
Nasce nel Medioevo come voto per una grazia di Sant’Antonio o (più probabilmente) come festa di ringraziamento offerta dai signori locali a braccianti e famiglie. Il maiale non manca mai. Oggi è stata riscoperta dopo anni d’oblio ed è vetrina dei sapori della regione.Il Bel Paese può vantare un’antologia di eventi gastronomici che il mondo ci invidia. Ce ne sono alcuni che non hanno bisogno di presentazione, tale il richiamo, anche a livello internazionale, che parla da solo, come la Fiera del tartufo ad Alba, con tanto di asta pubblica che vede piombare offerte dai cinque continenti come nessun’altra. E che dire di Oh Bej! Oh Bej! all’ombra della milanese Madunina quale vetrina golosa per il Natale a venire? Eppure c’è molto altro, che quando lo incroci nei percorsi di gola golosa ti lascia sorpreso, con la bocca aperta ma pronta a chiudersi in forma seriale per gustare tutto il mondo che la rappresenta.Quale miglior esempio della panarda abruzzese? Una tradizione che affonda le sue radici tra tardo Medioevo e nel Rinascimento, tramandata soprattutto per via orale. Poche le tracce scritte, quelle certe sono di metà Ottocento, per opera di Giuseppe Tantucci, storico di Villalonga, piccolo borgo della Marsica, Appennini abruzzesi, che la descriveva come tradizione applicata prevalentemente a sontuosi pranzi di nozze.Andando a scavare tra storia e leggenda si incontrano due radici, quella religiosa e quella laico-aristocratica. Un punto in comune: la notte della vigilia di Sant’Antonio abate, protettore degli animali, in primis di stazza suina, ovvero il 16 gennaio. Nella prima variante si narrava di una giovane mamma che, uscita con la piccola in braccio per far provvista d’acqua, presa dall’impegno di non sprecarne una goccia, perde di vista la sua piccola. E se la vede passar davanti tra le fauci di una lupa. Si appellò a Sant’Antonio il quale persuase, con il segreto della santità, la belva a cibarsi d’altro. La donna gli promise imperitura riconoscenza prendendosi l’impegno, ogni anno, di celebrare la sua devozione con un piatto offerto alla povera comunità in cui viveva e con lei i discendenti a futura memoria. Legumi, fave cotte, le preghiere a fare contorno.Poi vi è la versione più nobile, quella per cui i signorotti locali, per consolidare lo spirito di comunità, offrivano ai braccianti, fittavoli, agricoltori e alle loro famiglie, tutto il bendiddio che le ricche dispense di fine raccolto potevano permettere, con la componente suina azionista importante. E quale miglior sinergia con la festa di Sant’Antonio Abate, patrono dei norcini? Un rito laico con il necessario richiamo religioso che iniziava nel tardo pomeriggio per prolungarsi sino al canto del gallo. Una gastromarathon che poteva arrivare anche alle cinquanta portate, con sequenza dedicata e pause per ricarburare la cilindrata gastrica a suon di canti e danze popolari.La cabina di regia era del Panardiere, ovvero il nobile locale, che si affidava al Maestro di panarda, che gestiva la sala fuochi anche se, per il pubblico seduto a rischio di fuorigiri calorico, la scena era dominata dal Guardiano di panarda, un soggetto che girava con tanto di fucile a controllare che tutti eseguissero il loro dovere di spazzolatori di cotiche e legumi pena il richiamo senza appello, «magne o te spare», il che aveva un contenuto certamente goliardico ma era meglio rigar dritto e così sia, pena non essere invitati l’anno seguente.Nel tempo la panarda si è evoluta, dopo un declino nella prima metà del secolo breve. Risorta a nuova vita grazie soprattutto a Mimmo D’Alessio, accademico della cucina di Chieti, e al dream team dell’Istituto alberghiero di Villa Santa Maria, capitanato da Antonio Stanziani. Dopo un primo evento nel 1994, la rinascita con il botto in occasione della Panarda del Giubileo, svoltasi a Roccaraso il 12 gennaio 2000. Tale il successo che, pochi mesi dopo, al Salone del gusto di Torino ci fu l’inevitabile replica gestita stavolta da Slow food, in cabina di regia sempre il mestolo ispirato di Stanziani che la delegazione accademica guidata da D’Alessio volle premiare con il prestigioso titolo di Gran maestro di panarda. Da allora le panarde hanno ripreso vita, con le rispettive tradizioni, in vari luoghi d’Abruzzo, alternandosi anche lungo il calendario, tanto che ve ne sono pure di estive, tra agosto e settembre, a Sulmona, Lanciano come nella piccola Rocca di Botte. Questo ha fatto sì che la panarda si sia evoluta, nel solco della tradizione, a vetrina di prodotti e tradizioni locali. Con le inevitabili curiosità a seguire e la scoperta di prodotti e ricette che escono dalle dispense della memoria locale per diventare patrimonio comune a valorizzare una terra, come l’Abruzzo, che può vantare eccellenze dalla costa adriatica sin su alle impervie valli appenniniche. Da queste terre hanno preso il volo talenti culinari ambasciatori della cucina italiana nel mondo. In quest’epoca di bulimia catodica meritano il riconoscimento della staffa: Luigi Turco, cuoco della White House, che fece ingolosire un certo Dwight Eisenhower con i suoi spaghetti alla chitarra. Villa Santa Maria fu tra i pochi borghi risparmiati dalle rappresaglie dei bombardieri del Führer durante il secondo conflitto mondiale. Gran parte del merito va ai suoi cuochi che, in quel periodo, dilettavano a tavola il comando generale con sede all’Excelsior di Roma. Dopo l’ennesima panardata golosa, i generali con la croce uncinata chiesero loro come potevano ringraziarli di tanto bengodi. La risposta? «Non bombardate le nostre case, dove vivono le nostre famiglie».In pieno boom economico Gianni Agnelli si baloccava a tavola nella sua Villar Perosa grazie al mestolo ispirato di Adelchi Colecchia. Un giorno questi, corteggiato da un magnate dello Zio Sam, prese il volo per New York, allettato da un’offerta cui non si poteva dire di no. Dopo poche settimane l’Avvocato si presentò nei pressi di Wall Street con il ben noto sorriso disarmante rinforzato da un assegno in bianco per invitarlo a tornare.Con queste premesse un viaggio nella cucina abruzzese, declinato a percorsi panardeschi, diventa conseguente. Si scopre che, prima dell’evento pubblico, in molte case si celebrava la prima panardina, frutto della mattanza suina. Un vassoio da gustare al volo, frutto della lavorazione delle interiora che, come è noto, hanno breve vita edibile, cioè vanno pappate al volo, abbinate all’«osso della padrona», ovvero lo sterno dell’innocente suino. Il tutto fatto a pezzettoni e fritto nel grasso del donatore arricchito di pepe e peperoncino q.b., abbinato alla scoppa, ovvero delle fette di pane fritto nella stessa padella dopo essere stato conciato con uovo sbattuto e pecorino. Basterebbe già a saziarti di suo, ma era solo l’inizio. La porchetta, anche in Abruzzo, ha solide tradizioni che la rendono eccellenza locale. Tanto che lo stesso Gabriele d’Annunzio, pescarese genere natu, riceveva spesso, nella sua residenza del Vittoriale con vista sul Garda, prodotti dalla terra natia. All’ennesima goduria inviata dal fedelissimo norcino Rocco Nobilio scrisse: «Mi avete mandato delle porchette dorate che sembra le abbia cotte San Cetteo» (il patrono di Pescara, ndr).Porchetta protagonista della vita quotidiana del tempo. I migliori norcini, una volta che l’avevano lavorata ed esposta nelle loro vetrine, usavano i social del tempo, ovvero i banditori che, con tanto di tromba, si aggiravano tra i vicoli per avvertire il popolo che la porchetta era pronta e la pì bona la potevi trovare solo dal signor X. Tradizione voleva che le migliori avevano le loro radici suine in quel di Carsoli, dove le grufolanti creature venivano accompagnate durante il giorno a cibarsi di ghiande nel bosco e poi la sera, come premio, nel tino fumante della stalla trovavano gli avanzi del cibo generosamente donati dalla famiglia. Carni, quindi, palestrate dalla transumanza quotidiana, valorizzate dagli aromi che solo la natura poteva loro offrire.
Marta Cartabia (Imagoeconomica)
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