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2021-04-02
Pandev e l’arte di farsi sottovalutare. Così ha fatto lo scalpo alla Germania
Goran Pandev (Sportinfoto/DeFodi Images via Getty Images)
Il Sunset Boulevard è lungo 35 chilometri e la leggenda vuole che laggiù in fondo a Los Angeles ci sia qualcuno che non riceve mai la posta. Goran Pandev il macedone lo sta attraversando tutto, a piedi, un metro alla volta godendosi il panorama da turista della vita che ha gabbato il destino. Con quella stempiatura già a 20 anni, con quella chierica stile travet del catasto sembra sul viale del tramonto da sempre. Eppure segna, esulta, vince a 37 anni come se il tempo fosse una variabile priva di senso.
Che fai, marchi stretto Pandev? Ma va. L'errore lo hanno commesso tutti, quel nonno con il passo corto da Mario Corso e la discrezione da maître d'hotel non può far paura ad atleti bionici con parametri algoritmici e tartarughe esibite su Instagram. L'hanno commesso anche i tedeschi, quello sbaglio. E lui mercoledì a Duisburg li ha puniti. Gol, e la piccola Macedonia del Nord vince contro l'armata di Joachim Löw (1-2, raddoppio del talento napoletano Elijf Elmas), uno schiaffo in faccia al Wünderteam, terza sconfitta in una partita di qualificazione mondiale in 85 anni di storia, il ct che rischia il siluramento e il minuscolo Stato balcanico - 2 milioni di abitanti - in corsa per un posto ai Mondiali del Qatar.
Sul pianeta calcio dominato da Kylian Mbappè ed Herling Haaland avverti nell'aria il blues di Pandev al quale nessuno dà mai una lira, con la conseguenza di lasciargli il bottino. «Sono un uomo fortunato», scherza mentre sverna al Genoa cricket and football club, reduce da un altro pianeta e da un football antico come i suoi tocchi di esterno. È sempre a un passo dal ritiro, poi succede qualcosa: salva i rossoblù dalla retrocessione («quasi quasi continuo un altro anno»), porta la Macedonia agli Europei con una rete storica alla Georgia («quasi quasi vado avanti per giocarli»). Adesso un nuovo traguardo e la sensazione dolce di chi esce da una pasticceria, sopraffatto dalla vaniglia.
Se avesse l'autostima di Zlatan Ibrahimovic chiederebbe a petto gonfio una statua alta tre metri nella piazza principale di Skopje. La meriterebbe, in fondo ha vinto una Champions league più di lui, anzi un triplete. È bello svegliarsi un mattino e scoprire di essere uno dei calciatori più titolati al mondo: «Sì, in fondo mi manca solo l'Europa League». Lo dice quasi per scusarsi, è l'unica concessione allo snobismo di questo numero 10 gentile, un piede sinistro da piccolo re silenzioso, arrivato in Italia nel 2001 (aveva 18 anni) da uno Stato anche più piccolo di lui dopo la deflagrazione della Jugoslavia.
La Macedonia del Nord (per distinguerla dalla terra di Alessandro Magno che sta in Grecia) oggi ha un simbolo sportivo e Goran sente la responsabilità sotto la pelle. In campo è un eroe operaio, non è un atleta-immagine, non fa ombra a nessuno ed eccelle nelle piccole cose che non entrano nelle statistiche. Ha resistito sei anni a Pegli alle rivoluzioni stagionali di Enrico Preziosi. Quando era alla Lazio ha segnato una doppietta al Real Madrid. All'Inter ha affascinato Josè Mourinho («Un giocatore universale») perché era in grado di sostituire Wesley Snijder e Samuel Eto'o senza farli troppo rimpiangere. Il gol più importante? «Negli ottavi di Champions a Monaco contro il Bayern in quel 3-2 che fu il canto del cigno dell'Inter mondiale», disse prima dei due che hanno mandato il suo Paese in paradiso. Un destino racchiuso in una consonante. Il macedone più celebrato prima di Pandev era stato Darko Pancev, che sfiorò un pallone d'oro ma da cobra si trasformò in ramarro una volta sbarcato a Milano, sponda nerazzurra. Questione di dettagli e di carattere: quello era orgoglioso, tronfio, individualista proprio come questo è umile, duttile, capace di esaltare se stesso dentro i meccanismi di squadra. È illuminante sentirlo nelle interviste perché non parla mai di sé ma sempre dei compagni e del loro indiscutibile valore. È la merlettaia del quadro di Jan Vermeer, china su un lavoro da completare bene. Non ha tempo di celebrarsi, domenica si gioca di nuovo.
Da ragazzo voleva diventare come Dejan Savicevic, il genio individualista dell'ultima Jugoslavia. Da adulto ha interiorizzato il mito di Ronaldo il fenomeno, perché «ho avuto il privilegio di giocare con lui in allenamento e lo racconterò ai miei nipoti». In allenamento. In Italia ha vestito una collezione di maglie: Spezia, Ancona, Lazio, Inter, Napoli, Genoa, eterno contratto a termine con la valigia in mano. E un destino da comprimario: arrivava con l'appellativo di «Pandev chi?» e dopo qualche anno veniva lasciato andare a fatica, con rimpianto. Mai un simbolo, sempre un esempio.
Dove si è fermato ha vinto e si è fatto rispettare. A Napoli, dove talvolta l'emotività fa premio sulla razionalità, dopo anni nessuno tocchi il macedone. Oggi arriva al San Paolo da avversario ma i tifosi lo applaudono ancora per quella doppietta alla Juventus nel 2011 e quell'appellativo di «pandemonio» che si regala a pochi. La curva dell'Inter ricorda ancora il gol su punizione a sigillare un derby che i nerazzurri stavano giocando in nove. Quando lo chiami, Pandev risponde e non c'è anagrafe che tenga.
Ruppe lo schema dell'understatement solo a Roma. Il presidente laziale Claudio Lotito lo mise fuori squadra per ripicca; lui non fece una piega, si limitò ad appoggiare il dossier sulla scrivania dell'avvocato. Nessuna protesta, solo una frase: «Mi ha trattato male, voglio andare via». Ecco affiorare l'orgoglio balcanico, la granitica linea di demarcazione fra diritti e doveri. Prese le sue cose e andò altrove a giocare, a segnare e a insegnare, lui nato vecchio con la chierica e quel passo stanco che illude i difensori, convinti di avere di fronte un attaccante qualunque.
Trentacinque chilometri è lungo il Sunset Boulevard fino a Pacific Palisades dove balugina l'oceano, dove Thomas Mann trovò la pace lontano dal nazismo e scrisse il Doctor Faustus. C'è un piccolo grande calciatore che lo percorre tutto e quando la partita è a bassa intensità riesce ancora a fare la differenza. È la storia di Goran, che senza pretendere sinfonie a 37 anni ha schiantato la Germania e forse ha fatto un patto col diavolo. Ma non ce lo rivelerà mai.
Festino illegale per le star della Juve
Lungo il sentiero percorso dalla Juventus verso la serenità sportiva, quest'anno continua a mettersi di mezzo qualche ostacolo. L'ultimo in ordine di tempo è arrivato mercoledì sera verso le 23.30. Il centrocampista statunitense Weston McKennie, 22 anni, prima stagione in bianconero, ha organizzato una festicciola nella sua villa in collina vicino a Torino. Diversi gli invitati, qualche compagno di squadra e le rispettive mogli e fidanzate. Musica e cicaleccio hanno messo in allarme i vicini di casa, qualcuno ha pensato bene di avvisare i carabinieri. La pattuglia del nucleo radiomobile intervenuta si è trovata davanti allo scenario mondano. Oltre a McKennie, c'era Arthur, giocatore brasiliano di 24 anni, pure lui recente acquisto, assieme alla stella argentina Paulo Dybala. In tutto, i militari hanno identificato una decina di persone, multandole per violazione delle disposizioni anticovid. Pare che la dirigenza della squadra intenda aggiungere una sanzione ulteriore ai calciatori. Tutti e tre stanno cercando di raggiungere la forma migliore, dopo essere stati attanagliati da problemi fisici. McKennie è alle prese con grane muscolari, Arthur sta gestendo la calcificazione che l'ha costretto a saltare sei partite tra campionato, Coppa Italia e Champions League. Dybala (che ieri ha chiesto scusa via social), reduce da un infortunio al ginocchio, sarà a disposizione sabato nel derby della Mole contro i cugini del Torino. Un banco di prova arduo per la compagine allenata da Andrea Pirlo, nonostante la classifica zoppicante dei granata. La Juventus dovrà barcamenarsi anche con le defezioni dei difensori Leonardo Bonucci e Merih Demiral, entrambi positivi al tampone del coronavirus. Per quanto riguarda l'azzurro, il comunicato ufficiale recita: «Leonardo Bonucci, di ritorno dal ritiro della nazionale italiana, è stato sottoposto a test molecolare diagnostico per Covid-19, risultando positivo. Il calciatore è già stato posto in isolamento domiciliare». Assieme a lui, sono risultati positivi altri quattro membri dello staff di Roberto Mancini dopo le ultime verifiche eseguite a Sofia, in Bulgaria. Faccenda analoga per il turco Demiral. Il tampone ne avrebbe certificato l'infezione il 26 marzo, durante il ritiro con la sua nazionale. Dopo essere rientrato in Italia con volo sanitario autorizzato, sta svolgendo il suo periodo di isolamento fiduciario al J-Hotel di Torino, poco distante dall'Allianz Stadium. Se il presente non è roseo, la società sta preparando il futuro.
Molte le voci di mercato, persino quelle che ipotizzerebbero un divorzio da Cristiano Ronaldo o da Paulo Dybala a fine stagione. La tentazione più concreta si chiamerebbe Sergio Agüero, detto «El Kun». Attaccante argentino trentaduenne dalla vocazione offensiva devastante, svincolato dal Manchester City, sarà un pezzo pregiato del prossimo mercato, corteggiato pure da Psg e Barcellona. Pretenderebbe un ingaggio non inferiore ai 10 milioni di euro netti all'anno, ma il decreto Crescita favorirebbe i bianconeri, che potrebbero offrirgli un triennale spendendo 45 milioni lordi, anziché 60, beneficiando di sgravi fiscali e incentivi governativi. C'è chi storcerebbe il naso. Pur prolifico sotto porta e in grado di far reparto da solo, Agüero non è di primo pelo, e il suo arrivo non basterebbe a garantire la conquista di quel traguardo - la Champions League - che ormai sta alla Juventus come il Santo Graal stava a Sir Perceval il gallese secondo i racconti del medievale Chrétien de Troyes.
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Riduci
La punta del Genoa, 37 anni, ha guidato la Macedonia del Nord a una storica vittoria contro i tedeschi. Schivo e silenzioso, è sempre pronto quando serve: che sia per il triplete dell'Inter o per salvare il Grifone.Arthur e Paulo Dybala pizzicati dai carabinieri in un party nella villa di Weston McKennie, multa per tutti. Altra tegola in vista del derby: Leonardo Bonucci è rientrato dalla nazionale col Covid. Lo speciale contiene due articoli. Il Sunset Boulevard è lungo 35 chilometri e la leggenda vuole che laggiù in fondo a Los Angeles ci sia qualcuno che non riceve mai la posta. Goran Pandev il macedone lo sta attraversando tutto, a piedi, un metro alla volta godendosi il panorama da turista della vita che ha gabbato il destino. Con quella stempiatura già a 20 anni, con quella chierica stile travet del catasto sembra sul viale del tramonto da sempre. Eppure segna, esulta, vince a 37 anni come se il tempo fosse una variabile priva di senso. Che fai, marchi stretto Pandev? Ma va. L'errore lo hanno commesso tutti, quel nonno con il passo corto da Mario Corso e la discrezione da maître d'hotel non può far paura ad atleti bionici con parametri algoritmici e tartarughe esibite su Instagram. L'hanno commesso anche i tedeschi, quello sbaglio. E lui mercoledì a Duisburg li ha puniti. Gol, e la piccola Macedonia del Nord vince contro l'armata di Joachim Löw (1-2, raddoppio del talento napoletano Elijf Elmas), uno schiaffo in faccia al Wünderteam, terza sconfitta in una partita di qualificazione mondiale in 85 anni di storia, il ct che rischia il siluramento e il minuscolo Stato balcanico - 2 milioni di abitanti - in corsa per un posto ai Mondiali del Qatar.Sul pianeta calcio dominato da Kylian Mbappè ed Herling Haaland avverti nell'aria il blues di Pandev al quale nessuno dà mai una lira, con la conseguenza di lasciargli il bottino. «Sono un uomo fortunato», scherza mentre sverna al Genoa cricket and football club, reduce da un altro pianeta e da un football antico come i suoi tocchi di esterno. È sempre a un passo dal ritiro, poi succede qualcosa: salva i rossoblù dalla retrocessione («quasi quasi continuo un altro anno»), porta la Macedonia agli Europei con una rete storica alla Georgia («quasi quasi vado avanti per giocarli»). Adesso un nuovo traguardo e la sensazione dolce di chi esce da una pasticceria, sopraffatto dalla vaniglia. Se avesse l'autostima di Zlatan Ibrahimovic chiederebbe a petto gonfio una statua alta tre metri nella piazza principale di Skopje. La meriterebbe, in fondo ha vinto una Champions league più di lui, anzi un triplete. È bello svegliarsi un mattino e scoprire di essere uno dei calciatori più titolati al mondo: «Sì, in fondo mi manca solo l'Europa League». Lo dice quasi per scusarsi, è l'unica concessione allo snobismo di questo numero 10 gentile, un piede sinistro da piccolo re silenzioso, arrivato in Italia nel 2001 (aveva 18 anni) da uno Stato anche più piccolo di lui dopo la deflagrazione della Jugoslavia. La Macedonia del Nord (per distinguerla dalla terra di Alessandro Magno che sta in Grecia) oggi ha un simbolo sportivo e Goran sente la responsabilità sotto la pelle. In campo è un eroe operaio, non è un atleta-immagine, non fa ombra a nessuno ed eccelle nelle piccole cose che non entrano nelle statistiche. Ha resistito sei anni a Pegli alle rivoluzioni stagionali di Enrico Preziosi. Quando era alla Lazio ha segnato una doppietta al Real Madrid. All'Inter ha affascinato Josè Mourinho («Un giocatore universale») perché era in grado di sostituire Wesley Snijder e Samuel Eto'o senza farli troppo rimpiangere. Il gol più importante? «Negli ottavi di Champions a Monaco contro il Bayern in quel 3-2 che fu il canto del cigno dell'Inter mondiale», disse prima dei due che hanno mandato il suo Paese in paradiso. Un destino racchiuso in una consonante. Il macedone più celebrato prima di Pandev era stato Darko Pancev, che sfiorò un pallone d'oro ma da cobra si trasformò in ramarro una volta sbarcato a Milano, sponda nerazzurra. Questione di dettagli e di carattere: quello era orgoglioso, tronfio, individualista proprio come questo è umile, duttile, capace di esaltare se stesso dentro i meccanismi di squadra. È illuminante sentirlo nelle interviste perché non parla mai di sé ma sempre dei compagni e del loro indiscutibile valore. È la merlettaia del quadro di Jan Vermeer, china su un lavoro da completare bene. Non ha tempo di celebrarsi, domenica si gioca di nuovo. Da ragazzo voleva diventare come Dejan Savicevic, il genio individualista dell'ultima Jugoslavia. Da adulto ha interiorizzato il mito di Ronaldo il fenomeno, perché «ho avuto il privilegio di giocare con lui in allenamento e lo racconterò ai miei nipoti». In allenamento. In Italia ha vestito una collezione di maglie: Spezia, Ancona, Lazio, Inter, Napoli, Genoa, eterno contratto a termine con la valigia in mano. E un destino da comprimario: arrivava con l'appellativo di «Pandev chi?» e dopo qualche anno veniva lasciato andare a fatica, con rimpianto. Mai un simbolo, sempre un esempio. Dove si è fermato ha vinto e si è fatto rispettare. A Napoli, dove talvolta l'emotività fa premio sulla razionalità, dopo anni nessuno tocchi il macedone. Oggi arriva al San Paolo da avversario ma i tifosi lo applaudono ancora per quella doppietta alla Juventus nel 2011 e quell'appellativo di «pandemonio» che si regala a pochi. La curva dell'Inter ricorda ancora il gol su punizione a sigillare un derby che i nerazzurri stavano giocando in nove. Quando lo chiami, Pandev risponde e non c'è anagrafe che tenga. Ruppe lo schema dell'understatement solo a Roma. Il presidente laziale Claudio Lotito lo mise fuori squadra per ripicca; lui non fece una piega, si limitò ad appoggiare il dossier sulla scrivania dell'avvocato. Nessuna protesta, solo una frase: «Mi ha trattato male, voglio andare via». Ecco affiorare l'orgoglio balcanico, la granitica linea di demarcazione fra diritti e doveri. Prese le sue cose e andò altrove a giocare, a segnare e a insegnare, lui nato vecchio con la chierica e quel passo stanco che illude i difensori, convinti di avere di fronte un attaccante qualunque. Trentacinque chilometri è lungo il Sunset Boulevard fino a Pacific Palisades dove balugina l'oceano, dove Thomas Mann trovò la pace lontano dal nazismo e scrisse il Doctor Faustus. C'è un piccolo grande calciatore che lo percorre tutto e quando la partita è a bassa intensità riesce ancora a fare la differenza. È la storia di Goran, che senza pretendere sinfonie a 37 anni ha schiantato la Germania e forse ha fatto un patto col diavolo. 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Musica e cicaleccio hanno messo in allarme i vicini di casa, qualcuno ha pensato bene di avvisare i carabinieri. La pattuglia del nucleo radiomobile intervenuta si è trovata davanti allo scenario mondano. Oltre a McKennie, c'era Arthur, giocatore brasiliano di 24 anni, pure lui recente acquisto, assieme alla stella argentina Paulo Dybala. In tutto, i militari hanno identificato una decina di persone, multandole per violazione delle disposizioni anticovid. Pare che la dirigenza della squadra intenda aggiungere una sanzione ulteriore ai calciatori. Tutti e tre stanno cercando di raggiungere la forma migliore, dopo essere stati attanagliati da problemi fisici. McKennie è alle prese con grane muscolari, Arthur sta gestendo la calcificazione che l'ha costretto a saltare sei partite tra campionato, Coppa Italia e Champions League. Dybala (che ieri ha chiesto scusa via social), reduce da un infortunio al ginocchio, sarà a disposizione sabato nel derby della Mole contro i cugini del Torino. Un banco di prova arduo per la compagine allenata da Andrea Pirlo, nonostante la classifica zoppicante dei granata. La Juventus dovrà barcamenarsi anche con le defezioni dei difensori Leonardo Bonucci e Merih Demiral, entrambi positivi al tampone del coronavirus. Per quanto riguarda l'azzurro, il comunicato ufficiale recita: «Leonardo Bonucci, di ritorno dal ritiro della nazionale italiana, è stato sottoposto a test molecolare diagnostico per Covid-19, risultando positivo. Il calciatore è già stato posto in isolamento domiciliare». Assieme a lui, sono risultati positivi altri quattro membri dello staff di Roberto Mancini dopo le ultime verifiche eseguite a Sofia, in Bulgaria. Faccenda analoga per il turco Demiral. Il tampone ne avrebbe certificato l'infezione il 26 marzo, durante il ritiro con la sua nazionale. Dopo essere rientrato in Italia con volo sanitario autorizzato, sta svolgendo il suo periodo di isolamento fiduciario al J-Hotel di Torino, poco distante dall'Allianz Stadium. Se il presente non è roseo, la società sta preparando il futuro. Molte le voci di mercato, persino quelle che ipotizzerebbero un divorzio da Cristiano Ronaldo o da Paulo Dybala a fine stagione. La tentazione più concreta si chiamerebbe Sergio Agüero, detto «El Kun». Attaccante argentino trentaduenne dalla vocazione offensiva devastante, svincolato dal Manchester City, sarà un pezzo pregiato del prossimo mercato, corteggiato pure da Psg e Barcellona. Pretenderebbe un ingaggio non inferiore ai 10 milioni di euro netti all'anno, ma il decreto Crescita favorirebbe i bianconeri, che potrebbero offrirgli un triennale spendendo 45 milioni lordi, anziché 60, beneficiando di sgravi fiscali e incentivi governativi. C'è chi storcerebbe il naso. Pur prolifico sotto porta e in grado di far reparto da solo, Agüero non è di primo pelo, e il suo arrivo non basterebbe a garantire la conquista di quel traguardo - la Champions League - che ormai sta alla Juventus come il Santo Graal stava a Sir Perceval il gallese secondo i racconti del medievale Chrétien de Troyes.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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