2024-06-10
Omar Pedrini: «Dopo questo tour mi fermo ma è solo un arrivederci»
Il cantautore: «Sul palco perdo sempre un chilo e mezzo e scordo di essere cardiopatico. Il mio pezzo più trasgressivo? Una preghiera rock a Maria, darla al Papa fu un onore».Trentacinque anni di carriera, ché iniziò a Brescia a esibirsi dal vivo ed era solo al ginnasio. La sua Lombardia gli ha consegnato l’onorificenza della Rosa camuna per la musica qualche giorno fa. Omar Pedrini, classe ’67, è reduce da un concerto in Sardegna e un altro a Desio, in Brianza: sta portando in giro il suo spettacolo Dai Timoria ad oggi: goodbye rock’n’roll, e di questo «goodbay» parleremo. La prossima data sarà a Bergamo il 22 giugno. Oltre ai concerti, fa letture pubbliche del suo ultimo libro tra il romanzo e l’autobiografia, tra delusioni amorose e dipendenze. Si intitola Cane sciolto (Senza vento edizioni), e la copertina lo ritrae a petto nudo con la cicatrice lasciata dagli interventi in sala operatoria.Com’è che così spesso quando scrivono di lei dicono che ha un cuore grande?«Perché è vero e c’è un purtroppo e un per fortuna. Il purtroppo è che ho proprio il cuore ipertrofico. E però, per fortuna, lo dicono anche in senso metaforico, che è molto poetico». Quello mi interessa.«Lo dicono gli altri, pure se io mi sento così spesso volgare e violento. Dicono che sono gentile ed educato. I complimenti migliori, in questo oggigiorno in cui non sono più scontate cose che prima facevano parte dell’educazione fondamentale di ogni uomo, di ogni essere sociale. Sono diventate qualità rare».Ci tiene?«Sono fatto così. La falsa modestia è la scienza degli imbecilli, lo diceva persino Schopenhauer. Oggi il gentile è preso per un debole, l’educato per uno troppo antico, l’empatico è sfruttato e subissato da richieste». Mettiamo in fila anche qualche difetto.«Mia moglie (Veronica Scalia, sposata nel 2014, ndr) mi rimprovera soprattutto il non saper chiedere agli altri. Sarà che per me è ovvio che chi ho vicino ci sarà, e invece poi scopro che la gratitudine è pure quella merce rara. Vincono quelli che scassano le balle. Ma ho sempre imparato a cavarmela da solo».Chi l’ha delusa?«Quelli che si chiamano famiglia, ma poi mi sono costruito la mia. Le delusioni più grosse sono però arrivate da Brescia, infatti sono scappato. Anche recentemente. La via della saggezza è molto lunga per uno comune come me, un percorso di miglioramento in questo brevissimo viaggio che è la vita».Sempre sulla soglia, il pericolo è nel petto da circa 18 anni con la scoperta della malattia ed è stato, anche, in qualche dipendenza. Da qui il desiderio di spiritualità?«È congenito pure quello, mi sa. Era il 1993 e cantavo Viaggio senza vento con i Timoria dopo aver vissuto in un ashram hindu che mi aiutò a guarire i fantasmi e a moderare un carattere ahimé difficile. Mi insegnarono che non dobbiamo mai dimenticarci quel che siamo. I problemi restano, la consapevolezza aiuta». E nell’album uscito l’anno scorso - Sospeso - lei canta alla Madonna: «C’è il tuo sguardo che segue il sentiero, il sentiero verso casa mia (…) non vado via, non andar via».«Dolce Maria è per certi versi il pezzo più trasgressivo della mia carriera. Una preghiera rock. Bello - un onore - consegnarla nelle mani di papa Francesco due mesi fa».Le è possibile scegliere uno tra i tanti perché ha iniziato a fare musica? Il bisnonno liutaio, la mamma che cantava… innata pure questa scelta?«Le risponderei invece con una cosa che ho scoperto alla Royal Albert Hall di Londra, con la quale ho collaborato per il disco Come se non ci fosse un domani. La meraviglia di vedere il russo abbracciato all’ucraino; l’israeliano e il palestinese che accordano insieme gli strumenti. Un incrocio di culture e di pace, questa è la musica».Quella era un’orchestra, unica.«La musica era la base dell’educazione del “giovin signore”, e lo era perché offre un modo di vedere il mondo. Il musicista desidera un dialogo. È curioso dal diverso da lui. Perché raramente la musica la fai da solo, hai sempre bisogno di altri».Alle elementari oggi si studia ancora il flauto dolce.«Che invece di appassionare alla musica allontana, sì, ci siamo ridotti così. Educhiamo i nostri ragazzi allo shopping, non a una forma mentis che la musica potrebbe regalare. Per farle studiare le materie artistiche ho iscritto mia figlia (11enne, secondogenita di tre, gli altri hanno uno 29 e uno 3 anni, ndr) a una scuola privata, pur con qualche sacrificio. È triste, perché dovrebbe essere alla portata di tutti».Non si fidava della scuola statale?«È questione di insegnanti. Ce ne sono di bravissimi nelle scuole pubbliche, spesso però mortificati perché non hanno modo di insegnare come vorrebbero. Piuttosto che il flauto dolce, si insegni allora ai bambini a cucinare, pure quella è una cosa importante. O la musica si fa bene, o non si fa. Soprattutto nel Paese del bel canto, della lirica e delle tante culture musicali. Ma sono cose che dico da quando esordii con i Timoria a Sanremo e nessuno mi ha mai ascoltato, meglio lasciar perdere».Repetita iuvant, chissà. Si aspetterebbe altro dallo Stato?«Mi chiedo spesso perché il rock non sia considerato cultura. Perché i libri hanno l’Iva ridotta e noi musicisti no? Piero Ciampi non vale quanto Goethe? Per non parlare del cinema e degli aiuti che riceve. Pure questo però lo dissi a Veltroni agli inizi degli anni 2000 e mi diede ragione, poi non cambiò nulla. L’industria musicale è in difficoltà, anche se ogni tanto arriva qualche talento e trascina le correnti. Ci vuole Sinner perché si pensi a investire sul tennis, una Pellegrini per capire l’importanza delle piscine».Ce ne sono, di talenti?«Esistono, purtroppo le case discografiche non cercano quelli che durano nel tempo».Mentalità da talent?«Si rincorre il fenomeno che diventa subito star. Noi cantautori degli anni Novanta siamo ancora in giro, una bella nidiata e resistiamo. Sarà perché abbiamo qualcosa da dire? Per non parlare di quelli che ci hanno preceduto nei decenni precedenti, che cantiamo tutti ancora».I testi di oggi le piacciono?«Non faccio parte della schiera che dice che i giovani non capiscono niente e che i testi fanno schifo. Anche se questo un pochino è vero».Questione di senso?«Funziona ciò che è immediato, i testi sono più cronaca che lirica. La cosa sconvolgente - lo si scopre a Sanremo, dove c’è il buongusto di citare gli autori - è che li scrivono persino in sei o sette persone. Chissà come si fa a scrivere in così tanti. Di chi sarà l’ispirazione? Di chi lo stile? Prima c’erano Battisti e Mogol, e penso che in più di due ci si sta stretti, in un matrimoniale. Oggi contano più voce e aspetto. Pensare che sono gli autori, l’essenza di una canzone. Pure se il cantante sparisce, lei può restare. Però appunto: non è colpa dei giovani».Questo lo dicono in pochi. «A loro è proposta una fruizione immediata, che colpisce in pochi secondi. Si pensa che desiderino quello perché amano i social network. Io che li ho incontrati da docente - per 15 anni - all’Università Cattolica di Milano le dico invece che vogliono di più. Ogni tanto vedo qualche ragazzino ai miei concerti, che ha ascoltato i dischi in casa. E ho scoperto che vengono a teatro».Che è un’altra sua passione.«La musica è una moglie, il teatro un’amante. Un rifugio. Spesso scappo e ci torno. Stiamo per riprendere alcune tappe sui palchi con Alessio Boni: ci eravamo interrotti per colpa del Covid. Lo spettacolo si chiama 66/67. Io da piccolo avrei voluto fare l’attore, lui la rockstar. Ci separa un anno di distanza».Ha nostalgia degli anni Novanta?«Faccio umilmente il mio percorso, e per fortuna il mio pubblico e chi vuole trovarmi sa come farlo. Semplicemente, non voglio far parte della mischia - un cane sciolto, appunto - e non uno che sgomita. Anzi, mi è capitato di dire “no grazie” a qualche proposta che mi chiedeva di adeguarmi ai tempi che corrono».Ora ai suoi fan sta cantando un «goodbye».«È l’ultimo tour prima di una pausa che mi ha imposto mio suocero. Che per chi ancora non lo sapesse, è anche il mio cardiochirurgo. Uno degli episodi della commedia della mia vita, sposare la figlia del mio dottore (ride, ndr). A fine anno mi aspetta un ricovero per un intervento - ma non al cuore - per sistemare dei danni collaterali delle tre operazioni d’urgenza di due anni fa e mi è stata proibita la musica sul palco». Chiude la saracinesca?«Tornerò, spero. Voglio tornare. Ma sul palco ogni volta perdo un chilo e mezzo, a ogni concerto. Per me è una partita di rugby: salto e mi dimeno, e mi dimentico di essere cardiopatico. Sono un animale da catena, non da gabbia o da voliera. E quindi mi hanno messo uno stop forzato».Perde un chilo e mezzo, rischiando, e cosa ne guadagna?«Mi hanno soprannominato guerriero, ma pure “zio rock”. Ci sono fan che mi seguono da sempre e che ora vengono con le famiglie ad ascoltarmi. Il concerto è uno scambio, è come fare l’amore con il pubblico. Mi mancherà un sacco ma cerco di non pensarci troppo. È un arrivederci».
Antonella Bundu (Imagoeconomica)
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