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2024-08-12
Spuntino, condimento e «farmaco». Le olive sono molto più di un frutto
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Spesso tendiamo a ridurre l'olivo a mero distributore di olio, come quello celebrato da Gabriele D’Annunzio nel componimento L’olio: «Olio con sapiente arte spremuto / Dal puro frutto degli annosi olivi». Ma il frutto dell’albero d’olivo si consuma ovviamente anche non spremuto, e fu Giovanni Pascoli a tesserne le lodi nei bei versi de La canzone dell’ulivo: «L’ulivo che a gli uomini appresti / la bacca ch’è cibo e ch’è luce».
L’ulivo è un albero da frutto originario della Siria, i cui frutti si raccolgono per essere mangiati e moliti in olio (che si usava in cucina ma anche per illuminare, come unguento e come medicinale fin dall’antichità), e il suo nome botanico è Olea europaea. Si tratta di un albero sempreverde, dal legno prezioso e resistentissimo (ci si possono realizzare anche stoviglie) che ha un ruolo fondamentale (e un uso, si pensi all’Olio degli infermi o al Crisma) nella simbologia religiosa cristiana. Il suo frutto è una drupa di forma ovale e si divide in epicarpo, la parte più esterna e sottile, mesocarpo, la polpa, ed endocarpo ossia il nòcciolo. Quest'ultimo volgarmente si chiama anche «osso». Questo nostro nòcciolo a sua volta ha tre strati: una parte esterna detta tegumento, una parte centrale detta albume e una parte interna che, piantandola, darà luogo alla pianta. Le specie selvatiche di olive hanno nòccioli più piccoli, in quelle domestiche il diametro supera i 10 millimetri.
Preferite le olive verdi o nere? Sapete che ci sono anche rosse? E poi quelle (dette leucolee, cioè olive bianche) colorate di un verde così delicato che pare bianco? E sapete che alcune olive nere non sono davvero nere, ma sono... tinte? A prescindere da lievi differenze di colore dovute alla cultivar, in generale tutte le olive sono verdi quando sono acerbe, poi possono diventare di altro colore maturando se appartengono a una varietà di colore finale non verde. Quando vedete al supermercato olive nere come la pece, sappiate che si potrebbe trattare di olive verdi, quindi colte prima del raggiungimento della maturità, oppure di una varietà di olive verdi anche mature, e poi tinte. Si usano additivi come il gluconato ferroso - E579 - oppure il lattato ferroso - E585. Quindi, per capire se l’oliva nera in barattolo in questione è tinta oppure è naturalmente nerastra basta controllare gli ingredienti. Le olive da mangiare, cosiddette da mensa, possono essere raccolte prima o dopo la cosiddetta invaiatura, una fase della maturazione dei frutti durante la quale il colore verde dell’epicarpo ancora acerbo e duro vira verso il colore definitivo, che può esser verde se verde è la cultivar oppure dei colori su citati (le olive da olio vengono raccolte secondo molti fattori, ma in linea di massima a metà invaiatura). L’invaiatura è direttamente dipendente dal metabolismo della clorofilla. Prima di essa, l’epicarpo di qualunque varietà è verde a causa della presenza di clorofilla, la quale ha un pigmento verde che copre gli altri. Degradando di colore, se la varietà di oliva non appartiene al gruppo delle olive verdi, la maturazione farà emergere colori più chiari, come quelli rosa-rossastri, o, come abbiamo visto, verde talmente chiaro da essere definite olive bianche, oppure più scuri, come nel caso delle olive nere. Nelle olive rossastre prevalgono i carotenoidi, nelle olive dal bordeaux al nero prevalgono gli antociani.
A seconda della varietà e della lavorazione, al verde oppure al nero (le olive naturalmente nere), le olive si raccolgono a partire da settembre ed ottobre, quelle fatte maturare fino a giungere ad altro colore finale, esterno ed interno, anche fino a gennaio.
Fateci caso, a partire dalla fine del prossimo mese, se frequentate mercati o supermercati particolarmente forniti, potrete trovare in vendita le olive appena raccolte. Olive che sebbene siano adatte al consumo da tavola non possono essere semplicemente prese e mangiate, ma vanno trattate. Le olive appena raccolte, infatti, sono amare, a causa della presenza di un’alta percentuale di oleuropeina, polifenolo che conferisce il tipico sapore amaro che sente chi addenta l’oliva appena colta. Per poter essere mangiate, queste olive vanno sciacquate e poi sottoposte a deamaricazione o deamarizzazione, anche detta concia, procedimento che diminuisce l’oleuropeina. Fatta in maniera artigianale (provateci!), la concia consiste nello sciacquare le olive dopo la raccolta, pulirle da foglie e piccioli, poi porle in una immersione in acqua da cambiare due volte al giorno per almeno due settimane (di più se dopo i 15 giorni le olive, all’assaggio, risultano ancora un pochino amare). Il procedimento industriale invece è più veloce e consiste in una immersione in acqua e soda caustica di qualche ora e poi vari risciacqui successivi per eliminare la soda. Se si vogliono conservare, dopo la deamaricazione si può optare per la salatura (salatura a secco), per la salamoia (salatura in acqua o umida) o per la conservazione sott’olio. La salatura consiste nel conservare le olive in barattoli alternando strati di sale e strati di olive, la salamoia nella conservazione in barattoli con soluzione di acqua e sale e la conservazione sott’olio prevede di conservare in olio evo e aromatizzanti a piacere, che possono andare dall’aglio al finocchietto passando per il peperoncino.
Certamente, noi italiani ci approvvigioniamo delle proprietà benefiche del frutto dell’Olea europea soprattutto tramite il consumo quotidiano e abbondante di olio di oliva. Ma anche mangiare le olive ha il suo perché. Sgranocchiarle all’aperitivo è sicuramente un’alternativa un po' più salutare dell’ingozzarsi di arachidi salate, non tanto per l’arachide, quanto per l’alto contenuto di sale o, peggio, di altri snack ultraprocessati. Le si può anche usare nel condimento della pastasciutta, in aggiunta ad altri ingredienti, come per esempio i capperi, che insieme alle olive creano la buonissima pasta alla puttanesca: nel napoletano, area di cui sono tipici, si chiamano anche «spaghetti aulive e chiapparielle» cioè spaghetti olive e capperi, e si preparano con salsa di pomodoro, olio evo, aglio, olive - nere, capperi e origano, in area romana si aggiungono anche le acciughe salate. Entrambe le versioni sono squisite. Anche aggiungerle a un’insalata verde coi pomodori e, perché no, la cipolla fresca è un’ottima idea. Unendo «una proteina» e affiancandoci del pane si avrà un pasto completo, come è, per dire, l’insalata greca (pomodori, cetrioli, cipolle, feta, olive, sale, origano, olio d’oliva).
Le olive contengono acidi grassi monoinsaturi, primo tra tutti l’acido oleico, che aiutano ad abbassare il colesterolo Ldl, il cosiddetto colesterolo cattivo che se incontrollato può condurre a varie problematiche cardiovascolari anche gravi. Contengono poi antiossidanti, che contrastano i radicali liberi e quindi l’invecchiamento (l’idrossitirosolo ha specifiche proprietà antitumorali), vitamina A, che protegge la pelle e la vista dai raggi Uv, luteina, anch’essa utile per la vista, ferro. Se dovete fare attenzione al sale ingerito, sciacquate bene o addirittura tenetele in immersione in acqua prima del consumo se sono in salamoia o sotto sale asciutto, perché il sodio che già esse contengono è ulteriormente arricchito da quello della conservazione tramite sale. Le olive proteggono le pareti di stomaco e intestino e fanno bene anche consumate durante o perfino dopo il pasto, e aiutano la digestione, pensate, grazie al loro potere emulsionante.
«Averne un barattolo è come possedere un tesoro prezioso»

Antonella Ricci
Antonella Ricci è una brillante chef della Puglia, terra leggendaria per i suoi ulivi. Nel 1996 suo padre e sua madre aprono a Ceglie Messapica (Brindisi) Il Fornello da Ricci, che poi diviene il primo ristorante stellato della Puglia. Antonella si laurea in Scienze economiche e bancarie, ma poi segue la sua grande passione culinaria, studia da Paul Bocuse a Lione, diventa docente all’Alma e poi prende in mano Il Fornello da Ricci con suo marito Vinod Sookar, anche lui chef, e lo trasformano in Antonella Ricci & Vinod Sookar. Potete seguirli in tv nel delizioso cooking show Mangia, Puglia, Ama, da Antonella Clerici a È sempre mezzogiorno, e potete anche leggerne le ricette (e la storia) nel libro, da poco pubblicato per i tipi di Cairo Editore, Dalla Puglia con amore. Le gustose e originali ricette di Antonella e Vinod. E potete anche mangiare i loro piatti nel ristorante omonimo a Ceglie Messapica oppure a Milano nel loro ristorante Ricci Osteria, che il New York Times ha stralodato giusto poche settimane fa per le Orecchiette con broccoli e pomodori. Abbiamo intervistato chef Antonella.
Il New York Times ha inserito le Orecchiette con broccoli e pomodori di Ricci Osteria a Milano nella classifica de «I 25 piatti di pasta essenziali da mangiare in Italia». Cosa ha provato?
«Ho provato tantissima emozione, perché quello è un piatto veramente del cuore: è dal 1966 che le orecchiette si fanno a mano nella mia cucina, quindi sono stata veramente molto molto contenta. Anche perché vuol dire che con questo team di giovani che lavora così bene abbiamo creato veramente una bellissima realtà nel centro di Milano. Anche a Milano si possono mangiare le orecchiette fatte al coltello. Sono contenta specialmente per la clientela internazionale che forse apprezza ancora di più, rispetto a quella nazionale, le tradizioni e che vuole conoscerle quando arriva in Italia. E che magari ha la possibilità solo di stare a Milano».
Nella prefazione al suo libro, Antonella Clerici ha scritto: «In lei ho ritrovato quel senso della famiglia tipicamente italiano, la strenua difesa di una cucina di tradizione». E: «Madre, moglie, figlia, Antonella è tutte queste cose, una di quelle figure d’altri tempi, ma al contempo una donna assolutamente contemporanea, capace di guidare le sorti di un’intera dinastia». Per le sue esperienze, la ristorazione è un ambiente maschilista, femminista o paritario?
«Direi che la ristorazione si sta avviando piano piano verso una situazione di parità fra gli chef uomini e le chef donne. Una parità molto sofferta perché comunque non si sono fatti tantissimi passi avanti in questi ultimi 25-30 anni, anche perché le donne sono sempre penalizzate se vogliono avere una famiglia, sono sempre penalizzate da questo lavoro. Se non si regolarizzerà questo lavoro, nel tempo, sicuramente molte donne si scoraggeranno e quindi non andranno più avanti con la propria passione della cucina. In altri Paesi è molto più semplice, perché la ristorazione è molto molto regolarizzata, le persone possono fare otto ore di lavoro e avere una turnazione molto importante, per cui si vedono molte più figure femminili. Sapete tutti quanti che se la donna vuole avere una famiglia, vuole avere anche una vita privata, con questo lavoro è un po’ difficile perché ti prende tantissimo».
Nella prefazione sua e di Vinod al libro, voi concludete dicendo: «Amate i vostri commensali, amate gli ingredienti genuini del territorio e soprattutto amate la tradizione, che custodisce come uno scrigno la magia dei sapori autentici». Allora è vero che l’ingrediente segreto è l’amore?
«Secondo me l’ingrediente segreto è sicuramente l’amore, la passione che uno mette nel fare questo lavoro e nel realizzare dei piatti. Gli ingredienti e le tecniche sono molto importanti, ma contemporaneamente se tu non metti la passione, se non hai il rispetto per le persone che si siedono alla tua tavola si sminuisce un po’ tutto e diventa molto banale. L’altra cosa importante è la ricerca del gusto».
L’oliva intera nera o verde è un ingrediente un po’ sottovalutato, sebbene in area mediterranea ci siano stupendi piatti come la pasta alla puttanesca o l’insalata greca. Da tecnica, cioè da chef, ma anche da originaria di una terra ricchissima di olive, ci dà qualche consiglio o trucchetto per mangiarle al meglio possibile?
«Le olive sono il patrimonio dell’umanità insieme agli olivi. Da noi, in Puglia, gli ulivi sono sacri. Per mangiare le olive a casa ci sono tantissime possibilità: la cosa importante è scegliere le varietà giuste e utilizzarle al meglio, per esempio quando è il periodo dell’oliva fresca, quando si raccolgono le olive. Nella nostra terra ci sono le olive che si chiamano olive mele e che sono buonissime da fare soffritte. Cominciare da quelle per poi finire al buon olio extravergine d’oliva, alle olive da mensa che sono tantissime varietà e quindi puoi scegliere dall’oliva Bella di Cerignola alla Leccina, alla Cellina. La cosa bella è utilizzarle non solo nelle insalate, nei piatti, ma anche come aperitivo; le olive buone, belle fresche, prese dal barattolo appena aperto sono ottime per un aperitivo sfizioso. Avere un barattolo di olive in casa è sempre un tesoro, perché ti aiutano tantissimo in tante preparazioni. Oltre alle olive mangiate così come sono, noi facciamo il nero di oliva: per noi è fondamentale in cucina per utilizzare un colore nero. Siamo sempre alla ricerca di colori e di sapori nella cucina e facciamo il nero d’oliva con l’oliva Leccina, che è un’oliva piccolissima che si chiama anche oliva da tinta, e con quella oltre a fare una crema di olive per colorare le focacce, la pasta, i pani eccetera, quando sono in eccesso la essicchiamo e facciamo una polvere di olive. Con l’oliva si può fare veramente di tutto, per me è preziosa».
Nelle sue Orecchiette al nero di olive celline, lei sostituisce l’acqua dell’impasto con una purea di queste olive. Ci racconta come nasce questa bellissima ricetta?
«Come dicevo prima, le olive diventano una bellissima crema. Nel periodo giusto della stagione, più o meno verso la metà, fine ottobre si raccolgono le olive celline che sono olive piccolissime da tinta. Si prendono, si lavano molto bene e si tengono in acqua fredda per una quarantina di giorni; ogni tanto si va a cambiare l’acqua. Una volta trascorsi questi 40 giorni, si prepara una bella salamoia profumata alle erbe aromatiche mediterranee, si mettono in questa salamoia e si conservano. Il ristorante era ed è attualmente nell’entroterra e quindi non utilizzavamo il pesce per scelta. Tanti anni fa abbiamo cominciato a giocare con le olive nere celline, le abbiamo snocciolate e abbiamo cominciato a fare delle creme. Le prime le abbiamo utilizzate sui crostini di pane, poi invece abbiamo capito che poteva essere una tinta, che poteva essere usata al posto del nero di seppia e quindi abbiamo giocato con gli impasti ed è nato questo piatto bellissimo che sono le orecchiette. Non tingiamo soltanto le orecchiette, ma tantissime altre preparazioni. Questa è l’evoluzione della cucina pugliese: sì, noi siamo attaccati alle tradizioni, ma comunque non siamo con i paraocchi, nel senso che utilizziamo tutti i prodotti del territorio per poter poi fare delle pietanze interessanti, buone, aromatiche, colorate con delle tecniche interessanti. Questa terra ci ci ha donato veramente tantissime possibilità».
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Verdi nella versione tradizionale, possono diventare rosse, bianche o nere una volta maturate. Impiegate a mo’ di aperitivo o sotto forma di olio, fanno bene sia alla pelle che alla vista. Alla stregua di una medicina.La chef pugliese Antonella Ricci: «Ti danno una mano in molte preparazioni. E per me il loro albero è sacro, un patrimonio per l’umanità».Lo speciale contiene due articoli.Spesso tendiamo a ridurre l'olivo a mero distributore di olio, come quello celebrato da Gabriele D’Annunzio nel componimento L’olio: «Olio con sapiente arte spremuto / Dal puro frutto degli annosi olivi». Ma il frutto dell’albero d’olivo si consuma ovviamente anche non spremuto, e fu Giovanni Pascoli a tesserne le lodi nei bei versi de La canzone dell’ulivo: «L’ulivo che a gli uomini appresti / la bacca ch’è cibo e ch’è luce». L’ulivo è un albero da frutto originario della Siria, i cui frutti si raccolgono per essere mangiati e moliti in olio (che si usava in cucina ma anche per illuminare, come unguento e come medicinale fin dall’antichità), e il suo nome botanico è Olea europaea. Si tratta di un albero sempreverde, dal legno prezioso e resistentissimo (ci si possono realizzare anche stoviglie) che ha un ruolo fondamentale (e un uso, si pensi all’Olio degli infermi o al Crisma) nella simbologia religiosa cristiana. Il suo frutto è una drupa di forma ovale e si divide in epicarpo, la parte più esterna e sottile, mesocarpo, la polpa, ed endocarpo ossia il nòcciolo. Quest'ultimo volgarmente si chiama anche «osso». Questo nostro nòcciolo a sua volta ha tre strati: una parte esterna detta tegumento, una parte centrale detta albume e una parte interna che, piantandola, darà luogo alla pianta. Le specie selvatiche di olive hanno nòccioli più piccoli, in quelle domestiche il diametro supera i 10 millimetri. Preferite le olive verdi o nere? Sapete che ci sono anche rosse? E poi quelle (dette leucolee, cioè olive bianche) colorate di un verde così delicato che pare bianco? E sapete che alcune olive nere non sono davvero nere, ma sono... tinte? A prescindere da lievi differenze di colore dovute alla cultivar, in generale tutte le olive sono verdi quando sono acerbe, poi possono diventare di altro colore maturando se appartengono a una varietà di colore finale non verde. Quando vedete al supermercato olive nere come la pece, sappiate che si potrebbe trattare di olive verdi, quindi colte prima del raggiungimento della maturità, oppure di una varietà di olive verdi anche mature, e poi tinte. Si usano additivi come il gluconato ferroso - E579 - oppure il lattato ferroso - E585. Quindi, per capire se l’oliva nera in barattolo in questione è tinta oppure è naturalmente nerastra basta controllare gli ingredienti. Le olive da mangiare, cosiddette da mensa, possono essere raccolte prima o dopo la cosiddetta invaiatura, una fase della maturazione dei frutti durante la quale il colore verde dell’epicarpo ancora acerbo e duro vira verso il colore definitivo, che può esser verde se verde è la cultivar oppure dei colori su citati (le olive da olio vengono raccolte secondo molti fattori, ma in linea di massima a metà invaiatura). L’invaiatura è direttamente dipendente dal metabolismo della clorofilla. Prima di essa, l’epicarpo di qualunque varietà è verde a causa della presenza di clorofilla, la quale ha un pigmento verde che copre gli altri. Degradando di colore, se la varietà di oliva non appartiene al gruppo delle olive verdi, la maturazione farà emergere colori più chiari, come quelli rosa-rossastri, o, come abbiamo visto, verde talmente chiaro da essere definite olive bianche, oppure più scuri, come nel caso delle olive nere. Nelle olive rossastre prevalgono i carotenoidi, nelle olive dal bordeaux al nero prevalgono gli antociani. A seconda della varietà e della lavorazione, al verde oppure al nero (le olive naturalmente nere), le olive si raccolgono a partire da settembre ed ottobre, quelle fatte maturare fino a giungere ad altro colore finale, esterno ed interno, anche fino a gennaio. Fateci caso, a partire dalla fine del prossimo mese, se frequentate mercati o supermercati particolarmente forniti, potrete trovare in vendita le olive appena raccolte. Olive che sebbene siano adatte al consumo da tavola non possono essere semplicemente prese e mangiate, ma vanno trattate. Le olive appena raccolte, infatti, sono amare, a causa della presenza di un’alta percentuale di oleuropeina, polifenolo che conferisce il tipico sapore amaro che sente chi addenta l’oliva appena colta. Per poter essere mangiate, queste olive vanno sciacquate e poi sottoposte a deamaricazione o deamarizzazione, anche detta concia, procedimento che diminuisce l’oleuropeina. Fatta in maniera artigianale (provateci!), la concia consiste nello sciacquare le olive dopo la raccolta, pulirle da foglie e piccioli, poi porle in una immersione in acqua da cambiare due volte al giorno per almeno due settimane (di più se dopo i 15 giorni le olive, all’assaggio, risultano ancora un pochino amare). Il procedimento industriale invece è più veloce e consiste in una immersione in acqua e soda caustica di qualche ora e poi vari risciacqui successivi per eliminare la soda. Se si vogliono conservare, dopo la deamaricazione si può optare per la salatura (salatura a secco), per la salamoia (salatura in acqua o umida) o per la conservazione sott’olio. La salatura consiste nel conservare le olive in barattoli alternando strati di sale e strati di olive, la salamoia nella conservazione in barattoli con soluzione di acqua e sale e la conservazione sott’olio prevede di conservare in olio evo e aromatizzanti a piacere, che possono andare dall’aglio al finocchietto passando per il peperoncino. Certamente, noi italiani ci approvvigioniamo delle proprietà benefiche del frutto dell’Olea europea soprattutto tramite il consumo quotidiano e abbondante di olio di oliva. Ma anche mangiare le olive ha il suo perché. Sgranocchiarle all’aperitivo è sicuramente un’alternativa un po' più salutare dell’ingozzarsi di arachidi salate, non tanto per l’arachide, quanto per l’alto contenuto di sale o, peggio, di altri snack ultraprocessati. Le si può anche usare nel condimento della pastasciutta, in aggiunta ad altri ingredienti, come per esempio i capperi, che insieme alle olive creano la buonissima pasta alla puttanesca: nel napoletano, area di cui sono tipici, si chiamano anche «spaghetti aulive e chiapparielle» cioè spaghetti olive e capperi, e si preparano con salsa di pomodoro, olio evo, aglio, olive - nere, capperi e origano, in area romana si aggiungono anche le acciughe salate. Entrambe le versioni sono squisite. Anche aggiungerle a un’insalata verde coi pomodori e, perché no, la cipolla fresca è un’ottima idea. Unendo «una proteina» e affiancandoci del pane si avrà un pasto completo, come è, per dire, l’insalata greca (pomodori, cetrioli, cipolle, feta, olive, sale, origano, olio d’oliva). Le olive contengono acidi grassi monoinsaturi, primo tra tutti l’acido oleico, che aiutano ad abbassare il colesterolo Ldl, il cosiddetto colesterolo cattivo che se incontrollato può condurre a varie problematiche cardiovascolari anche gravi. Contengono poi antiossidanti, che contrastano i radicali liberi e quindi l’invecchiamento (l’idrossitirosolo ha specifiche proprietà antitumorali), vitamina A, che protegge la pelle e la vista dai raggi Uv, luteina, anch’essa utile per la vista, ferro. Se dovete fare attenzione al sale ingerito, sciacquate bene o addirittura tenetele in immersione in acqua prima del consumo se sono in salamoia o sotto sale asciutto, perché il sodio che già esse contengono è ulteriormente arricchito da quello della conservazione tramite sale. Le olive proteggono le pareti di stomaco e intestino e fanno bene anche consumate durante o perfino dopo il pasto, e aiutano la digestione, pensate, grazie al loro potere emulsionante.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/olive-molto-piu-un-frutto-2668949282.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="averne-un-barattolo-e-come-possedere-un-tesoro-prezioso" data-post-id="2668949282" data-published-at="1723487696" data-use-pagination="False"> «Averne un barattolo è come possedere un tesoro prezioso» Antonella Ricci Antonella Ricci è una brillante chef della Puglia, terra leggendaria per i suoi ulivi. Nel 1996 suo padre e sua madre aprono a Ceglie Messapica (Brindisi) Il Fornello da Ricci, che poi diviene il primo ristorante stellato della Puglia. Antonella si laurea in Scienze economiche e bancarie, ma poi segue la sua grande passione culinaria, studia da Paul Bocuse a Lione, diventa docente all’Alma e poi prende in mano Il Fornello da Ricci con suo marito Vinod Sookar, anche lui chef, e lo trasformano in Antonella Ricci & Vinod Sookar. Potete seguirli in tv nel delizioso cooking show Mangia, Puglia, Ama, da Antonella Clerici a È sempre mezzogiorno, e potete anche leggerne le ricette (e la storia) nel libro, da poco pubblicato per i tipi di Cairo Editore, Dalla Puglia con amore. Le gustose e originali ricette di Antonella e Vinod. E potete anche mangiare i loro piatti nel ristorante omonimo a Ceglie Messapica oppure a Milano nel loro ristorante Ricci Osteria, che il New York Times ha stralodato giusto poche settimane fa per le Orecchiette con broccoli e pomodori. Abbiamo intervistato chef Antonella. Il New York Times ha inserito le Orecchiette con broccoli e pomodori di Ricci Osteria a Milano nella classifica de «I 25 piatti di pasta essenziali da mangiare in Italia». Cosa ha provato? «Ho provato tantissima emozione, perché quello è un piatto veramente del cuore: è dal 1966 che le orecchiette si fanno a mano nella mia cucina, quindi sono stata veramente molto molto contenta. Anche perché vuol dire che con questo team di giovani che lavora così bene abbiamo creato veramente una bellissima realtà nel centro di Milano. Anche a Milano si possono mangiare le orecchiette fatte al coltello. Sono contenta specialmente per la clientela internazionale che forse apprezza ancora di più, rispetto a quella nazionale, le tradizioni e che vuole conoscerle quando arriva in Italia. E che magari ha la possibilità solo di stare a Milano». Nella prefazione al suo libro, Antonella Clerici ha scritto: «In lei ho ritrovato quel senso della famiglia tipicamente italiano, la strenua difesa di una cucina di tradizione». E: «Madre, moglie, figlia, Antonella è tutte queste cose, una di quelle figure d’altri tempi, ma al contempo una donna assolutamente contemporanea, capace di guidare le sorti di un’intera dinastia». Per le sue esperienze, la ristorazione è un ambiente maschilista, femminista o paritario? «Direi che la ristorazione si sta avviando piano piano verso una situazione di parità fra gli chef uomini e le chef donne. Una parità molto sofferta perché comunque non si sono fatti tantissimi passi avanti in questi ultimi 25-30 anni, anche perché le donne sono sempre penalizzate se vogliono avere una famiglia, sono sempre penalizzate da questo lavoro. Se non si regolarizzerà questo lavoro, nel tempo, sicuramente molte donne si scoraggeranno e quindi non andranno più avanti con la propria passione della cucina. In altri Paesi è molto più semplice, perché la ristorazione è molto molto regolarizzata, le persone possono fare otto ore di lavoro e avere una turnazione molto importante, per cui si vedono molte più figure femminili. Sapete tutti quanti che se la donna vuole avere una famiglia, vuole avere anche una vita privata, con questo lavoro è un po’ difficile perché ti prende tantissimo». Nella prefazione sua e di Vinod al libro, voi concludete dicendo: «Amate i vostri commensali, amate gli ingredienti genuini del territorio e soprattutto amate la tradizione, che custodisce come uno scrigno la magia dei sapori autentici». Allora è vero che l’ingrediente segreto è l’amore? «Secondo me l’ingrediente segreto è sicuramente l’amore, la passione che uno mette nel fare questo lavoro e nel realizzare dei piatti. Gli ingredienti e le tecniche sono molto importanti, ma contemporaneamente se tu non metti la passione, se non hai il rispetto per le persone che si siedono alla tua tavola si sminuisce un po’ tutto e diventa molto banale. L’altra cosa importante è la ricerca del gusto». L’oliva intera nera o verde è un ingrediente un po’ sottovalutato, sebbene in area mediterranea ci siano stupendi piatti come la pasta alla puttanesca o l’insalata greca. Da tecnica, cioè da chef, ma anche da originaria di una terra ricchissima di olive, ci dà qualche consiglio o trucchetto per mangiarle al meglio possibile? «Le olive sono il patrimonio dell’umanità insieme agli olivi. Da noi, in Puglia, gli ulivi sono sacri. Per mangiare le olive a casa ci sono tantissime possibilità: la cosa importante è scegliere le varietà giuste e utilizzarle al meglio, per esempio quando è il periodo dell’oliva fresca, quando si raccolgono le olive. Nella nostra terra ci sono le olive che si chiamano olive mele e che sono buonissime da fare soffritte. Cominciare da quelle per poi finire al buon olio extravergine d’oliva, alle olive da mensa che sono tantissime varietà e quindi puoi scegliere dall’oliva Bella di Cerignola alla Leccina, alla Cellina. La cosa bella è utilizzarle non solo nelle insalate, nei piatti, ma anche come aperitivo; le olive buone, belle fresche, prese dal barattolo appena aperto sono ottime per un aperitivo sfizioso. Avere un barattolo di olive in casa è sempre un tesoro, perché ti aiutano tantissimo in tante preparazioni. Oltre alle olive mangiate così come sono, noi facciamo il nero di oliva: per noi è fondamentale in cucina per utilizzare un colore nero. Siamo sempre alla ricerca di colori e di sapori nella cucina e facciamo il nero d’oliva con l’oliva Leccina, che è un’oliva piccolissima che si chiama anche oliva da tinta, e con quella oltre a fare una crema di olive per colorare le focacce, la pasta, i pani eccetera, quando sono in eccesso la essicchiamo e facciamo una polvere di olive. Con l’oliva si può fare veramente di tutto, per me è preziosa». Nelle sue Orecchiette al nero di olive celline, lei sostituisce l’acqua dell’impasto con una purea di queste olive. Ci racconta come nasce questa bellissima ricetta? «Come dicevo prima, le olive diventano una bellissima crema. Nel periodo giusto della stagione, più o meno verso la metà, fine ottobre si raccolgono le olive celline che sono olive piccolissime da tinta. Si prendono, si lavano molto bene e si tengono in acqua fredda per una quarantina di giorni; ogni tanto si va a cambiare l’acqua. Una volta trascorsi questi 40 giorni, si prepara una bella salamoia profumata alle erbe aromatiche mediterranee, si mettono in questa salamoia e si conservano. Il ristorante era ed è attualmente nell’entroterra e quindi non utilizzavamo il pesce per scelta. Tanti anni fa abbiamo cominciato a giocare con le olive nere celline, le abbiamo snocciolate e abbiamo cominciato a fare delle creme. Le prime le abbiamo utilizzate sui crostini di pane, poi invece abbiamo capito che poteva essere una tinta, che poteva essere usata al posto del nero di seppia e quindi abbiamo giocato con gli impasti ed è nato questo piatto bellissimo che sono le orecchiette. Non tingiamo soltanto le orecchiette, ma tantissime altre preparazioni. Questa è l’evoluzione della cucina pugliese: sì, noi siamo attaccati alle tradizioni, ma comunque non siamo con i paraocchi, nel senso che utilizziamo tutti i prodotti del territorio per poter poi fare delle pietanze interessanti, buone, aromatiche, colorate con delle tecniche interessanti. Questa terra ci ci ha donato veramente tantissime possibilità».
Da sinistra: Friedrich Merz, Keir Starmer, Volodymyr Zelensky ed Emmanuel Macron (Ansa)
Mentre il summit europeo di Berlino sulla pace in Ucraina è stato celebrato come un successo da chi ne ha preso parte, le proposte contenute nella dichiarazione congiunta dei leader dell’Europa sembrano fatte per essere rifiutate. E Mosca ha già iniziato a manifestare i primi segnali di chiusura.
A meno di 24 ore di distanza dal vertice, il Cremlino è convinto che la partecipazione degli europei alle trattative «non promette bene». E anche di fronte alle dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che intravede la conclusione del conflitto, Mosca resta cauta. Il tycoon, dopo aver parlato lunedì sera con i primi ministri e i capi di Stato europei, aveva subito dichiarato: «Siamo più vicini che mai alla fine della guerra», aggiungendo anche di essere stato in contatto «di recente con Vladimir Putin». A smentire però la telefonata è stato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov: i due leader non si sono più sentiti dopo il 16 ottobre. Il portavoce ha anche spiegato che Mosca «non ha ricevuto» alcun segnale dopo i round di negoziati a Berlino, e anche per questo dovrà valutare «quello che sarà il risultato dei negoziati che gli americani conducono con gli ucraini, con la partecipazione degli europei». Che Mosca non abbia ancora compreso l’esito dei summit è evidente anche dalle parole del viceministro degli Esteri russo, Sergej Ryabkov: «Non abbiamo idea di cosa succeda lì». Stando a quanto rivelato dal presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, si tratterebbe di una questione di giorni: i piani di pace, che dovrebbero essere finalizzati a breve, saranno poi presentati alla Russia dagli inviati americani.
Ma il niet russo è già arrivato in merito all’impegno europeo per «una forza multinazionale Ucraina a guida europea, composta dai contributi delle nazioni disponibili nell’ambito della coalizione dei Volenterosi e sostenuta dagli Stati Uniti». La posizione di Mosca era già nota, ma ieri il viceministro degli Esteri russo in un’intervista ad Abc News, ha ribadito: «Non sottoscriveremo, accetteremo o saremo nemmeno soddisfatti di alcuna presenza di truppe Nato sul territorio ucraino». Lo stesso rifiuto si applica anche qualora la forza multinazionale fosse parte di una garanzia di sicurezza o della Coalizione dei volenterosi. A intervenire in merito è stato anche Peskov che, affermando che Mosca «non ha visto alcun testo» sulla proposta europea della forza multinazionale, ha precisato: «La nostra posizione è ben nota, coerente e trasparente ed è chiara agli americani».
A ciò si aggiunge il grattacapo dei territori, con nessuna delle due parti che è disposta a cedere. Zelensky, a margine del vertice, ha ripetuto che «l’Ucraina non riconoscerà il Donbass come territorio russo, né de jure né de facto». L’impegno di Kiev è quello di continuare a «discuterne nonostante tutto». Il presidente ucraino pare quindi non prendere ancora sul serio le parole di Trump, che ha confermato che «il territorio del Donbass è già perso» per l’Ucraina. Dall’altra parte, anche la posizione russa resta immutata: Ryabkov ha detto che Mosca non scenderà «a compromessi» su Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhia, Kherson e Crimea. Ed è anche in quest’ottica, con i soldati russi che continuano ad avanzare, che il Cremlino ha rifiutato la tregua natalizia avanzata dal cancelliere tedesco, Friedrich Merz. Peskov ha infatti sottolineato: «Vogliamo la pace, non una tregua che dia sollievo agli ucraini e permetta loro di prepararsi a continuare la guerra».
Un altro tassello complicato riguarda Kiev e l’Ue, anche se non dalla prospettiva russa. Nell’ultimo punto della dichiarazione congiunta dei leader europei si afferma: «Il fermo sostegno all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea». Ma da parte italiana emergono alcune perplessità. Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha osservato che ritiene «difficile» l’ingresso dell’Ucraina sia nella Nato sia nell’Ue «non per motivi politici ma agricoli, conoscendo gli agricoltori polacchi, francesi, italiani e tedeschi». A ribadire la sua contrarietà è stato poi il premier ungherese, Viktor Orbàn: «Il popolo ungherese ha detto che non vuole stare in un’Unione con l’Ucraina». Tornando alla linea dell’Italia, riguardo alle garanzie di sicurezza simili all’articolo 5 della Nato di cui «gli americani ne saranno parte», il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha ricordato che si tratta della «proposta italiana» che è stata «accolta» perché «di buon senso». Ma ad essere accolte, sul fronte opposto, sono state anche le dichiarazioni inerenti al riarmo del vicepremier, Matteo Salvini: «Se Hitler e Napoleone non sono riusciti a mettere in ginocchio Mosca con le loro campagne in Russia, è improbabile che Kallas, Macron, Starmer e Merz abbiano successo». Per la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova «il paragone è preciso, la conclusione è indiscutibile».
Nato e referendum sul Donbass: la guerra poteva finire già nel 2022
Il nostro articolo del 27 febbraio 2022 concludeva con queste parole: «Forse si potrebbe auspicare che la Nato dichiari di rinunciare, una volta per tutte, ad «invitare» l’Ucraina a farvi parte; e che le regioni ucraine oggetto del contendere siano sottoposte a nuovo referendum». Dopo quasi quattro anni di guerra, leggiamo che «Volodymyr Zelensky apre: no a Kiev nella Nato».
Inoltre, a chi gli chiedeva se egli sarebbe stato disponibile a concedere territori come parte di un accordo di pace, Zelensky rispondeva che «la cosa non può essere decisa unilateralmente dal governo o dagli alleati, ma deve avere un mandato popolare, cioè il popolo ucraino deve essere coinvolto tramite un qualche processo democratico, nel formato di elezioni o di referendum». Che il nostro auspicio di quattro anni fa coincida con le conclusioni cui sarebbe alla fine pervenuto Zelensky dopo quattro anni, è, a mio parere, l’ulteriore prova della inadeguatezza di un uomo chiamato a gestire una situazione più grande, molto più grande, di lui. E non si tratta solo di inadeguatezza, ma anche di irresponsabilità. Perché le cose - se vogliamo capirle - dobbiamo dirle tutte. Dobbiamo quindi dire che già il 15 marzo 2022 Zelensky dichiarava: «Abbiamo capito che l’Ucraina non diventerà un membro della Nato, e dobbiamo riconoscere che non ci sono porte aperte». Insomma, il dover abbandonare ogni velleità di aderire alla Nato, più che una apertura di questi giorni, era una consapevolezza acquisita già quattro anni fa. Il che impone la cogente domanda: perché ha continuato la guerra e non si arrese quel 15 marzo 2022? Prima o poi, se non da un tribunale, sicuramente dalla Storia, questa domanda gli verrà posta.
Un’altra domanda che gli si dovrà porre è da dove gli è mai venuta l’idea di una Nato dalle «porte aperte». L’art. 10 del Patto Atlantico prevede che i membri «possono, con accordo unanime, invitare qualsiasi altro Stato europeo ad aderire al Trattato»; cosicché per far parte della Nato bisogna 1) essere uno Stato europeo, 2) essere invitati da chi membro lo è già, e 3) essere invitati all’unanimità. È vero che, subito dopo la fine della Guerra fredda, sebbene ci fosse stata da parte dei vertici della Nato una promessa verbale di non espansione a est della Germania, quegli stessi vertici si preoccuparono di far sapere al mondo intero che non ci sarebbero state preclusioni di principio per l’allargamento della Nato. Tuttavia, l’articolo 10 del Trattato è rimasto immutato. Insomma, Zelensky mai poteva allora, né può ora accampare diritti in ordine alla adesione dell’Ucraina alla Nato. E fa sorridere che codesta volontà di adesione sia stata scritta, addirittura, nella Costituzione ucraina, quando la cosa non dipende dalla volontà dell’Ucraina. E fa sorridere ancora di più, perché questa volontà fu addirittura un emendamento del 2019 alla Costituzione del 1996 che invece garantiva l’Ucraina quale Stato militarmente neutrale.
Anche l’altra recente affermazione di Zelensky sul possibile referendum in ordine alla «cessione» dei territori ripropone la sprovvedutezza dell’uomo. Quattro anni fa l’idea poteva sorgere spontanea. E, anzi, doveva sorgere già nel 2014. Allora, in seguito allo spodestamento del presidente Viktor Yanukovich, legittimamente eletto anche col forte sostegno dei voti dei cittadini di Crimea e del Donbass, questi decidevano di separarsi dal governo centrale con un referendum. Il referendum era, ovviamente, illegittimo; ma poneva un problema politico che in un sistema sedicente democratico avrebbe dovuto risolversi in qualche modo. Ma, anziché invocare il principio, sancito dalla Carta Onu, dell’autodeterminazione dei popoli e far ripetere i referendum sotto il controllo internazionale, la comunità internazionale girava le spalle al Donbass che si dichiarava indipendente; e sanzionava la Russia cui la Crimea si era confederata.
L’impressione è che, se fosse assennato, a Zelensky converrebbe mollare la Ue e affidarsi esclusivamente a Donald Trump. Se da un lato questi vorrebbe far finire quanto prima la guerra, e pertanto appare disponibile ad accontentare le pretese di Putin, dall’altro ha interesse a minimizzarne i vantaggi, cosa che indirettamente significa anche minimizzare gli svantaggi per l’Ucraina. Le cui disgrazie sono anche in parte dovute a quel «f**k the Eu» pronunciato - da Victoria Nuland, nel 2014 responsabile americana agli affari euroasiatici - a detrimento dell’Ucraina. Forse è venuto il momento per Zelensky di pronunciare la stessa invettiva a vantaggio del proprio Paese.
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Il viceministro degli Esteri israeliano Sharren Haskel (MFA/Mordehai Gordon)
Viceministro, la pace sembra essere ancora molto lontana in Medioriente.
«La situazione è particolarmente complessa e stiamo lavorando in patria e all’estero per garantire la sicurezza dei cittadini israeliani e di tutti gli ebrei. A Gaza, Hamas non vuole consegnare le armi, bloccando l’inizio della Fase 2, ma la nostra pazienza ha un limite. Nella Striscia serve sicurezza e democrazia, due cose che Hamas combatte da sempre. Io personalmente non ho nessuna fiducia negli attuali leader palestinesi: molti di loro fanno dichiarazioni in arabo contro Israele e poi in inglese si fingono democratici. Glorificano i terroristi e fomentano la violenza. E così fanno solo il male dei palestinesi».
Il presidente statunitense, Donald Trump, vuole inserire anche l’Italia nel cosiddetto Consiglio di pace per Gaza.
«Siamo assolutamente favorevoli a coinvolgere l’Italia. Abbiamo grande fiducia sia nei militari che nei politici italiani. Il governo di Roma si sta adoperando per raggiungere la pace e io personalmente conosco il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, e ne apprezzo la grande capacità diplomatica. Siamo però molto delusi da alcune nazioni europee come la Spagna e l’Irlanda, che hanno deciso di riconoscere la Palestina. Questo riconoscimento non è niente, non esiste e non ha senso che esista. Si tratta di un gravissimo errore politico, non fanno altro che riconoscere Hamas e i suoi crimini. Dopo aver rapito, stuprato e ucciso civili innocenti, i terroristi ne escono rafforzati perché vengono premiati da questi Paesi».
Anche il confine settentrionale resta problematico.
«Non ci fidiamo assolutamente del nuovo regime in Siria. Abu Muhamnad Al Jolani, lo chiamo ancora così perché resta un pericoloso jihadista che ha buttato la tunica e indossato la cravatta, sta uccidendo le minoranze, dagli alawiti ai cristiani, ma soprattutto i drusi che Israele ha deciso di difendere. I drusi israeliani sono parte integrante della nostra società, servono nell’Idf come soldati e sono cittadini a tutti gli effetti. I loro fratelli siriani vengono massacrati solo perché sono una minoranza e noi non lo permetteremo. Hezbollah rimane un pericolo per Israele anche se la sua forza è diminuita, ma grazie ai crimini che commettono con il traffico di droga e armi dal Sud America presto torneranno a essere un pericolo. Stiamo facendo pressioni sul governo libanese perché acceleri il disarmo di Hezbollah, che ancora non è stato fatto nonostante sia ufficialmente iniziato ad agosto. Il presidente del Libano, Joseph Aoun, ha promesso che l’esercito nazionale avrà il monopolio della forza, ma deve ancora dimostrarlo».
L’attentato contro la comunità ebraica a Bondi Beach, in Australia, ha portato l’attenzione ai massimi livelli e l’ambasciatore d’Israele a Roma, Jonathan Peled, ha dichiarato che gli ebrei non si sentono sicuri neanche in Italia.
«Con il governo di Roma c’è una stretta e proficua collaborazione e sappiamo che cerca di garantire sempre la sicurezza degli ebrei in Italia. Ma le parole del nostro ambasciatore derivano dalle manifestazioni che ci sono state nel vostro Paese, dove abbiamo visto molti episodi di antisemitismo, che vanno condannati con maggiore determinazione. Il sostegno alla causa della Palestina è soltanto una scusa per attaccarci e per questo motivo serve particolare attenzione per gli ebrei in tutto il mondo. Israele combatte molti nemici, ma il più pericoloso rimane il pregiudizio nei nostri confronti, che nella storia ha causato tante tragedie».
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Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 17 dicembre con Flaminia Camilletti
Ansa
«La polizia aveva l’incarico di essere presente durante il festival», ha spiegato Minns a Sky News Australia. «Da quanto mi risulta, c’erano due agenti nel parco all’inizio della sparatoria. Altri erano nelle vicinanze e un’auto è arrivata poco dopo». Parole che hanno alimentato ulteriormente le polemiche: come si può ritenere adeguata una simile presenza in un contesto di allerta elevata e con un pubblico così numeroso?
Con il passare delle ore, intanto, emergono nuovi elementi sul profilo degli attentatori, Sajid Akram, 50 anni, e suo figlio Naveed, 24. I due hanno aperto il fuoco durante la celebrazione di Hanukkah, colpendo indiscriminatamente i presenti prima di essere neutralizzati: Sajid è morto durante l’azione, mentre Naveed è rimasto gravemente ferito, è sopravvissuto e ieri si è svegliato dal coma. Lontani dall’immagine stereotipata del terrorista clandestino, i due conducevano una vita apparentemente ordinaria. Sajid Akram gestiva un piccolo esercizio di frutta e verdura, mentre Naveed lavorava come operaio fino a pochi mesi fa e, già nel 2019, era finito sotto osservazione delle forze dell’ordine per frequentazioni con ambienti radicalizzati legati a una moschea estremista di Sydney, gravitanti attorno alla figura di Isaak El Matari, jihadista australiano noto agli apparati di sicurezza. Una svolta delle indagini è arrivata ieri quando fonti dell’antiterrorismo hanno riferito all’Abc che Naveed Akram è un seguace di Wisam Haddad, predicatore salafita ferocemente antisemita di Sydney apertamente schierato su posizioni pro Isis, del quale vi abbiamo parlato ieri. Haddad, attraverso i suoi legali, ha immediatamente respinto ogni accusa di coinvolgimento diretto nell’attacco.
Sul fronte internazionale, Nuova Delhi ha fatto sapere che Sajid Akram era nato a Hyderabad ed era arrivato in Australia nel 1998 con un visto per motivi di studio. Pur avendo fatto ritorno in India solo poche volte, aveva mantenuto la cittadinanza indiana. Naveed, invece, nato a Sydney nel 2001, è cittadino australiano. Secondo le autorità indiane, Sajid non avrebbe più intrattenuto rapporti con il Paese d’origine. Un altro tassello chiave riguarda il recente viaggio dei due uomini nelle Filippine. Le autorità australiane hanno confermato che padre e figlio hanno trascorso l’intero mese di novembre a Mindanao, indicando come meta finale la città di Davao. Sono rientrati il 28 novembre via Manila, prima di fare ritorno a Sydney. Mindanao è da decenni teatro di insurrezioni armate e ospita gruppi jihadisti legati ad al-Qaeda e, in misura minore, allo Stato Islamico. «Le ragioni del viaggio e le attività svolte restano oggetto di indagine», ha precisato il commissario di polizia del New South Wales, Mal Lanyon.
La mattina dell’attacco, i due avrebbero detto ai familiari di voler andare a pescare. In realtà si sono diretti in un appartamento preso in affitto, dove avevano accumulato armi acquistate legalmente e ordigni artigianali, poi disinnescati dagli artificieri.
Il premier australiano, Antony Albanese, ha attribuito il movente all’ideologia dello Stato Islamico, citando il ritrovamento di bandiere dell’Isis. Eppure, a differenza di altri attentati, l’organizzazione jihadista non ha rivendicato l’azione. Contrariamente a quanto si tende a credere lo Stato islamico non è una sigla simbolica aperta a chiunque decida di agire in suo nome. È - e continua a essere, nonostante la perdita del controllo territoriale in Siria e Iraq - un’organizzazione strutturata, dotata di una rigida catena di comando, di regole operative precise e di una dottrina definita sulla legittimità delle azioni armate. Proprio per questo motivo l’Isis non rivendica mai attentati compiuti da singoli individui non inseriti in una rete riconosciuta.
Sempre ieri è stato diffuso un video registrato da una dashcam, trasmesso da 7News, che mostra una violenta colluttazione tra Sajid Akram e un uomo in maglietta viola nei pressi di un ponte pedonale, poco prima dell’inizio della sparatoria. L’uomo e la donna presenti nella scena sono stati identificati come Boris e Sofia Gurman, coppia ebreo-russa residente a Bondi. Boris, 69 anni, e Sofia, 61, sono stati i primi a perdere la vita. Il loro tentativo disperato di fermare gli attentatori avrebbe però rallentato l’azione, contribuendo a salvare altre vite. Un dettaglio che restituisce tutta la drammaticità di una tragedia segnata dalle incredibili falle nella sicurezza.
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