2021-11-11
Fincantieri ferma. Allarme dei sindacati: finiranno all’estero i cannoni Oto Melara
Cannone Oto Melara da 76mm su una nave della Marina olandese (Getty Images)
Leonardo pronta a cedere quote della società spezzina. Nessuna mossa dal gruppo di Bono. La soluzione ottimale? Un consorzio.A distanza di appena 200 chilometri esistono due realtà industriali, impegnate nel settore della Difesa, che rischiano di essere cedute all'estero. È la situazione che - stando alla denuncia dei sindacati - riguarda la Oto Melara di La Spezia e Piaggio Aerospace di Villanova d'Albenga. La prima è una storica azienda spezzina che produce cannoni navali o sistemi di difesa e cannoni/torrette per piattaforme terrestri, integrata nel 2016 nella divisione sistemi di difesa di Leonardo. La seconda è un'altra storica realtà della nostra produzione aeronautica civile e militare (nel 2013 costruì il primo drone sviluppato in Europa noto come P.1hh), ormai in amministrazione straordinaria dal 2018 (è tecnicamente fallita) e in attesa da 2 anni di ricevere un'offerta per una possibile acquisizione. Ieri i sindacati Fim, Fiom e Uilm hanno organizzato un'assemblea per protestare contro la possibile cessione da parte di Leonardo di Oto Melara, la business unit sistemi di difesa del gruppo di piazza Montegrappa. All'inizio si pensava che sarebbe stata Fincantieri uno dei possibili acquirenti, ma negli ultimi giorni hanno iniziato a circolare possibilità di offerta dalla Germania. Anche se non è ancora chiaro se si tratti di un consorzio, il player tedesco Hesold potrebbe proporre uno scambio tra sistemi di difesa e elettronica, oppure un privato. Fincantieri, guidata da Giuseppe Bono, non ha ancora avanzato una proposta e non è dato sapere se l'interessamento possa riguardare l'intera azienda o solo la parte navale. Non è un dettaglio da poco. Certo in ballo c'è una sorta di credito politico che Fincantieri ha incassato uscendo spontaneamente dalla partita del cloud nazionale. Dall'altro lato c'è un tema geopolitico, che potrebbe avere conseguenze nei rapporti diplomatici del nostro Paese. «In un mondo dove i governi si battono per salvaguardare le proprie aziende, evitando che multinazionali straniere possano fare incetta di capacità industriale strategica, in Italia, invece, assistiamo a intenti errati e poco edificanti grazie a manager intenzionati a vendere un'azienda, ad esempio, che rappresenta storia e futuro dei sistemi di difesa del nostro Paese», hanno scritto le segreterie di Cgil, Cisl e Uil della Spezia che «condividono le preoccupazioni dei lavoratori di Leonardo Sistemi di Difesa (Oto Melara) consapevoli che, oggi e sempre, dovranno contrastare la cessione di Oto Melara con ogni strumento a disposizione». La situazione è ovviamente molto più complessa di come viene descritta dai sindacati. Primo, molto dipenderà dall'offerta di Fincantieri; secondo, le settimane da qui a fine anno sono decisive per inserirsi nella partita della Difesa europea. Per cui un conto è immaginare una cessione e un altro l'avvio di un consorzio. A quanto risulta alla Verità non dovrebbero esserci contatti con aziende francesi, il che tenderebbe a riequilibrare le tensioni correlate al Trattato del Quirinale. È importante per l'Italia rafforzare le relazioni con la Germania e se la condivisione di un gioiello come Oto Melara può spingere in questa direzione significa che Roma si sta muovendo bene in Europa. Non dimentichiamo che l'ultima parola spetta comunque al governo e al Golden power. L'altra opzione, la semplice cessione unita magari all'incertezza, può invece causare l'effetto opposto.Non vorremmo che si riproponga la situazione di Piaggio, finita nel 2014 nelle mani del fondo emiratino Mubadala, sottoposta al regime di Golden power, ma ormai da più di 3 anni senza strategia. La produzione è praticamente al palo e sopravvive grazie ai continui finanziamenti da parte dello Stato. E pensare che il 3 giugno dello scorso anno l'amministratore straordinario, Vincenzo Nicastro, aveva annunciato l'interesse di almeno 19 aziende che avrebbero voluto acquistare Piaggio nella sua interezza. Peccato che dopo un anno e mezzo le trattative siano ferme al palo. E che l'unico player interessato sembrerebbe essere una cordata formata dai liguri di Phase motion e il fondo svedese Summa equity, anche se i nodi da sciogliere sul tappeto sono ancora troppi. Ora la data di scadenza è stata spostata a fine novembre. Ma la cordata italo svedese deve ancora capire quali saranno i fondi che il governo destinerà all'azienda: si era parlato di 160 milioni per il drone ma in realtà sono diventati 171 per l'acquisto di altri 6 P180 per le forze armate. Così come da chiarire sono i rapporti con la LaerH, che produce le fusoliere per Piaggio, in attesa di un chiarimento sul prezzo totale di vendita. Realtà diverse tra loro, ma entrambe in cerca di autore.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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