2019-07-31
Low cost e bellissime: le repubbliche del Baltico sono la meta perfetta per un fine settimana in Europa
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Estonia, Lettonia e Lituania sono oggi parte dell'Ue, ma il loro rapporto con la Russia resta incancellabile. Un viaggio nella storia di questi Paesi.Visita Vilnius, una delle città più affascinanti d'Europa. La sua piazza centrale è patrimonio Unesco.Alla scoperta di Riga, la più grande delle Repubbliche Baltiche. Dall'incredibile architettura, al museo dell'Occupazione senza dimenticare i numerosi locali dall'aria vivace e cosmopolita.Tallinn, la capitale estone è la meta perfetta per chi vuole andare alla scoperta delle bellezze del Nord per un weekend diverso dal solito.Lo speciale comprende cinque articoli e consigli di viaggio.Inutile negare o sottovalutare l'incancellabile peso della storia: a Vilnius, a Riga, a Tallin, tutto parla ancora del cinquantennio vissuto sotto l'incubo dell'occupazione sovietica, iniziata nel 1940, interrotta nel 1941 (ma solo perché era momentaneamente cambiato il tallone dell'oppressore: da quello comunista a quello nazista), e poi ripresa dal 1944-45 di fatto fino al 1990-91, poco dopo la caduta del Muro e dell'Urss. Oggi Estonia, Lettonia e Lituania sono parte dell'Ue e soprattutto – orgogliosamente – della Nato. Perché cercano un saldo ancoraggio occidentale sul piano culturale e geopolitico, e a maggior ragione perché – comprensibilmente – cercano anche un ombrello per la loro difesa, per proteggersi anche psicologicamente, non solo militarmente. Consideriamo le dimensioni delle forze in campo. I tre paesi baltici hanno una popolazione complessiva di appena 6 milioni di persone: le loro forze armate dispongono solo di 15.000 soldati effettivamente operativi e mobilitabili. E devono convivere, al confine, con la minaccia (un po' reale, un po' ingigantita dai loro atavici timori) dell'orso russo. Logico che cerchino una protezione più robusta.La minaccia è probabilmente ingigantita, come si diceva, dal peso della storia, e dal retaggio dell'invasione sovietica. Ma ha anche una sua concretezza attuale, che non può purtroppo essere negata. La forza di mobilitazione di Mosca, nello scenario peggiore, è immensa sia dal punto di vista quantitativo (in termini di forze schierabili) sia in termini di velocità dell'eventuale occupazione: gli analisti stimano che la Russia potrebbe invadere le capitali baltiche in un tempo compreso tra due e quattro giorni. Un lasso temporale che renderebbe difficile un intervento tempestivo ed efficace delle stesse forze occidentali. E allora, lungo quel confine, assistiamo all'ultimo spezzone di guerra fredda. Da un lato, costanti esercitazioni Nato, con l'effetto di irritare Mosca; dall'altra, esercitazioni e controprovocazioni russe. Difficile che qualcuno - dall'uno e dall'altro lato - superi la soglia e passi all'azione: prevale la guerra di nervi, una sorta di reciproca deterrenza. Ma il timore di molti è che, magari per un fattore di tensione riconducibile a tutt'altro quadrante geopolitico, Mosca possa decidere di voler mostrare al mondo che l'articolo 5 del trattato Nato è solo un'enunciazione. Si tratta della norma che vincola l'intera organizzazione all'obbligo di difesa dei singoli paesi membri: se a Mosca, in uno scenario che ovviamente nessuno può augurarsi, riuscisse di dimostrare che la Nato è una tigre di carta, che non difende i suoi membri più piccoli e marginali, si tratterebbe di un fatto politico di rilevanza globale. E questo timore – nelle tre capitali baltiche – c'è, è palpabile. Nasce da qui la richiesta alla Nato di un impegno perfino sproporzionato nell'area. Né altri paesi (penso ai membri Nato dell'Europa del Sud, dell'area mediterranea, Italia in testa) hanno finora saputo proporre alla Nato un riequilibrio, un controbilanciamento, un'agenda diversa, una propensione a un impegno maggiore anche nel versante euromediterraneo, che avrebbe forse un effetto distensivo anche nel rapporto con Mosca. Ma questa è un'altra storia. Tornando ai paesi baltici, gli eventi del 2007 hanno rinfocolato il panico antirusso. Di che si tratta? Dodici anni fa, in quello che fu probabilmente il più famoso cyberattacco della storia, un'improvvisa aggressione mise in ginocchio i siti di istituzioni, banche e media estoni, l'intera infrastruttura online del paese. Fu una catastrofe. La Russia negò sempre ogni paternità, diretta e indiretta, dell'operazione. Ma nei paesi baltici, tuttora, nessuno crede a quella versione. Ed è sufficiente – in un convegno, in un evento culturale, anche non politicamente connotato – vedere a contatto personalità russe e personalità estoni, o lituane o lettoni, per cogliere una tensione autentica, nuovi timori mescolati ad antiche ostilità, e una perdurante cappa di sospetto. Eppure i legami sono forti, come tra fratelli con un antico e motivato rancore. Tutto – e qui sta sia il fascino sia il pericolo – ha infatti una doppia lettura possibile. In Estonia, ad esempio, la minoranza russa pesa fino al 25% per cento della popolazione: ma forse le cifre reali, considerando l'origine di tanti cittadini, sono perfino più consistenti. Eppure, dal sistema educativo ai canali di informazione, è molto forte il doppio binario: corsi e programmi per gli uni, corsi e programmi per gli altri. Come spiegare questa scelta? Per un verso, si tratta certamente di una forma di rispetto e garanzia per la minoranza. Ma per altro verso è anche un modo di mantenere una separazione, una linea di demarcazione esile ma tenacissima. La storia non si dimentica e non si archivia, meno che mai nel tempo di una o due generazioni. Daniele Capezzone