2022-09-17
L’intreccio Usa-Cina sull’origine del virus
«Lancet» denuncia la reticenza di Pechino e Washington a fornire informazioni sugli esperimenti svolti sulle mutazioni del ceppo. Ombre sulle ricerche finanziate dal dipartimento della Sanità americano, in collaborazione con l’Istituto di virologia di Wuhan.Il virus maledetto che ha provocato la pandemia da Covid-19 potrebbe essere frutto di un incidente nei laboratori cinesi, ma con lo zampino degli americani. Torna a sollevare grossi interrogativi, e prospettare enormi responsabilità, il documento elaborato dalla commissione istituita dalla rivista scientifica Lancet. Pubblicato il 14 settembre, frutto di due anni di lavoro, il rapporto passa in rassegna le tappe dell’emergenza sanitaria, le risposte che sono state date con gravi ritardi, «l’inadeguato coordinamento tra i governi», l’errata comunicazione e, tra le numerose conclusioni, afferma che l’Oms, i singoli Stati, la comunità scientifica «dovrebbero intensificare la ricerca delle origini del Sars-CoV-2, indagando sia una possibile origine zoonotica, sia una possibile origine associata alla ricerca». Viene, dunque, riaffermata la necessità di capire in modo «indipendente, trasparente e rigoroso», come nessuna indagine «condotta fino alla pubblicazione del documento» è stata in grado di fare, se il virus si sia trasmesso all’uomo in seguito a spillover, il salto di specie per il quale un patogeno degli animali diventa in grado di infettare la specie umana e di riprodursi al suo interno, avvenuto in modo naturale e non correlato alla ricerca o forse per manipolazioni, effettuate in laboratori di Wuhan di cui gli States sarebbero stati a conoscenza. Database, messaggi di posta elettronica, quaderni di ricerca, campioni «delle istituzioni coinvolte in queste ricerche non sono stati messi a disposizione di ricercatori indipendenti». Sia in Cina, sia negli Usa. Il National institutes of health (Nih), agenzia del dipartimento della Sanità degli Stati Uniti «ha fatto resistenza nel rivelare i dettagli della ricerca sui virus correlati alla Sars-CoV che stava sostenendo, fornendo informazioni ampiamente oscurate solo dopo le cause legali», promosse in base alla legge sulla libertà di informazione Foia, o Freedom of information act, scrivono gli autori del rapporto. Torna a riproporsi l’ipotesi di finanziamenti americani per esperimenti pericolosi in Cina. Nel dicembre 2021, il dossier italiano Sulle origini del virus Sars-CoV-2 realizzato da Senato, Camera e ministero degli Esteri, spiegava che «secondo quanto riportato dal Wall Street Journal e dal New York Post, nell’aprile 2020 il Nih annullava un finanziamento di 3,7 milioni di dollari per un progetto di ricerca sui coronavirus in cui l’istituto di Wuhan era un partner principale, assieme a due laboratori negli Stati Uniti, uno in Texas e uno in Carolina del Nord». Anthony Fauci, capo dell’Istituto nazionale di allergie e malattie infettive (Niaid), nel maggio del 2021 spiegò a una sottocommissione per gli stanziamenti della Camera del Congresso degli Stati Uniti che il denaro era stato incanalato al laboratorio cinese attraverso l’organizzazione no profit EcoHealth Alliance (Eha), per finanziare «una modesta collaborazione con scienziati cinesi molto rispettabili che erano esperti mondiali di coronavirus». Negò che si trattasse di ricerche definite «guadagno di funzione», condotte per modificare geneticamente un virus rendendolo anche più contagioso, così da studiarne la pericolosità. Lawrence Tabak, alto funzionario del Nih, scrisse invece alla Commissione per le riforme e la supervisione della Camera una lettera, in cui si parlava di finanziamenti con soldi pubblici per esperimenti di guadagno di funzione. Peter Daszak, zoologo, presidente di EcoHealth Alliance, aveva dal 2014 una sovvenzione del Niaid (che fa parte del Nih) e collaborava con Shi Zhengli, la virologa del Wuhan institute of virology (Wiv) in Cina, nota come Bat woman per i suoi studi sui pipistrelli. Proprio nel 2014, l’allora presidente Barack Obama bloccò negli States le manipolazioni genetiche dei coronavirus e i finanziamenti ricevuti passarono ai partners di ricerca stranieri. Al Wiv, EcoHealth Alliance diede 600.000 dollari.Quando l’agenzia del dipartimento della Sanità degli Stati Uniti ritirò i fondi, Daszak chiese di poter continuare nel suo lavoro. «La sovvenzione non viene utilizzata per finanziare il lavoro su Sars-CoV-2», dichiarò. «Lavoriamo sui coronavirus di pipistrello che sono là fuori in natura e cerchiamo di prevedere quale sarà il prossimo» virus che potrà circolare, dichiarò a Nature nell’agosto 2020. Eppure, la lettera inviata il 7 marzo 2020 a Lancet da 27 ricercatori che condannavano come complottismo ogni ipotesi di un Covid-19 non con origine naturale, aveva proprio come ispiratore Peter Daszak, firmatario del documento assieme ad altri quattro dipendenti di Eha. Il 18 aprile 2020, lo zoologo scrisse a Fauci: «Voglio solo inviarle un mio personale ringraziamento e a nome del nostro staff e dei nostri collaboratori per aver dichiarato pubblicamente che ci sono prove scientifiche a favore di un’origine naturale del Covid-19, con un passaggio dal pipistrello all’uomo, e non con una fuga dall’Istituto di Wuhan». Come ma gli stava così a cuore escludere ogni altra ipotesi? Lo stesso Daszak, che aveva fatto parte della missione Oms a Wuhan prima di venir rimosso per un evidente conflitto di interessi, nel dicembre 2020 negava che pipistrelli fossero mai stati inviati al laboratorio. «Raccogliamo solo campioni», scrisse in un tweet. Invece, SkyNews Australia mostrò un filmato dell’Accademia cinese della scienza, con addetti che nutrivano i pipistrelli. Fauci per lungo tempo ha sostenuto l’origine naturale del Covid-19. Forse, rilancia l’ipotesi Lancet, perché non si può escludere che c’entrassero le ricerche di Daszak in Cina, finanziate dal Nih.
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)