Ansa
Niente carcere per Sandro Mugnai, l’uomo che nell’Epifania del 2023 reagì sparando all’aggressione di un conoscente albanese che tentava di buttargli giù la casa per delle banali ruggini. Fortunatamente, ogni tanto i magistrati scelgono il buon senso.
Nel gennaio 2023 fu costretto a sparare quattro colpi di fucile perché il vicino di casa albanese, Gezim Dodoli, dopo aver ammassato le auto dei suoi familiari in un angolo del piazzale, con la benna di una ruspa tentava di abbattere il casolare di campagna che aveva appena ristrutturato sui colli di Arezzo. Dopo i primi scossoni, mentre i muri cominciavano a sgretolarsi, temette di restare sotto le macerie con i suoi cari e tirò il grilletto, freddando l’aggressore.
La dinamica, ricostruita nelle perizie, avrebbe confermato che l’azione della ruspa aveva compromesso la struttura dell’edificio. Ma oltre a trovarsi davanti quel «mezzo di irresistibile forza», così è stata giuridicamente valutata la ruspa, si era messa di traverso pure la Procura, che aveva chiesto ai giudici di condannarlo a 4 anni di carcere. Ma ieri Sandro Mugnai, artigiano aretino accusato di omicidio volontario per essersi difeso, mentre ascoltava le parole del presidente della Corte d’assise si è messo le mani sul volto ed è scoppiato a piangere. Il fatto non sussiste: fu legittima difesa. «Finalmente faremo un Natale sereno», ha detto poco dopo, aggiungendo: «Sono stati anni difficili, ma ho sempre avuto fiducia nella giustizia. La Corte ha agito per il meglio». E anche quando la pm Laura Taddei aveva tentato di riqualificare l’accusa in eccesso colposo di legittima difesa, è prevalsa la tesi della difesa: Mugnai sparò perché stava proteggendo la sua famiglia da una minaccia imminente, reale e concreta. Una minaccia che avanzava a bordo di una ruspa. La riqualificazione avrebbe attenuato la pena, ma comunque presupponeva una responsabilità penale dell’imputato. Il caso, fin dall’inizio, era stato definito dai giuristi «legittima difesa da manuale». Una formula tanto scolastica quanto raramente facile da dimostrare in un’aula di Tribunale. La giurisprudenza richiede il rispetto di criteri stringenti: attualità del pericolo, necessità della reazione e proporzione. La sentenza mette un punto a un procedimento che ha riletto, passo dopo passo, la notte in cui l’albanese entrò nel piazzale di casa Mugnai mentre la famiglia era riunita per la cena dell’Epifania. Prima sfogò la ruspa sulle auto parcheggiate, poi diresse il mezzo contro l’abitazione, sfondando una parte della parete. La Procura ha sostenuto che, pur di fronte a un’aggressione reale e grave, l’esito mortale «poteva essere evitato». Il nodo centrale era se Mugnai avesse alternative non letali. Per la pm Taddei, quella reazione, scaturita da «banali ruggini» con il vicino, aveva superato il limite della proporzione. I difensori, gli avvocati Piero Melani Graverini e Marzia Lelli, invece, hanno martellato sul concetto di piena legittima difesa, richiamando il contesto: buio, zona isolata, panico dentro casa, il tutto precipitato «in soli sei minuti» nei quali, secondo gli avvocati, «non esisteva alcuna alternativa per proteggere i propri cari». Durante le udienze si è battuto molto sul fattore tempo ed è stata dimostrata l’impossibilità di fuga. Nel dibattimento sono stati ascoltati anche i familiari della vittima, costituiti parte civile e rappresentati dall’avvocato Francesca Cotani, che aveva chiesto la condanna dell’imputato. In aula c’era molta gente e anche la politica ha fatto sentire la sua presenza: la deputata della Lega Tiziana Nisini e Cristiano Romani, esponente del movimento Il Mondo al contrario del generale Roberto Vannacci. Entrambi si erano schierati pubblicamente con Mugnai. Nel paese c’erano anche state fiaccolate e manifestazioni di solidarietà per l’artigiano. Il fascicolo era passato attraverso momenti tortuosi: un primo giudice non aveva accolto la richiesta di condanna a 2 anni e 8 mesi e aveva disposto ulteriori accertamenti sull’ipotesi di omicidio volontario. Poi è stata disposta la scarcerazione di Mugnai. La fase iniziale è stata caratterizzata da incertezza e oscillazioni interpretative. E, così, alla lettura della sentenza l’aula è esplosa: lacrime, abbracci e applausi. Mugnai, commosso, ha detto: «Ho sparato per salvare la pelle a me e ai miei cari. Non potrò dimenticare quello che è successo, ora spero che possa cominciare una vita diversa. Tre anni difficili, pesanti». Detenzione preventiva compresa. «Oggi è un giorno di giustizia. Ma la battaglia non è finita», commenta Vannacci: «Mugnai ha fatto ciò che qualunque padre, marito, figlio farebbe davanti a un’aggressione brutale. È una vittoria di buon senso, ma anche un segnale, perché in Italia c’è ancora troppo da fare per difendere le vere vittime, quelle finite sotto processo solo perché hanno scelto di salvarsi la vita. E mentre oggi festeggiamo questo risultato, non possiamo dimenticare chi non ha avuto la stessa sorte: penso a casi come quello di Mario Roggero, il gioielliere piemontese condannato a 15 anni per aver difeso la propria attività da una rapina». «La difesa è sempre legittima e anche in questo caso, grazie a una legge fortemente voluta e approvata dalla Lega, una persona perbene che ha difeso se stesso e la sua famiglia non andrà in carcere, bene così», rivendica il segretario del Carroccio Matteo Salvini. «Questa sentenza dimostra come la norma sulla legittima difesa tuteli i cittadini che si trovano costretti a reagire di fronte a minacce reali e gravi», ha precisato il senatore leghista (componente della commissione Giustizia) Manfredi Potenti. La vita di Sandro Mugnai ricomincia adesso, fuori dall’aula. Ma con la consapevolezza che, per salvare se stesso e la sua famiglia, ha dovuto sparare e poi aspettare quasi tre anni perché qualcuno glielo riconoscesse.
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Maurizio Landini (Ansa)
Dietro l’imbarazzo tutti i problemi in Regione: la sigla è egemonizzata da estremisti. Tra i dirigenti volano i coltelli: insulti e attacchi in una chat della Filcams finiscono a carte bollate. E c’è pure chi si inventa attentati.
Botte e insulti (con condanne in Tribunale) tra sindacalisti. Succede anche a questo a Genova, in un periodo in cui la città fibrilla per il rischio chiusura dell’acciaieria ex Ilva di Cornigliano. Il segretario generale della Uilm Luigi Pinasco e tre colleghi, ieri, sono stati presi a calci e pugni da una ventina di persone con la felpa rosso-nera della Fiom. È successo a Genova, di mattina presto. Una scena che ricorda una delle tante cronache di giornata sui maranza o sugli ultrà. Non quelle che riguardano chi dovrebbe tutelare i diritti dei lavoratori. Due persone sono finite in ospedale. Perché? Per la mancata adesione della Uilm allo sciopero generale dei metalmeccanici genovesi sulla vertenza ex Ilva. I colpevoli sono i «militanti di Lotta comunista che vogliono avere l’egemonia all’interno della Fiom», accusa il segretario generale della Uil Liguria, Riccardo Serri, in una conferenza stampa nel pomeriggio.
«Sono stati circondati dopo che il segretario della Fiom ha incitato i nostri segretari e delegati ad andare via», continua Serri, «una violenza gravissima che dev’essere condannata, ma ad ora non abbiamo ricevuto nemmeno un segno di solidarietà da parte della Cgil, anzi abbiamo visto le dichiarazioni di Maurizio Landini e Michele De Palma che non condannano ma sostengono che i nostri iscritti non dovevano presentarsi all’ingresso dell’ex Ilva». Una cosa grave. «C’è una responsabilità morale di chi continua a non condannare l’aggressione» ha aggiunto il leader della Uilm ligure. «Se non c’è una condanna vuol dire che c’è una strategia dietro come noi pensiamo, una strategia di essere i primi, di predominare, di fare solo confusione, una strategia della violenza».
La mancata solidarietà tuttavia deriverebbe proprio dal problema denunciato da Serri, ovvero che Lotta comunista sta prendendo piede all’interno delle tute blu della Cgil e che Landini non possa condannare per evitare che si scopra l’indicibile: il segretario generale del sindacato principale italiano non controlla i metalmeccanici di Genova. Non proprio una bella figura per un leader che viene proprio dalla Fiom.
Lotta comunista nasce nel 1965 a Genova, messa in piedi da Arrigo Cervetto e Lorenzo Parodi, ex militanti dell’area anarchica e libertaria, poi approdati al leninismo. Il riferimento è esplicito: Marx, Engels e Lenin come cassetta degli attrezzi teorica, il partito bolscevico come modello organizzativo. Ma senza avventure armate: a differenza di altri gruppi extraparlamentari, Lotta comunista non ha mai appoggiato l’uso della P38, sostenendo che «la rivoluzione non può effettuarsi senza la crisi del capitalismo a livello globale». La linea è costruire un partito leninista nelle aree industriali chiave (Genova e il triangolo del Nord) e farlo con una macchina militante e un giornale omonimo, pubblicato ininterrottamente dal 1965 e autofinanziato. Dalle cronache recenti si evince, però, che ad alcuni suoi militanti prudono le mani: il 23 maggio 2024 un gruppo di militanti ha aggredito alcuni studenti accampati alla Sapienza di Roma, in protesta contro la rettrice e gli accordi con le università israeliane. Una contraddizione vistosa per chi, per decenni, ha rivendicato rigore teorico e disciplina politica.
Per Landini tuttavia non c’è solo la grana «tute blu». Il 15 aprile scorso, a Sestri Ponente, il sindacalista della Fillea, Fabiano Mura, denunciò un’aggressione fascista, scatenando cortei, solidarietà politica e titoli indignati. Le indagini della Digos, però, hanno smontato pezzo per pezzo il suo racconto: orari incompatibili, auto ferma in garage, nessuna fuga, niente pestaggio. Mura ha ammesso in Procura di aver inventato tutto ed è finito indagato per simulazione di reato. Un mese fa il giudice lo ha ammesso alla prova e il sindacalista ha evitato il processo. Resta la figuraccia, che il sindacato finge di non vedere. Imbarazzo anche alla Filcams, la sigla che raduna i lavoratori del commercio, del turismo e dei servizi, dove non tira una bella aria. Per circa quattro mesi l’ex segretario organizzativo della Filcams locale è stato preso di mira su una chat di gruppo da alcuni colleghi. Un crescendo di insulti e attacchi personali, un vero e proprio body shaming, che il poveretto ha provato a interrompere rappresentando la questione ai piani alti della Cgil a Roma e scrivendo direttamente a Landini. Senza ottenere soddisfazione.
La vittima ha raccontato al Secolo XIX: «Confidavo nel fatto di poter lavare i panni sporchi in casa, ma non è stato possibile. Una realtà come la nostra, che giustamente condanna certi comportamenti nelle aziende, dovrebbe risolvere questo genere di comportamenti al proprio interno. Eppure ho dovuto cercare giustizia altrove». Assistito dall’avvocato Antonio Rubino ha sporto denuncia contro quattro colleghi. È partito così un procedimento per diffamazione semplice che si è chiuso con il pagamento di 2.400 euro da parte dei quattro imputati. Una cifra che Mascia non ha ritenuto soddisfacente, ma il giudice di pace Rita Taglialatela sì e per questo ha dichiarato l’estinzione del reato «per intervenuta riparazione del danno», una soluzione prevista dalla Riforma Cartabia. «La questione economica per me non è importante» ha spiegato Mascia, in pensione dopo quarant’anni di impegno sindacale. «Avevo già chiesto loro le scuse su quella chat e non sono arrivate. A questo punto continuerò a portare avanti la mia battaglia con una causa civile».
Mascia aveva denunciato presunte problematiche interne alla Filcams genovese e dall’agosto del 2021 era stato distaccato alla Cgil confederale genovese. Una decisione che gli aveva fatto guadagnare l’ostilità di alcuni colleghi. E così, in quel periodo di allontanamento, anche per un presunto equivoco (non aveva partecipato al funerale di un famigliare di un collega), era stato coperto di insulti nella chat a cui partecipavano una ventina di dipendenti della Filcams, ma non più lui, che così non aveva potuto replicare. Ma era stato informato di quanto stava accadendo da alcuni amici. Aveva così potuto leggere, negli screenshot ricevuti, amenità come quelle riportate nella sentenza del giudice: «Pezzo di m. puzzolente, vieni quando ci sono io»; «ti ho scorrazzato uomo di m.»; «senza palle di m.»; «sei piccolo piccolo e tinto»; «la spazzatura si accoppia con la rumenta»; «metti due cacche così ti inguai stasera dai»; «va’, dai le metto», seguito da sette emoticon raffiguranti delle feci. Un tiro al bersaglio che ha portato alla sbarra Giovanni Bucchioni, Marco Carmassi, Fabio Piccini e Patrizia Geminiani. «Il primo aprile del 2022 sono stato convocato a Roma dalla segreteria nazionale Filcams e ho esposto le problematiche che avevo sollevato e ho mostrato gli screenshot dei messaggi, spiegando che non essendo nella chat non potevo nemmeno difendermi» ha detto sempre al Secolo XIX Mascia. «Lo stesso materiale l’ho inviato anche alla segreteria nazionale della Cgil all’attenzione del segretario nazionale». L’ex sindacalista si è anche rivolto alla Commissione di garanzia Nord Ovest chiedendo un’ispezione. Inutilmente. Al punto che a maggio del 2022 sono arrivati altri insulti, questa volta da parte della Geminiani. Mascia, a questo punto, ha fatto denuncia e ha ottenuto una vittoria che ritiene parziale.
Ma la sua vicenda è servita ad aprire un altro squarcio su un ambiente, quello della Cgil genovese, che non è esagerato definire tossico.
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2025-12-06
Non Sparate sul Pianista | Mattioli: «Alla Scala Una Lady Macbeth capace di far paura a Stalin»
Carlo Melato continua a dialogare con il critico musicale Alberto Mattioli, aspettando la Prima del 7 dicembre del teatro alla Scala di Milano. Tra i misteri più affascinanti del capolavoro di Shostakovich c’è sicuramente il motivo profondo per il quale il dittatore comunista fece sparire questo titolo dai cartelloni dell’Unione sovietica dopo due anni di incredibili successi.
Cullhaj Ergren, di origini albanesi, ritenuto tra i responsabili dell'omicidio di Pietro Raccagni, il macellaio di Pontoglio (Brescia) morto 11 giorni dopo (Ansa)
Ai famigliari di Pietro Raccagni, macellaio bresciano assassinato da una banda di rapinatori entrata di notte in casa sua, i giudici hanno concesso un risarcimento di 7.000 euro. Quelli di Giovanni Veronesi, gioielliere massacrato con 42 colpi di cacciavite da un malvivente, sono invece stati risarciti a spese dello Stato: 50.000 euro da dividersi fra il figlio e la sorella del povero commerciante.
Ai parenti dei rapinatori che assaltarono il negozio di Mario Roggero a Grinzane Cavour, minacciando moglie e figlia dell’orefice, invece è stato concesso un risarcimento di 480.000 euro, dieci volte di più di quello stabilito per gli eredi di Veronesi. Ma attenzione: oltre a essere stato condannato a 14 anni e 9 mesi di carcere per aver inseguito i malavitosi, sparando e uccidendone due, Roggero dovrà mettere mano ancor di più al portafoglio, per pagare le spese legali e per soddisfare le richieste che le famiglie dei banditi certamente presenteranno in sede civile. Nel processo che si è appena concluso avevano avanzato pretese per quasi tre milioni e c’è da giurare che una volta incassato l’assegno da quasi mezzo milione pretenderanno il resto. In pratica, per aver reagito all’assalto, il gioielliere di Grinzane Cavour finirà sul lastrico e con lui la sua famiglia. «Io sono la vera vittima», dice nelle interviste.
E questa è forse la sua vera colpa. Invece di tacere e di presentarsi in tribunale con il ciglio umido, chiedendo perdono, Roggero continua a sostenere di aver reagito per legittima difesa. La moglie e la figlia erano minacciate e lui stesso si era visto puntare un’arma. Difficile dargli torto. Soprattutto è impossibile non capire l’esasperazione di chi è stato vittima di altri assalti e di chi si vede non soltanto rapinato per l’ennesima volta, ma teme per l’incolumità dei propri famigliari. Come si fa a non tener conto dello shock e della reazione emotiva di una persona che vede in pericolo di vita moglie e figlia? Come si fa a non comprendere che la lucidità e la freddezza in certe condizioni vengono meno e non si può calcolare il ritorno a un controllo di sé stesso in pochi istanti. Il turbamento per la minaccia subita è tale che non scompare solo perché i rapinatori hanno voltato le spalle. Per quel che mi riguarda non ho mai impugnato un’arma, se non una volta al poligono di tiro, quando ero militare. Tuttavia, non so che cosa potrei fare se vedessi minacciate le persone a me care. Se avessi una pistola potrei sparare? Probabilmente sì e certo la sensazione di pericolo che mi spingerebbe a reagire non si esaurirebbe solo perché i delinquenti stanno fuggendo.
Ha ragione Roggero: lui è la vera vittima. Perché per aver reagito ai rapinatori è stato condannato a quasi 15 anni. E perché, oltre a dover rimanere dietro le sbarre fino a quando avrà 85 anni, ha visto andare in fumo il lavoro di una vita: il suo negozio, i suoi risparmi, la sua famiglia. Io non so se sia la legge a essere sbagliata oppure se siano i giudici ad averla applicata male. Sta di fatto che ora serve un provvedimento che tenga conto delle ragioni delle vittime e non di quelle dei delinquenti. Si può discutere fin che si vuole, ma un gioielliere che ha reagito a una rapina non può finire in galera e nemmeno lo si può condannare a rimborsare i parenti di chi ha deciso di rapinarlo. Un malvivente che entra armi in pugno in un negozio mette in conto di ammazzare una persona o di essere ammazzato. È lui ad accettare il rischio di finire sottoterra o di farci finire un innocente. Non si può rovesciare la responsabilità su chi ha deciso di non arrendersi all’aggressione. Ad Arezzo il tribunale ha riconosciuto la legittima difesa di un uomo che ha sparato, uccidendolo, a un tizio che con la ruspa voleva demolire la sua casa con tutta la famiglia dentro. L’uomo che ha usato il fucile probabilmente non rischiava la vita, ma si è sentito minacciato e ha pensato che anche i suoi famigliari fossero a rischio. In questo caso ha vinto il buon senso. In quello di Roggero invece purtroppo ha vinto la delinquenza.
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