2019-01-19
Onfray riscopre la saggezza di Roma contro la fuffa degli intellò moderni
Da pagina Facebook di Michel Onfray
L'ultimo saggio del pensatore francese è tutto dedicato all'Urbe, vista come bussola per orientarsi nell'oggi. E smonta la vulgata: «Non è vero che i latini non sapevano fare filosofia, è solo che amavano le idee concrete».Diavolo di un Michel Onfray, non si fa mai trovare dove lo si aspetta. In piena rivolta dei gilet gialli, con Emmanuel Macron che annaspa nei suoi errori, il filosofo libertario, anarchico e proudhoniano, anziché lanciarsi in un instant book breve e ammiccante che avrebbe sbancato le librerie, se ne esce con un volume di 500 pagine sulle virtù etiche che ci provengono dall'antica Roma. L'ultimo saggio del pensatore transalpino, appena uscito per Flammarion, si intitola Sagesse. Dove la saggezza in questione è appunto quella trasmessaci dall'Urbe, un catechismo esistenziale non dogmatico, pragmatico, basato su esempi anziché su teorie, radicato nel mondo anziché negli iperurani. Il sottotitolo del saggio è «saper vivere ai piedi di un vulcano». Vulcano reale, nel senso del Vesuvio, ma anche simbolico, poiché la crisi che attanaglia la nostra civiltà non ci rende più tranquilli di quanto non lo fossero gli abitanti di Pompei.Alle pendici del Vesuvio visse e morì Plinio il Vecchio: «uomo totale», dice Onfray, ricordandone le esperienze da naturalista, filosofo, amministratore, condottiero. In altre parole: «Egli era un romano. Non tanto per ciò che ha detto, scritto o pensato, ma perché ha messo in pratica ciò che pensava e ha anche pagato un caro prezzo per questa volontà di congruenza: la morte». Corso in aiuto di una sua amica, Rectina, durante la devastante eruzione del 79, infatti, Plinio non fu più in grado di lasciare il porto della città e morì per le esalazioni del vulcano. Questa morte, dice Onfray, ci dice che di fronte alla catastrofe ci si può comportare in tre modi. «Il primo», scrive il filosofo, «è quello di chi fugge, urla, grida, si lamenta, si strappa i capelli, vuole morire per paura della morte ma non muore per un amore irragionevole della vita»; il secondo è quello di Plinio il Giovane, che durante l'eruzione legge Tito Livio e va incontro serenamente al suo destino (ma ne esce vivo, a differenza si suo zio); il terzo modo è quello di Plinio il Vecchio: «Guerriero e filosofo, marinaio e naturalista, scrittore e uomo d'azione, egli fa fronte alla catastrofe e la va a vedere da vicino […]. Che si tratti di un vulcano o di una civiltà che crolla, della muta di un bruco o del passaggio di un bolide nella volta stellata, c'è ancora e sempre di che imparare dal mondo».Il fatto che si tratti del compimento di una trilogia che aveva come secondo capitolo un libro intitolato Decadenza spiega bene quale sia il contesto in cui si situa questo appello a uno stoicismo etico romano. «La civiltà giudaico cristiana», scriveva l'autore nel saggio precedente, «ha regnato durante quasi due millenni. Una durata onorevole per una civiltà. Quella che ne prenderà il posto sarà a sua volta rimpiazzata, è solo una questione di tempo. La barca cola a picco: non ci resta che affondare con eleganza». E questa eleganza, questo giusto atteggiamento di fronte alla crisi (che certo il filosofo sembra vivere con un certo fatalismo), ce lo fornisce appunto la romanità. Onfray costruisce tutto il libro attorno a degli exempla e alla risposta che essi danno a degli interrogativi esistenziali che fungono da sottotitolo a ogni capitolo: Quintiliano («Che significa essere un discepolo?»), Muzio Scevola («Come essere fermo nel dolore?»), Catone il censore («Come invecchiare bene?»), Seneca («Quando bisogna lasciare la vita?»), Regolo («Che significa mantenere la parola?»), Lucrezio («Che cos'è una morale dell'onore?») e così via. Un atto d'amore verso Roma sorprendente in un normanno come Onfray, dato che i nordeuropei spesso preferiscono agganciarsi all'eredità dei greci, che tra le altre cose hanno avuto la gentilezza di non mandare legioni in Gallia… Onfray, tuttavia, fa eccezione. Egli, anzi, contrappone Atene, che «ama le idee e i concetti, la metafisica e l'idealismo» alla concretezza dell'Urbe: «Roma ama le cose e la realtà, il mondo e la storia, la geografia e l'architettura, l'agricoltura e la politica, le scienze naturali e la retorica, la poesia e il teatro, e anche il diritto […]. A Roma non si fa carriera con delle idee pure o con dei concetti, ma con il concreto». Atene, insomma, come simbolo del salotto, del parlatoio, della chiacchiera inconcludente e autoreferenziale. Un colpo secco a uno dei miti della filosofia. Contro un diffuso luogo comune, il pensatore francese spiega che «la filosofia romana non è affatto un cattivo calco della filosofia greca, sotto il pretesto che i romani non sarebbero stati capaci di onorare la disciplina, in quanto capaci di fabbricare solo senatori e legionari, costruttori e architetti, giuristi e aruspici». E invece, «contro la religione del concetto e la postura filosofica esibita, contro il culto delle idee pure e la passione scolastica, i romani preferivano una saggezza pratica e incarnata, una pragmatica dell'azione, una prassi esistenziale». Roma come scuola di realismo, quindi. Roma come anti fuffa. Un antidoto all'intellettualismo. In un mondo culturale che ama parlarsi addosso e che si perde nei propri labirinti dialettici, è raro sentir tessere l'elogio della concretezza. Ma Onfray è abituato a sorprendere. Astro nascente del pensiero progressista, ha spiazzato tutti con una serie di mosse a sorpresa, lodando Sottomissione di Michel Houellebecq, definendo l'ideologia gender «un nuovo puritanesimo», demolendo la psicanalisi e il mito di Sigmung Freud. Ostile al monoteismo, non si è limitato a lanciare strali contro il cristianesimo, cosa che oggi come oggi non costa nulla, ma è stato altrettanto duro anche con l'islam. Per aver dialogato con Alain de Benoist, si è persino dovuto subire un cazziatone da Manuel Valls, quando questi era premier in carica e senza che nessuno trovasse nulla di strano in un primo ministro che in Francia, e non in qualche satrapia orientale, dice a un filosofo quello che deve o non deve fare.Per non farsi mancare nulla, Onfray ha anche elogiato il movimento dei gilet gialli. Leggendo il loro programma di otto punti, ha commentato: «Avrei potuto scrivere io questo opuscolo, a cui non toglierei nulla! È il foglio di rotta della democrazia diretta. È sicuramente un progetto positivo, concreto, dinamico». Speculare a questo entusiasmo, è la sua avversione per Emmanuel Macron e per il principale dei suoi sponsor intellettuali, ovvero Bernard-Henri Lévy. Ce ne sarebbe abbastanza per meritarsi l'ostracismo. Il personaggio, tuttavia, per genialità, erudizione e anche un po' per narcisismo (oltre che per la «giusta» provenienza politica) va avanti da sé. E alla fine l'industria culturale ne deve prendere atto. Prova ne sia la monografia su di lui appena uscita per i prestigiosi Cahiers de l'Herne (a sessant'anni, è l'autore più giovane ad aver avuto questo onore). Vi troviamo il primo testo del filosofo, scritto all'età di 11 anni, o cose come una «Breve storia filosofica dei denti. Antimanuale a uso del mio dentista», oltre che gli omaggi di una cinquantina di intellettuali di ogni estrazione. Una vera e propria consacrazione. Henri de Monvallier, nell'introduzione, lo definisce «il filosofo francese più letto e più tradotto al mondo». Che questa palma spetti a uno che si arruola simbolicamente con i gilet gialli e detesta Emmanuel Macron, in effetti, è anch'esso un segno dei tempi.