2019-01-28
«Ora è certo: mafia nigeriana dietro l’omicidio di Pamela»
Il 30 gennaio di un anno fa la morte. Tra poco (13 febbraio) il via al processo. Parla lo zio avvocato, Marco Valerio Verni: «Che alcuni dei soggetti coinvolti appartengano ai clan è provato dagli atti».Il 30 gennaio sarà il primo anniversario della morte di Pamela Mastropietro. La ragazza romana, appena 18 anni, all'epoca ospite della comunità Pars di Corridonia, fu violentata e uccisa in un appartamento di Macerata (in via Spalato), poi il suo corpo venne fatto a pezzi e chiuso in due trolley: sarà trovato il 31 gennaio lungo il ciglio di una strada a Casette Verdini, una frazione a Sud della città marchigiana. Innocent Oseghale, nigeriano di 30 anni già condannato per spaccio (reato che avrebbe dovuto causarne l'espulsione dall'Italia), sarà processato il 13 febbraio in Corte di assise. Oseghale, che è padre di due bambini avuti da una ragazza di Macerata, abitava nell'appartamento dell'orrore il cui affitto - si è scoperto poi - era stato pagato per almeno tre mesi da una parrocchia della città. In tribunale verranno fuori verità difficilmente accettabili, che di fatto trasformeranno il processo in un atto d'accusa contro l'accoglienza distorta dei migranti. L'avvocato di parte civile della mamma di Pamela, Alessandra Verni, e del padre Stefano Mastropietro, è lo stesso zio della vittima, Marco Valerio Verni. In questa intervista racconta come si prepari ad affrontare la battaglia legale. E della sua convinzione: su questo processo si allunga l'ombra criminale della mafia nigeriana. Per questo è diventato un processo scomodo. Forse troppo. Avvocato Verni, Pamela Mastropietro è stata vittima della mafia nigeriana?«Da determinati atti di indagine emerge che alcuni dei soggetti coinvolti a vario titolo in questa tragica vicenda appartengono alla mafia nigeriana, radicata anche nelle Marche. Questo è un dato certo. Andrà sicuramente verificato e approfondito, ma è incontestabile. Che la tragica fine di Pamela, invece, sia direttamente collegata agli scopi associazionistici della mafia nigeriana, almeno al momento lo escluderei».Ma dalle carte del processo la presenza di questa organizzazione criminale emerge inquietante: Oseghale è indicato come un componente della mafia, l'altro condannato per spaccio e indagato per l'omicidio, Lucky Awelima, ne parla... non c'è una sottovalutazione di questo aspetto?«Come detto, ci sono delle carte importantissime che vanno vagliate e credo che questo debba essere di competenza della Direzione distrettuale antimafia di Ancona. Determinate situazioni vanno vagliate anche alla luce dello scenario nazionale che, come ben abbiamo visto, è molto allarmante per non dire di peggio».È vero che Oseghale ha goduto di speciali protezioni a Macerata? Che gli hanno pagato l'affitto di casa, che in qualche modo lui era un vertice dell'organizzazione dello spaccio?«Se abbia goduto di particolari protezioni, questo non lo so. Che sia stata una parrocchia del posto a pagargli tre mesi di affitto, lo dichiara lui in un interrogatorio. Quanto, invece, al suo coinvolgimento nella mafia nigeriana, vi sono le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, ritenuto attendibile, che riferisce questo. Se fino a qualche settimana fa le mie potevano essere soltanto supposizioni elaborate su quel che leggevo dalla stampa, ora sono basate su documenti processuali specifici».Come si spiega che Pars, la comunità in cui Pamela viveva e da dove è scappata, non è minimamente entrata nelle indagini e nel processo?«Semplice: non me lo spiego. Credo che un'ispezione, all'indomani dei fatti, sarebbe stata non solo opportuna, ma doverosa. Se io e lei andassimo a prendere caffè e cornetto in un qualsiasi bar, ci sentissimo male per quel cornetto e denunciassimo la cosa, il giorno dopo andrebbero i Nas e chiuderebbero quell'esercizio per tre giorni. Da quella comunità si è allontanata Pamela, così come altre persone, stando alle notizie di stampa. Magari poi sono state rispettate tutte le procedure, per carità: ma per saperlo occorrono i controlli e non dichiarazioni di parte. Casi simili devono servire per riflettere e migliorare le cose. Queste strutture percepiscono ingenti finanziamenti pubblici e hanno a che fare con la vita delle persone. Credo sia doveroso farsi delle domande. Anche a salvaguardia delle stesse comunità che devono essere messe, ove fosse questo il problema, nelle migliori condizioni di lavorare».Inutile negarlo: il caso di Pamela, purtroppo, è stato anche un caso politico. Ora si ha l'impressione che si voglia ridimensionare il processo per evitare nuovo clamore. Sembra che ci sia fretta di concludere per mettere tutto a tacere. È un'impressione sbagliata? «Finito il processo racconterò tanti retroscena che, al momento, sarebbero inopportuni. Dico solo che la sensazione è spesso che noi siamo i parenti dei carnefici, e non quelli della vittima. Pamela è certamente un caso scomodo per molti. Ma si dimentica la sofferenza di una famiglia». Lei si è visto rigettare la richiesta di accesso all'appartamento dell'orrore per fare ulteriori indagini: quello in via Spalato a Macerata dove Pamela fu uccisa e il suo corpo scempiato. Perché? C'è il timore che si possa scoprire altro?«Avevo chiesto di poter accedere all'appartamento - ancora sotto sequestro - di Oseghale con i miei consulenti per fare un sopralluogo finalmente più mirato, avendo noi avuto la documentazione solo da poche settimane. Dopo diversi accessi fatti dalle controparti, non vedo cosa sarebbe cambiato se anche noi avessimo avuto l'opportunità di farlo. Anzi, sarebbe stato un momento di confronto in più pure per gli inquirenti con i quali, teoricamente, dovremmo stare dalla stessa parte. Peccato. Ma andiamo avanti».Da quello che emerge chiederà che vengano trasmessi gli atti dell'inchiesta sul caso Pamela alla Dda perché s'indaghi sulla mafia nigeriana?«Come dicevo prima, ci sono elementi che, in maniera chiara, riconducono alcuni soggetti coinvolti in questa vicenda alla mafia nigeriana. Ritengo che, in un modo o nell'altro, queste carte debbano arrivare a chi di competenza. Confido nella Procura, ma sono pronto ad agire personalmente. Una ragazzina è stata massacrata e voglio che venga fuori tutta la verità possibile».Pensa che ci sia una complessiva sottovalutazione della pericolosità della mafia nigeriana e che questa sottovalutazione sia da collegarsi all'impatto politico del fenomeno migratorio?«Non lo penso io. Lo dicono i fatti. Le mafie nostrane hanno delegato alcune attività a quelle straniere, con cui agiscono ormai in stretta collaborazione. Credo che sia un principio di logica quello di affermare che non abbia senso metterci in casa altra criminalità in aggiunta alla nostra, che ne viene, in qualche modo, rafforzata. L'immigrazione incontrollata e mal gestita ha portato anche a questo: inutile negarlo».Che verdetto si aspetta dal processo che sta per iniziare?«Mi aspetto una sentenza la più dura possibile e, per certi versi, coraggiosa e scevra da influenze». Pamela è morta da un anno, qual è lo stato d'animo dei suoi genitori?«I genitori cercano di sopravvivere al dolore, come tutto il resto della famiglia, aspettando il processo. Ribadisco: confidiamo nella giustizia e nel fatto che chi ha sbagliato - e uso un eufemismo - paghi duramente. Ma deve venire fuori tutto. Per Pamela e per l'Italia».
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