2023-10-28
La crisi riscrive i rapporti fra i Paesi arabi
L'emiro del Qatar Tamim bin Hamad al-Thani e il presidente iraniano Ebrahim Raisi (Ansa)
Ispirando l’attacco del 7 ottobre, Iran e Qatar hanno bloccato il grande progetto normalizzatore perseguito dai sauditi. Anche Stati moderati come la Giordania costretti a fare la voce grossa contro Israele. Intanto Erdogan gioca su tutti i tavoli.L’operazione militare delle Brigate Izz Al Din Al Qassam (il braccio armato di Hamas) dello scorso 7 ottobre, che ha successivamente scatenato la guerra tra Israele e Hamas, passerà alla storia. Le ragioni sono molteplici: c’è lo smacco dell’intelligence e dell’esercito israeliano beffati dai terroristi, il Medio Oriente che verrà ridisegnato (Israele compresa), certamente cambieranno i rapporti di forza nel Golfo Persico; così come non saranno mai più gli stessi i rapporti tra l’Occidente che si è schierato con Israele con coloro che hanno scelto di sostenere Hamas più o meno manifestamente. Ma qual è l’approccio dei Paesi arabi e/o islamici al conflitto in corso? Fino al 7 ottobre scorso la questione palestinese era stata messa in un cassetto e a tenerla viva c’erano solo l’Iran e qualche dichiarazione occasionale, niente più. Gli accordi di Abramo poi avevano spianato la strada alla normalizzazione tra Israele e il mondo arabo e l’adesione nel corso del 2023 dell’Arabia Saudita avrebbe definitivamente chiuso la partita e da qui la guerra attuale scatenata da Teheran per impedire che tutto questo potesse avvenire.Il consiglio di cooperazione del Golfo ha normalizzato le relazioni diplomatiche con Israele nel 2020 e il Bahrein e gli Emirati Arabi Uniti hanno apertamente condannato Hamas per aver lanciato l’attacco dello scorso 7 ottobre. Se Israele procederà con un’invasione di terra di Gaza (ma i segnali ci dicono che se ciò avverrà sarà solo alla fine dei raid mirati), i funzionari del Bahrein e degli Emirati Arabi Uniti saranno probabilmente meno critici rispetto ad altri Stati arabi che si sono fermamente opposti alla normalizzazione con Israele o almeno hanno deciso di non aderire agli accordi di Abramo, vedi Algeria, Kuwait, Iraq, Qatar, e Tunisia.In questo gruppo c’erano anche i sauditi ma da allora molte cose sono cambiate. Oggi i politici nel mondo arabo sono preoccupati non solo per la possibile guerra regionale, ma soprattutto per la possibilità che le manifestazioni per la Palestina possano trasformarsi in proteste contro le élite al potere e qui vanno citati i casi del Marocco, della Giordania e dell’Egitto. Una variabile importante è la legittimità del regime. Quanto più la leadership di un dato Stato arabo ha paura di una crisi di legittimità interna, tanto più la risposta ad un’invasione israeliana di Gaza sarà probabilmente più forte. Risposte dure potrebbero placare l’opinione pubblica sulla causa palestinese, che è una questione estremamente importante per i loro cittadini. A questo proposito in un’intervista rilasciata a The New Arab, Nader Hashemi, direttore del Centro Prince Alwaleed per la comprensione cristiano-musulmana presso la scuola della Georgetown University, afferma che «la difficile situazione dei palestinesi pesa molto sulla coscienza della maggior parte degli arabi e dei musulmani. La questione della Palestina è un indicatore chiave dell’identità per arabi e musulmani. Le élite al potere hanno una visione molto diversa». La decisione del re giordano Abdullah II di annullare l’incontro multilaterale ad Amman con Joe Biden a causa del fermo sostegno della sua amministrazione alla causa di Israele mostra quanto queste autorità siano preoccupate per la loro situazione interna. Sulla attuale reazione delle masse arabe al conflitto in corso il dottor Andreas Krieg, professore associato presso il Dipartimento di Studi sulla Difesa del King’s College di Londra, suggerisce sempre a TNW di guardare oltre: «Le persone sono semplicemente molto indignate e offese dalle situazioni socio-economiche e socio-politiche generali post -primavera araba». Quindi c’è il timore una «primavera araba 2.0». Evidente che sia così.A proposito di Stati coinvolti del conflitto c’è la Turchia di Recep Tayyip Erdogan che ad ogni crisi prova a sfruttare il palcoscenico per proporsi come mediatore: è avvenuto con successo nella vicenda del grano ucraino. Stavolta, dopo aver accusato Israele di crimini di guerra e dopo aver persino telefonato a Papa Francesco, vorrebbe mediare sulla sorte dei 229 ostaggi.Dicevamo dei rapporti nel Golfo Persico: Iran e Qatar, sponsor del terrorismo globale ed in particolare di quello palestinese, che si erano riconciliati a fatica con l’Arabia Saudita, stanno creando un danno enorme a Riad che per il suo progetto «Vision 2030» guarda all’Occidente (Europa compresa) agli Usa e anche a Israele come partner per gli investimenti. Il principe ereditario Mohammed Bin Salman almeno in apparenza sostiene la causa palestinese, tuttavia il caos attuale rischia di far naufragare il suo progetto costato fino ad oggi centinaia di miliardi dollari e per questo si sta spendendo affinché il conflitto non si allarghi. È evidente però che con l’Iran che ha lanciato la sua jihad globale minando la pace in Medio Oriente e che ora vuole intestarsi il ruolo di potenza regionale lo scontro è prossimo e a farne le spese saranno anche gli emiri di Doha (che stanno provando a far rilasciare gli ostaggi), i quali rischiano l’isolamento totale come nel 2017 e la Siria di Bashar Al Assad, bombardata ieri dagli Usa in riposta agli attacchi di gruppi di militanti sostenuti dall’Iran contro truppe americane nel Paese e in Iraq. Altro Paese che rischia di pagare un prezzo altissimo è il Libano, uno Stato fallito, da dove gli Hezbollah lanciano missili contro Israele.