2022-12-21
Ok controllare le Ong, ma non è detto funzioni
L’idea del governo è concedere il porto sicuro per lo sbarco delle navi solo dopo che i migranti a bordo abbiano chiesto asilo agli Stati di bandiera delle imbarcazioni. E cosa accade se i clandestini non avanzano domanda di protezione internazionale?È sicuramente da condividere l’idea di fondo che, stando alle informazioni finora disponibili, sembra sia alla base della nuova normativa che il governo sta predisponendo per regolare l’attività delle Ong dedite al soccorso in mare dei «migranti» provenienti soprattutto dalle coste libiche e per responsabilizzare gli Stati di bandiera delle navi dalle quali il soccorso è effettuato. Bisogna però essere consapevoli del fatto che ci si muove su un terreno cosparso di mine. Tra esse (tralasciando, per rimanere all’essenziale, tutte le altre) la più pericolosa è quella costituita dall’art.7, comma 2, del Regolamento europeo n. 604/2013 (attuativo dei cosiddetti «accordi di Dublino»), ai sensi del quale la determinazione dello Stato competente a provvedere sulle domande di protezione internazionale «avviene sulla base della situazione esistente al momento in cui il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale per la prima volta in uno Stato membro», cioè in uno Stato facente parte dell’Unione europea. Ciò significa che, se per una qualsiasi ragione, il «migrante» soccorso in mare da una nave Ong non battente bandiera italiana non presenta domanda di protezione internazionale quando è ancora a bordo della stessa nave, ma la presenta, per la prima volta, soltanto dopo che sia sbarcato sul territorio italiano, la competenza a provvedere su di essa resta inesorabilmente (salvo che si verifichi la ipotetica condizione di cui si dirà più oltre) a esclusivo carico dell’Italia. Ora, per evitare tale risultato, a ben poco servirebbe che si stabilisse (come pare che vorrebbe fare il governo) l’obbligo, per il comandante della nave soccorritrice (o per altro soggetto a ciò preposto) di interpellare ciascuno dei «migranti» soccorsi in mare perché manifesti l’eventuale intenzione di avanzare domanda di protezione internazionale, così da radicare, in caso positivo, la relativa competenza in capo allo Stato di bandiera della stessa nave. È evidente, infatti che se l’originario intento del «migrante» era quello di farsi accogliere, in qualità di richiedente asilo o protezione, nel nostro Paese (com’è nella maggior parte dei casi, sia pure in vista, sovente, della futura utilizzazione dell’Italia come base di partenza per altri Paesi dell’Unione europea), egli si guarderà bene dal rispondere positivamente al suddetto interpello ma aspetterà, per presentare la domanda, di aver toccato, in un modo o nell’altro, il territorio italiano. D’altra parte, è anche assai dubbio che l’Italia abbia titolo per imporre unilateralmente al comandante di una nave non battente bandiera italiana un obbligo come quello in discorso, in assenza di un accordo con le autorità dello Stato al quale la bandiera appartiene. Ed è pressoché certo che nessuno, tra gli Stati dell’Unione europea (e meno che mai tra quelli che di essa non facciano parte) si sognerebbe di addivenire a un tale accordo. E si deve poi aggiungere che, anche in caso contrario, rimarrebbe tuttavia impregiudicata la questione di quale dovrebbe essere lo Stato destinato ad accogliere, di fatto, i «migranti» che non avessero comunque intenzione di avanzare domanda di protezione internazionale. Con riguardo a essi, quindi, la situazione nella quale già oggi ci troviamo non subirebbe sostanziali cambiamenti. Altra sembrerebbe quindi la via da percorrere per cercare di ottenere un qualche utile risultato, muovendo dall’incontestabile presupposto che (come già più volte illustrato in articoli comparsi su La Verità, ultimo dei quali quello del 12 novembre scorso) né la «legge del mare» né i regolamenti e le direttive europee (ivi compreso il citato Regolamento n. 604/2013) ovvero altre norme o convenzioni internazionali impongono all’Italia l’obbligo giuridico di accogliere nel proprio territorio «migranti» che siano stati soccorsi in mare da navi di Ong non battenti bandiera italiana in una zona Sar di pertinenza di Paesi diversi dall’Italia ( tra i quali, quindi, anche la Libia, nella cui zona, com’è noto, viene in realtà effettuato il maggior numero dei salvataggi, veri o presunti che siano). Ne consegue che, in presenza di tali condizioni, l’Italia sarebbe pienamente legittimata a respingere l’eventuale richiesta di assegnazione del «porto sicuro», se non accompagnata dalla precisa assicurazione, da parte dello Stato di bandiera della nave soccorritrice, che esso si farà carico dell’accoglienza di tutti indistintamente i «migranti» ai quali sia consentito, nell’immediato, in accoglimento della suddetta richiesta, lo sbarco in un porto italiano; e ciò anche nel caso in cui sia da essi presentata alle autorità italiane domanda di asilo o protezione internazionale. Solo una tale assicurazione, infatti, consentirebbe all’Italia di pretendere, in base all’art. 21 del solito Regolamento n. 604/2013, che sia lo Stato dal quale essa è stata rilasciata a prendere in carico la domanda in questione. E in mancanza di essa soltanto quello Stato sarebbe, all’evidenza, da ritenere responsabile di ogni e qualsiasi evento dannoso subito dai migranti dei quali, a causa di detta mancanza, fosse stato rifiutato lo sbarco in territorio italiano. Seguendo quest’indirizzo non sarebbe, a rigore, neppure necessario adottare provvedimenti legislativi, con rischio, tra l’altro, che essi, alla prima occasione, cadessero sotto la mannaia della sempre vigile e occhiuta Corte costituzionale. Basterebbe, infatti, che la volontà del governo venisse espressa in una semplice nota diplomatica da inviare a tutti gli Stati sotto la cui bandiera operano le navi delle Ong. Sempre che poi, alla prova dei fatti, quella volontà non venisse meno; il che, purtroppo, specie in un Paese come il nostro, non potrebbe mai escludersi, ma sarebbe ragionevolmente sperabile che non avvenisse, almeno finché l’attuale governo resta in carica.Pietro Dubolino, Presidente di sezione a riposo della Corte di cassazione
Il giubileo Lgbt a Roma del settembre 2025 (Ansa)
Mario Venditti. Nel riquadro, da sinistra, Francesco Melosu e Antonio Scoppetta (Ansa)