Donald Trump (Ansa)
La Casa Bianca sarebbe pronta a fornire a Zelensky garanzie di sicurezza sul modello della Nato. Soluzione proposta a più riprese dal premier, contrario all’invio di militari. Intanto Erdogan, preoccupato per gli attacchi nel Mar Nero, rientra nel risiko ucraino.
C’è il fumo e c’è la sostanza. Il fumo, o addirittura l’aria fritta, sono le truppe che Emmanuel Macron sostiene di voler mandare in Ucraina, per presidiarla. La sostanza è la proposta italiana: garanzie di sicurezza sul modello dell’articolo 5 del Trattato Nato.
Insomma, se di nuovo attaccato, in soccorso del Paese di Volodymyr Zelensky scenderebbero gli Stati membri dell’Alleanza. Probabilmente - come nel caso dell’organizzazione nordatlantica - non ci sarebbero automatismi e sarebbero necessarie prima delle consultazioni politiche. La Russia, però, sarebbe avvisata. E la novità è che anche gli Stati Uniti, benché recalcitranti a impegnarsi per Kiev e per il Vecchio continente, hanno accolto il lodo Meloni.
Axios, citando fonti dell’amministrazione americana, ha scritto che la Casa Bianca sarebbe pronta a dare il suo assenso, sottoponendo comunque l’intesa al voto del Congresso. «Vogliamo offrire agli ucraini», ha dichiarato un funzionario Usa, «una garanzia di sicurezza che non sia un assegno in bianco da un lato, ma che sia sufficientemente solida dall’altro».
La definizione dello scenario postbellico sarebbe uno dei tre accordi da firmare separatamente: uno per la pace, uno per la sicurezza, uno per la ricostruzione. L’esponente dell’esecutivo statunitense considera positivo che, per la prima volta, la nazione aggredita abbia mostrato una visione per il dopoguerra. A dispetto dell’apparente stallo dei negoziati, peraltro, il collaboratore di Donald Trump ha riferito ad Axios che, negli Usa, l’apertura di Zelensky almeno a un referendum sullo status dei territori occupati viene considerata «un progresso». All’America sarebbe stato giurato che gli europei sosterrebbero il capo della resistenza, se decidesse di mandare in porto la consultazione.
Steve Witkoff e Jared Kushner si sarebbero confrontati su piano per creare una zona demilitarizzata a ridosso del fronte, insieme ai consiglieri per la sicurezza di Ucraina, Germania, Francia e Regno Unito. I passi avanti sarebbero stati tali da convincere Trump a spedire il genero e l’inviato speciale in Europa. Entrambi, in vista del vertice di domani, sono attesi oggi a Berlino per dei colloqui con rappresentanti ucraini e tedeschi. Domani, invece, i delegati di The Donald vedranno il cancelliere, Friedrich Merz, Macron e il premier britannico, Keir Starmer. Al summit parteciperanno anche altri leader Ue e Nato, tra cui Giorgia Meloni. Reduce, a questo punto, da un successo politico e diplomatico.
Un’accelerazione delle trattative potrebbe aiutarla a trarsi d’impaccio pure dalle difficoltà interne: i malumori della Lega per il decreto armi e l’intervento a gamba tesa del Colle sulla necessità di sostenere Kiev. La reprimenda di Sergio Mattarella poteva certo essere diretta contro il Carroccio, che infatti ieri ha risposto, con toni insolitamente duri, tramite Paolo Borchia: al capo dello Stato, ha lamentato l’eurodeputato, «piace far politica». A giudicare dai commenti di Matteo Salvini e Claudio Borghi, però, sembra improbabile una crisi della maggioranza. Ma la coincidenza davvero interessante è che l’inquilino del Quirinale ha pronunciato il suo discorso appena dopo il faccia a faccia tra Meloni e Zelensky, cui il nostro premier avrebbe fatto presente l’inevitabilità di «concessioni territoriali dolorose». Ieri è toccato ad Antonio Tajani smentire le presunte pressioni italiane affinché l’Ucraina accetti le condizioni del piano di Trump. «Sui territori», ha precisato il ministro degli Esteri, seguito a ruota da Guido Crosetto, «la decisione è solo degli ucraini». Fatto sta che, pure sull’utilizzo degli asset russi - una partita delicatissima, nella quale nemmeno la posizione della Germania è priva di ambiguità - Roma sta cercando di disinnescare le mine piazzate dalla Commissione europea, che sarebbero di intralcio alla pace.
Chi, intanto, si sta riaffacciando nella veste di mediatore è Recep Tayyip Erdogan. Teme che il Mar Nero, nel quale Ankara mantiene interessi vitali, diventi «un campo di battaglia», come ha detto ieri il Sultano. Non a caso, Kiev ha accusato Mosca di aver colpito un cargo turco che trasportava olio di girasole. Erdogan ha garantito che «la pace non è lontana» ed espresso apprezzamenti per l’iniziativa di The Donald. «Discuteremo il piano anche con il presidente degli Stati Uniti Trump, se possibile», ha annunciato. Con Vladimir Putin, ha aggiunto il presidente, «abbiamo parlato degli sforzi della Turchia per raggiungere la pace. Entrambi riteniamo positivo il tentativo di impostare un dialogo per porre fine al conflitto. Trump si è attivato e noi siamo al suo fianco, i nostri contatti con gli Usa sono continui».
Ieri, sono stati trasferiti in Ucraina quasi tutti i prigionieri liberati dalla Bielorussia in cambio dello stop alle sanzioni statunitensi, compresa l’oppositrice al regime Maria Kolesnikova. Pure questo è un piccolo segnale. Se ne attende qualcuno dall’Europa. Prima che la guerra diventi la sua tragica profezia che si autoavvera.
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Il trionfo globale del carbone. Assalto AI alle reti elettriche. Shale oil, parte il consolidamento negli USA. Aumentano i conflitti commerciali sulle risorse critiche. Volatilità sui mercati dei metalli.
Ansa
Il Papa difende la natività: «Un dono di luce per un mondo che ha bisogno di speranza». Invece «Avvenire», quotidiano della Cei, si interroga se essa debba includere migranti e «marginali» . Scordando l’unico elemento essenziale: il Mistero dell’Incarnazione.
Mentre papa Leone XIV ci dice che il presepe è «un dono di luce per il nostro mondo che ha tanto bisogno di poter continuare a sperare», nello stesso giorno il quotidiano dei vescovi italiani, Avvenire, dedica - con richiamo in prima - una pagina intera intitolata «Presepe, attualità o tradizione?», dove ci si interroga se quella ricostruzione ideata nel 1223 a Greccio da San Francesco sia ancora valida per il nostro tempo. E poi si chiedono, sempre i medesimi vescovi, dai più ai meno importanti, perché si svuotano le chiese e i fedeli appaiono disorientati... Mettiamo il caso di un fedele che sia abbonato ad Avvenire e anche a Vatican News che lo aggiorna sui pronunciamenti del Papa e, lo stesso giorno, legga ambedue. Capirete bene che o gli prende lo sconforto, o non ci capisce più nulla o ancora, consapevole che la Chiesa cattolica è gerarchica, dà ragione al Papa e se ne frega del dibattito di Avvenire. Soluzione, questa, più sana e più giusta.
Verrebbe da scherzarci su, invece vogliamo proporre qualche semplice riflessione che ci pare essenziale per capire di cosa si tratti. Il presepe rappresenta un fatto storico, quello della nascita di Gesù, cioè di Dio che si incarna nell’uomo. Com’è noto, su questo fatto storico ci sono anche delle testimonianze di autori non cristiani come lo storico ebreo Giuseppe Flavio, lo storico romano Tacito che conferma la condanna di Cristo sotto Pilato, e lo scrittore pagano Luciano di Samosata, e ci sono anche accenni nel Talmud babilonese.
Questi testi cosa ci dicono? Che Gesù è esistito e che quindi è nato, si tratta del cosiddetto Gesù storico. Il presepe rappresenta questa realtà storica: non un’altra, non qualcosa di simile, non qualcosa che ne deforma il significato unico e irripetibile. Dio si è incarnato in Gesù, in un momento storico preciso, in un luogo preciso, secondo le modalità descritte nei Vangeli e trasmesse a noi dalla Tradizione della Chiesa. Non c’è da girarci troppo intorno, né da fare tutto un ghirigoro di ragionamenti sulla sua attualità. L’unica domanda lecita è la seguente: è attuale l’Incarnazione di Dio in Gesù, nel Gesù che entra nella storia, uomo tra gli uomini e in Cristo, il Cristo della fede, che porta a compimento con la Croce e la Resurrezione la salvezza del mondo e dell’uomo?
Se è attuale questo - del resto è un fatto che si svolge nel tempo ma attiene all’eternità, e quindi come può essere inattuale qualcosa che ha a che fare con l’Eterno? - allora il presepe deve essere il presepe del quale gli elementi essenziali sono il padre e la madre di Gesù, Giuseppe e Maria, la stalla, il bue e l’asinello, e il bambino Gesù. Poi ci si può mettere dentro di tutto, e su questo avremmo molto da discutere, ma l’essenziale è, rimane e sarà sempre costituito dai cinque elementi che abbiamo elencato. Questa è la realtà, il resto è interpretazione.
In quelle (a nostro modo di vedere inutili, e forse dannose) pagine di Avvenire tale Vergottini, a proposito di interpretazioni creative del presepe, dopo aver sostenuto che «neppure i Vangeli forniscono una descrizione dettagliata della nascita di Gesù» (a quel tempo, caro Vergottini, non esistevano le cartelle cliniche, per cui non sappiamo l’ora esatta del parto, le ore di doglie e il tipo di nascita, magari avrebbe voluto sapere se sia stato podalico o di altro tipo...), ebbene, dopo questo, scrive che: «Il presepe, allora, rischia di diventare una cartolina sentimentale se non ritrova la sua forza originaria: deve sapere raccontare la vicenda di un Dio che entra nella storia reale, con le sue ferite e le sue speranze. Ecco perché molte comunità, in Italia e nel mondo, hanno cominciato a inserire nel presepe luoghi e persone dell’oggi: migranti stremati su una barca di legno, senzatetto accovacciati sotto un portico, famiglie in attesa di un permesso di soggiorno, infermieri che vegliano nella notte, e - perché no - quel branco di “ultimi” che nelle nostre città è sempre più affollato… Se il figlio di Dio nasce ai margini, allora i margini non sono un’aggiunta posticcia, ma la grammatica del suo venire».
Ci chiediamo, ma a parte i cosiddetti «Vangeli dell’infanzia», cioè Matteo e Luca, che si soffermano sulla nascita di Gesù, non c’è tutto il resto dei Vangeli e in generale del Nuovo Testamento che esplicitano, a partire dalla predicazione di Cristo, il significato di essa per coloro che sono gli ultimi della terra? Il dato fondamentale non è che Gesù si incarna ai margini, il dato fondamentale è che Gesù si incarna. Questo mistero incomprensibile a tutto il pensiero antecedente all’Incarnazione stessa, il mistero di Dio che si fa uomo e assume la natura umana pur rimanendo Dio, riteniamo che sia il nocciolo fondamentale da predicare, altrimenti si fa anche dell’Incarnazione un messaggio socioeconomico che offusca il messaggio teologico, scandaloso per tutto il pensiero umano e anche per la filosofia greca che precedette questo atto di Dio: un Dio che si fa uomo rimanendo Dio. Tutto questo è nel presepe. Non basta? Non sarebbe meglio predicare questo aspetto del Mistero di Dio-Uomo?
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Kaja Kallas (Ansa)
I commissari europei per gli Affari esteri sono sempre state figure irrilevanti nello scenario globale. Pur rappresentando quasi mezzo miliardo di persone e 27 Paesi, tra cui alcune delle principali economie mondiali, il loro parere conta meno di zero.
Non parlo di Federica Mogherini, un peso piuma dei rapporti internazionali che solo ora - a causa dell’inchiesta che ha portato al suo fermo giudiziario - è riemersa dal limbo in cui era confinata dopo la fine della sua carriera politica. No, penso anche a Lady Ashton o Josep Borrell, il predecessore dell’attuale commissario Kaja Kallas: di loro, del loro ruolo nelle diverse crisi che si sono succedute, non resta traccia.
Tuttavia, credo che in fatto di ininfluenza, e soprattutto di incapacità di guardare in faccia la realtà, la donna che oggi si occupa delle relazioni Ue nel mondo superi chiunque l’ha preceduta. Figlia d’arte, perché il padre fu un politico che traghettò l’Estonia dal comunismo all’ingresso nella Ue, lei stessa in passato alla guida del suo Paese, la Kallas è stata indicata da Tallin nella Commissione europea, con l’incarico di rappresentare la Ue nel mondo. Peccato che spesso dimostri di non capire molto di diplomazia e neppure di equilibri internazionali. Ne ha dato prova più volte, anche durante il periodo più complicato dei rapporti tra Ue e Stati Uniti, quando Donald Trump impose i dazi. Tuttavia, la Kallas si supera quando parla di Russia, come ha fatto in questi giorni concedendo un’intervista al Corriere della Sera. Volendo inserirsi nel dibattito sulla difficile trattativa per giungere a un cessate il fuoco in Ucraina, l’alto rappresentante per la politica estera e per la sicurezza comune dell’Unione europea, ha spiegato che per garantire la pace occorre limitare l’esercito russo e contenere il budget militare di Mosca. Ovvio, se vuoi impedire a un Paese di minacciare quelli che lo circondano devi proibirgli di armarsi fino ai denti. È quello che è successo alla fine della Seconda guerra mondiale con la Germania e il Giappone. A entrambi i Paesi fu negata la possibilità di avere un esercito organizzato e anche di possedere la bomba atomica. Ma si dà il caso che sia Berlino che Tokyo fossero stati sconfitti e dunque, insieme alle sanzioni di guerra alle due ex superpotenze economiche e militari, i vincitori imposero misure ferree.
Peccato che la Russia non sia stata sconfitta. Non dico che abbia vinto la guerra, ma di certo non l’ha persa. Dunque, come si fa a imporre delle sanzioni a chi in questo momento si sente forte e a cui si chiede di cessare il fuoco? Come si può ottenere di limitare esercito o budget militare di un Paese che ritiene di essere in grado di continuare la guerra e raggiungere i suoi scopi? Anche un bambino capirebbe che non ci sono le condizioni per pretendere di sedersi a un tavolo di pace imponendo delle sanzioni. Siccome io non penso che Kaja Kallas non sia in grado di comprendere ciò che è chiaro a un ragazzino di prima media, penso che l’alto rappresentante degli Affari esteri della Ue semplicemente non voglia raggiungere alcuna intesa con Mosca. E la capisco anche. Tutti i Paesi baltici, Estonia dunque compresa, hanno una fifa blu di Putin. Avendo conosciuto il comunismo, sanno che non ci si può fidare e soprattutto vorrebbero che la Russia fosse sconfitta una volta per tutte per consentire a loro di vivere tranquilli. Ma sconfiggere una potenza nucleare, per quanto indebolita, non è la cosa più semplice del mondo e anzi si rischia di far scoppiare una guerra peggiore di quella che i Paesi baltici vorrebbero evitare. I politici lituani, estoni, lettoni, insieme a quelli polacchi e ucraini non vogliono tornare sotto il tallone di Mosca e si comprende il perché. Però capisco anche la maggioranza degli italiani che non vuole finire nel mezzo di una guerra con la Russia. Hai voglia a dirgli che si deve scegliere tra libertà e aria condizionata, come spiegò Mario Draghi o, come di recente ha chiarito Sergio Mattarella al corpo diplomatico, che «c’è bisogno di una pace equa, giusta e duratura, rispettosa del diritto internazionale, dell’indipendenza, della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina». Se questo significa armarsi e partire, credo che gran parte dei cittadini del nostro Paese non sia né pronto né d’accordo.
Gli ucraini, con gli estoni, i lettoni, i lituani, i polacchi e i finlandesi vorrebbero che la Nato, ma soprattutto l’Europa, sconfiggesse la Russia, così da renderla inoffensiva. Però questo, appunto, vorrebbe dire entrare in guerra, con ciò che consegue. Sono gli ex Paesi dell’Est, rappresentati da politici tipo la Kallas, insieme ad alcuni «volenterosi» in crisi di consenso, a spingerci verso un conflitto. Uno scontro tra Europa e Russia significherebbe l’inizio di una nuova guerra mondiale, che coinvolgerebbe giocoforza gli alleati di Putin. Un rischio che non è così lontano, perché a forza di giocare con il fuoco, come dimostra la storia passata, un conflitto può scoppiare senza che quasi nessuno lo abbia deciso. È quello che è successo nel 1915 e a innescare la guerra bastò un casus belli come l’omicidio dell’erede al trono austro-ungarico. Dunque, io andrei piano con l’idea di battere la Russia e minacciare un intervento della Nato o dell’Europa. Così come ci penserei bene prima di usare i fondi congelati di Mosca per finanziare Kiev e acquistare altre armi. Perché di un conflitto si conosce l’inizio, ma quando si entra in guerra nessuno sa quale sarà la fine. Soprattutto, è impossibile prevedere se vinceranno gli aggrediti o gli aggressori, i buoni o i cattivi.
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