Dopo aver dormito durante la pandemia, la stampa si accorge delle liste d’attesa. E dei 19,6 milioni di italiani che si sono rivolti ai privati per la disperazione. Eppure sono gli stessi giornali che tifavano austerità o che lodavano la sciagurata riforma Bindi.
Dopo aver dormito durante la pandemia, la stampa si accorge delle liste d’attesa. E dei 19,6 milioni di italiani che si sono rivolti ai privati per la disperazione. Eppure sono gli stessi giornali che tifavano austerità o che lodavano la sciagurata riforma Bindi.Cose singolari accadono. Da qualche mese - più o meno da quando si è insediato il governo di centrodestra - la stampa cosiddetta mainstream ha scoperto che la sanità italiana è in grandissima difficoltà. Mancano soldi, ma soprattutto mancano professionisti e mezzi. Accedere alle prestazioni del sistema sanitario nazionale è particolarmente complicato, le liste d’attesa sono lunghissime e soltanto chi può permettersi di pagare belle cifre se la cava un po’ meglio. Ieri, sul Corriere della Sera, Milena Gabanelli ha spiegato che nel 2019 (dati Censis) 19,6 milioni di italiani «si sono visti negare almeno una prestazione dei livelli essenziali di assistenza in un anno e, presa visione della lunghezza della lista d’attesa, hanno proceduto a farla di tasca propria». Ora, dopo anni di emergenza sanitaria, la situazione è persino peggiorata. Stando ai numeri forniti alla giornalista da Agenas, «le prime visite sono ancora sotto di 3,1 milioni, le visite di controllo meno 5,3 milioni, le mammografie meno 127.000, gli elettrocardiogrammi meno un milione». Chiaro: gli esami arretrati sono un’infinita, e il sistema nazionale non riesce a stare al passo. Secondo la Gabanelli, le ragioni del disastro sono due: la prima e più grave è che «le strutture pubbliche già strangolate prima della pandemia per carenza cronica di medici devono fare i conti con le difficoltà organizzative». La seconda riguarda i privati accreditati presso il sistema pubblico: «A loro più che offrire prestazioni con il Ssn conviene offrire prestazioni a pagamento». Un pessimo quadro della situazione lo traccia pure l’Espresso, che sbatte in copertina l’emergenza nazionale: «Esami, visite, interventi. Le liste d’attesa sanitarie si allungano a dismisura. Chi ce la fa si rivolge ai privati», scrive il settimanale parlando di un «sistema al collasso». Stando all’inchiesta del settimanale progressista, il 51% degli italiani ha difficoltà nel contattare il cup o prenotare una visita, per una mammografia si possono aspettare anche 720 giorni e altre piacevolezze di questo tipo. Pure Repubblica, domenica, ha dato ampio spazio alla debacle sanitaria, descrivendo «la grande crisi del sistema pubblico che sta spianando la strada al privato, tra ospedali che chiedono, reparti presi d’assalto e liste d’attesa infinite». Oltre al danno, la beffa: «Chi non è assicurato deve pagare di tasca propria o rinunciare alle cure». Questi articoli e inchieste arrivano dopo alcune settimane in cui altri media - in particolare La Stampa - hanno battuto sulla grancassa, stracciandosi le vesti per il disastro pubblico a danno della salute degli italiani. Curiosamente, tuttavia, negli ultimi tre anni e mezzo nessuno dei grandi giornali di casa nostra è apparso molto preoccupato delle condizioni del nostro sistema sanitario. Pure oggi, non si trova mezzo editorialista disposto a dire la verità, e cioè che le selvagge restrizioni e le discriminazioni feroci imposte in tempo di pandemia sono dipese proprio dalle pessime condizioni del sistema pubblico. Il punto era sempre lo stesso: tenere le persone fuori dagli ospedali, per non intasarli. In pratica, prima la politica si è baloccata con tagli e austerità, poi ne ha fatto pagare le conseguenze ai cittadini, usando i non vaccinati per distrarre dai problemi reali. C’è poi un ulteriore elemento da considerare. Le principali lamentele sullo sfascio sanitario, attualmente, arrivano da sinistra. E solitamente sono rivolte all’attuale esecutivo, che sarebbe colpevole di non avere stanziato tanti denari per la salute. Ecco: la critica sarebbe anche accettabile se non arrivasse da chi ha sempre tifato per l’austerità. E, soprattutto, se non giungesse dalla parte politica che per prima ha creato le condizioni del disastro, con la ormai famigerata riforma Bindi. «Negli anni Novanta, il centrosinistra prese una decisione storica, ossia quella di privatizzare la sanità pubblica», dice alla Verità Ivan Cavicchi, grande studioso (di sinistra) del nostro sistema sanitario. «Furono fatte due controriforme: una nel 1992 e l’altra nel 1999. Con la prima, si sostituirono le Usl con le Asl, mentre con la seconda fu introdotta l’assistenza integrativa, che poi è arrivata a essere un’assistenza sostitutiva. Io l’ho definita, in una recente risposta a Rosy Bindi, una grande marchetta, perché in effetti si è aperta la porta al mercato, ma non a un mercato libero. Bensì a un mercato protetto, incentivato paradossalmente con i soldi dello Stato. È facile vedere dietro questa operazione una sorta di scambio politico. Comunque sia ancora oggi spendiamo 5 miliardi solo per incentivare le assicurazioni private, per togliere loro oneri fiscali. In pratica il sistema pubblico dà incentivi fiscali al suo competitor, cioè il privato». Secondo Cavicchi, «oggi i soldi mancano, ma il problema più grave sta nei tetti alle assunzioni, che sono stati ribaditi. Bloccare ancora le assunzioni in sanità significa tagliare le gambe alla sanità: il sistema regge se ci sono gli operatori, altrimenti crolla. Tuttavia, per eliminare il tetto alle assunzioni ci vogliono soldi, e tanti. Per me l’unica vera emergenza è questa, e dura da 23 anni». «Le difficoltà finanziarie del governo sono oggettive», dice Cavicchi. «Tra guerra, inflazione, energia è ovvio che rimanga poca roba per la sanità. Probabilmente possiamo pescare dei soldi nella spesa storica e ripensare la distribuzione di quest’ultima per coprire le grandi falle del sistema. Tuttavia bisognava senz’altro pensarci anni fa: i tetti alle assunzioni del personale sono stati introdotti ancora prima dell’arrivo di Mario Monti. Giorgia Meloni ha ribadito i tetti ma li ha leggermente corretti, nel senso che oggi si può fare qualche assunzione in più rispetto al passato per coprire i buchi immediati. Il problema però resta: se noi vogliamo dare ossigeno al sistema dobbiamo assumere».E rieccoci al punto: la situazione è grave, e certo questo governo non ha preso misure risolutive. Resta che siamo nei guai da oltre due decenni, e la situazione è andata peggiorando. Però i grandi media si svegliano solo oggi, quando non ci sono più no vax a cui dare la colpa.
Intervista con Barbara Agosti, chef di Eggs, la regina delle uova che prepara in ogni modo con immensa creatività
Francesco Saverio Garofani (Imagoeconomica)
Il Quirinale aveva definito «ridicola» la rivelazione sul piano anti-Meloni del dirigente. Peccato che egli stesso abbia confessato che era vera, sminuendo: «Solo chiacchiere tra amici...». Lui è libero di tifare chi vuole: non a fianco del presidente della Repubblica.
Qualche scafato cronista, indispettito per aver preso quello che in gergo giornalistico chiamiamo «buco», ieri ha provato a metterci una pezza e a screditare lo scoop della Verità sul consigliere chiacchierone e maneggione di Sergio Mattarella. Purtroppo per lui, dietro le nostre rivelazioni non c’è nessun anonimo: se abbiamo rivelato che Francesco Saverio Garofani vagheggiava un «provvidenziale scossone» per far cadere Giorgia Meloni, e la costituzione di una grande lista civica che la possa battere alle prossime elezioni, è perché delle sue parole abbiamo certezza.
Annalisa Cuzzocrea (Ansa)
Sulle prime pagine di ieri teneva banco la tesi della bufala. Smentita dall’interessato. E c’è chi, come il «Giornale», si vanta di aver avuto l’informazione e averla cestinata.
Il premio Furbitzer per il giornalista più sagace del Paese va senza dubbio a Massimiliano Scafi del Giornale. Da vecchio cronista qual è, infatti, lui ci ha tenuto subito a far sapere che quella «storia», cioè la notizia delle esternazioni del consigliere del Quirinale Francesco Saverio Garofani, lui ce l’aveva. Eccome. Gli era arrivata in redazione il giorno prima, nientemeno, e con un testo firmato Mario Rossi, nota formula usata dai più sagaci 007 del mondo quando vogliono nascondersi. C’era tutto. Proprio tutto.
Elon Musk e Francesco Saverio Garofani (in foto piccola) Ansa
Da responsabile dei temi per la Difesa, l’ex parlamentare dem avrebbe avuto un peso determinante nel far sfumare l’accordo tra il governo e l’azienda di Elon Musk.
Inizio 2025. Elon Musk - i suoi rapporti con Trump erano ancora in fase idillio - veniva considerato una sorta di alieno che si aggirava minaccioso nel cielo della politica italiana. C’era in ballo un accordo da 1,5 miliardi per dotare il governo di servizi di telecomunicazione iper-sicuri. Contratto quinquennale che avrebbe assicurato attraverso SpaceX e quindi Starlink un sistema criptato di massimo livello per le reti telefoniche e internet dell’esecutivo, ma l’intesa riguardava anche le comunicazioni militari e i collegamenti satellitari per le emergenze.






