2023-01-25
L’overdose di notizie è letale. Ed è un alibi
Nel suo ultimo libro, «Infocrazia», il filosofo Byung-chul Han analizza i rapporti di forza tra informazione massiva e verità. Per il Covid, così come per il conflitto in Ucraina, le valanghe di dati servono a generare confusione e a diluire le responsabilità.«Siamo molto ben informati, ma in qualche modo non riusciamo a orientarci. L’informatizzazione della realtà porta alla sua atomizzazione: sfere separate di ciò che si pensa sia vero». Il cuore del nuovo libro di Byung-chul Han - filosofo che negli ultimi anni ha ottenuto un successo grande quanto la mole di critiche ricevute - sta tutto in questa dichiarazione rilasciata alla rivista Noema. Al centro del volume, al solito agile e tagliente - c’è un ragionamento sulle tecnologie che alimentano l’era dell’informazione. Viviamo, dice Han, all’interno di una Infocrazia (questo il titolo del libro in uscita per Einaudi) che favorisce la disgregazione e l’atomizzazione della società. Più l’informazione aumenta, sostiene il filosofo, più la verità si sgretola.«La verità, a differenza dell’informazione, ha una forza centripeta che tiene unita la società. L’informazione, invece, è centrifuga, con effetti molto distruttivi sulla coesione sociale. Se vogliamo comprendere in che tipo di società viviamo, dobbiamo comprendere la natura delle informazioni», dice Han. «Bit di informazioni non forniscono né significato né orientamento. Non si congelano in una narrazione. Sono puramente additivi. Da un certo punto in poi non informano più, deformano. Possono persino oscurare il mondo. Questo li pone in opposizione alla verità. La verità illumina il mondo, mentre l’informazione vive dell’attrazione della sorpresa, trascinandoci in una frenesia permanente di momenti fugaci».Come sempre, il pensatore di origine asiatica basato in Germania porta avanti il suo discorso in maniera quasi apodittica, tuttavia - almeno su questa prima parte dell’esposizione - è molto difficile dargli torto. La pandemia ci ha dimostrato quanto il diluvio informativo serva per lo più a confondere le acque, e quanto sia stato funzionale alla polarizzazione delle posizioni e alla divisione in fazioni. Lo stesso vale ancora adesso per tutto ciò che riguarda il racconto della guerra in Ucraina. È passato ormai quasi un anno dall’esplosione mediatica del conflitto (che in realtà è iniziato nel 2014) e non è passato giorno senza che i media dedicassero ampi servizi agli avvenimenti nell’Est. Ancora adesso, però, il grande pubblico non è in grado di capire quale sia la situazione reale nel Donbass e nei dintorni di Kiev. Il diluvio composto da frammenti di informazione ha confuso le acque, e reso più difficile la comprensione della realtà. Anzi, si può dire che l’abbia completamente alienata.Oggi, scrive Han, «la circolazione delle informazioni è completamente sganciata dalla realtà; avviene in uno spazio iperreale. Si perde la credenza nella fatticità. Viviamo quindi in un universo defattizzato».Ciò significa che non esiste più un «mondo condiviso», non esiste più una base comune su cui fondare il nostro vivere insieme. Ciascuno di noi, in buona sostanza, è come prigioniero del racconto a cui sceglie di aderire, e fra i vari gruppi non esiste confronto, ma soltanto inimicizia. Quanto accaduto negli ultimi tre anni lo dimostra senza ombra di dubbio. «La verità riduce la contingenza», dice Han alla rivista Noema. «Non possiamo costruire una comunità stabile o una democrazia su una massa di contingenze. La democrazia richiede valori e ideali vincolanti e convinzioni condivise. Oggi la democrazia lascia il posto all’infocrazia. […] Un’altra ragione della crisi della comunità, che è una crisi della democrazia, è la digitalizzazione. La comunicazione digitale reindirizza i flussi di comunicazione. Le informazioni vengono diffuse senza formare una sfera pubblica. Vengono prodotte in spazi privati e distribuite a spazi privati. Il web non crea pubblico. Ciò ha conseguenze altamente deleterie per il processo democratico. I social media intensificano questo tipo di comunicazione senza comunità. Non puoi creare una sfera pubblica con influencer e follower. Le comunità digitali hanno la forma di merci; in definitiva, sono merci». Anche su questo passaggio è difficile dissentire.Pare di capire dunque che, a parere di Han, il grande problema del nostro tempo stia nel fatto che non abbiamo più una grande narrazione su cui fondare un comunità, ma soltanto frammenti di informazione che contribuiscono a creare una guerra permanente tra fazioni diverse.«Oggi non abbiamo più narrazioni che forniscano significato e orientamento per le nostre vite. Le narrazioni si sgretolano e si decompongono in informazioni. Con una certa esagerazione, potremmo dire che non c’è altro che informazione senza orizzonte ermeneutico di interpretazione, senza metodo di spiegazione. Pezzi di informazione non si fondono in conoscenza o verità, che sono forme di narrazione», dice il filosofo. «Il vuoto narrativo in una società dell’informazione fa sentire le persone scontente, soprattutto in tempi di crisi, come la pandemia. Le persone inventano narrazioni per spiegare uno tsunami di cifre e dati disorientanti».Questo è probabilmente il punto più discutibile del ragionamento di Byung-chul Han. Egli formula una diagnosi molto interessante, ma non sembra essere in grado di elaborare una cura. Vero: manca una grande narrazione che ci dia un terreno comune in cui abitare. Il punto è che la grande narrazione (un tempo era quella cristiana) non è stata sostituita soltanto da lampi di informazione, bensì da narrazioni più piccole.Nel solco della filosofa Chantal Delsol potremmo dire che alla parola di verità (il logos) è stato sostituito un racconto meno che verosimile (il mito). «Il famoso disincanto del mondo è a propria volta disincantato. La fine della cristianità è seguita non dall’ateismo e dal nichilismo, ma da nuovi miti e ideali. Né la civiltà né la morale finiscono con la cristianità. Si orientano diversamente e seguono altre strade», sostiene la Delsol. Una volta abbandonato il cristianesimo e il suo potete racconto del mondo, l’Occidente non ha del tutto rinunciato alle narrazioni, ma si è orientato su una pluralità di esse. È una sorta di ritorno al politeismo che viene presentato trionfalmente come «un’emancipazione dalla verità esclusiva, una libertà completa data al regno delle narrazioni». In buona sostanza, abbiamo rinunciato alla verità per credere ai miti. Nelle antiche religioni, «i miti offrivano un senso per la vita, ma restavano delle narrazioni - e la verità rimaneva nascosta, se mai ce n’era una».Ecco il punto: il diluvio informativo di cui parla Byung-chul Han si presta alla strumentalizzazione. Poiché non abbiamo più una verità comune su cui fondare la civiltà (che infatti non è più cristiana), non ci resta che la credenza nelle piccole narrazioni. Dobbiamo però chiederci: chi alimenta queste narrazioni? Chi sostiene i nuovi miti? Gli uomini, e in particolare gli uomini potenti: chi è più forte può imporre narrazioni più efficaci. Non è un caso che, dalle nostre parti, dominino alcune parole d’ordine da cui, anche adesso, è praticamente impossibile prescindere (sulla guerra, sul Covid, sulle tematiche ambientali…).Resta valida l’intuizione principale di Han: nell’infocrazia, la verità scompare, le comunità si fratturano e si distruggono. Si crea così un mondo di individui isolati e disorientati, pronti ad affidarsi ai racconti elaborati dalla propaganda. Come quelli che ci vengono propinati da vari anni a questa parte.