ricorderei poi che l’Iran dispone di missili ipersonici, che viaggiano a 5-7 volte la velocità del suono o se preferite a 6.000 chilometri orari. Li lanci da Roma? In meno di sei minuti colpiscono Milano!».Una veloce radiografia dell’esercito iraniano? «Dal punto di vista militare l’Iran ha un unico punto di forza: la sua capacità missilistica. L’aeronautica era stata messa a terra ben prima dell’attacco israeliano da anni di sanzioni. Per non parlare della marina militare. Le forze di terra tra esercito e pasdaran sono molto numerose. Ma escludo che uno scontro terrestre sia nei piani israeliani. Altri punti di forza? Le dimensioni del Paese e la sua posizione geografica, che le altre grandi potenze non possono ignorare. Magari India, Cina o Pakistan non sono amici d’infanzia ma la loro dipendenza dal petrolio del Golfo li obbliga a considerare Teheran anche quando questo minaccia solo di chiudere lo stretto di Hormuz. Infine, il tempo. Più la guerra si estende in termini temporali, più il vantaggio di Teheran – oggi assai scarso – aumenta».Israele invece? «All’opposto di Khamenei, Netanyahu teme solo di essere crocifisso ad una guerra di lunga durata, soprattutto ora che ha aperto altri fronti: Gaza, Libano, Cisgiordania, Siria e gli Huthi. Ad oggi nessuno di questi fronti può dirsi chiuso. Ciascuno succhia risorse -non solo militari - ad uno Stato di 9,5 milioni di abitanti, che ha sempre avuto come dogma combattere guerre violente ma brevissime perché non ha capacità di sostenerne di lunghe. Teheran lo sa bene».Trump non aveva alcuna voglia di prendere parte al conflitto. Alla fine, però, ha dovuto farlo e attaccare i siti nucleari di Fordow, Natanz ed Esfahan. «È stato eletto con la promessa non solo di terminare le guerre in corso ma di non iniziarne di nuove, soprattutto in quel calderone di guerre infinite che è il Medio Oriente. Trump ha voluto far sudare Netanyahu al punto tale di accettare anche solo un bicchier d’acqua pur di non morire di sete sulla via per Teheran. Ecco il rapido e chirurgico intervento sui tre siti. Bicchiere bevuto e lui torna a casa. Spero, però, non abbia scoperchiato il vaso dell’ennesima tragedia mediorientale. Un portato di attentati e ritorsioni antiamericane in tutto il mondo. Trump dichiara il trionfo, ma è troppo presto per sapere quali saranno le reali conseguenze in America e nel mondo. La base Maga non ne è entusiasta».I Paesi arabi non si stanno affatto schierando con Teheran. Anzi, se possono danno una mano ad Israele…. «L’Iran è innanzitutto un Paese non arabo. Una lingua diversa, un alfabeto diverso, un credo religioso diverso. Ma soprattutto, non ha mai nascosto le sue intenzioni di porsi come potenza regionale di riferimento dell’intera area. Questo da Ankara fino a Riad passando per Il Cairo, Doha e Amman non piace a nessuno».Russia e Cina possono avere un ruolo di mediazione? «Possibile ma poco probabile. Soprattutto dopo gli ultimi sviluppi. La Russia per evidenti motivi di conflitto d’interesse. Difficile porsi come mediatore di pace quando conduci una guerra. Poi tra Mosca e Teheran, nonostante gli accordi siglati solo nel gennaio scorso, non c’è mai stato vero amore. Guardando a quanto ha fatto Pechino nella gestione delle ultime crisi non c’è da aspettarsi granché. Anzi, magari Pechino spera in un pesante coinvolgimento americano con relativo, pesante, impantanamento che renderebbe Washington più debole anche sullo scacchiere più importante: l’Indopacifico».Dallo stretto di Hormuz passa il 20% del traffico mondiale di petrolio. Teheran ne minaccia la chiusura. «Lo stretto è largo una trentina di chilometri. Fondali poco profondi. L’ideale per operazioni di minamento. C’è da vedere però se i gruppi da battaglia delle due portaerei Usa che sono da quelle parti lo consentirebbero. Anche il lancio continuo di missili contro-nave o di droni dall’interno del territorio iracheno sarebbero però un problema. Né India, né Pakistan, né soprattutto Cina lo vorrebbero affrontare. Magari in cambio sarebbero disposti a dare una mano al regime degli ayatollah? Non saprei»
Nicolas Sarkozy e Carla Bruni (Getty Images)