David Neres festeggia con Rasmus Hojlund dopo aver segnato il gol dell'1-0 durante la semifinale di Supercoppa italiana tra Napoli e Milan a Riyadh (Ansa)
Nella prima semifinale in Arabia Saudita i campioni d’Italia superano 2-0 i rossoneri con un gol per tempo di Neres e Hojlund. Conte: «Vincere contro un top team dà fiducia, entusiasmo e consapevolezza». Allegri: «Il Napoli ha meritato perché ha difeso molto meglio di noi. Dobbiamo migliorare la fase difensiva, è lì che nascono le difficoltà».
È il Napoli la prima finalista della Supercoppa italiana. All’Alawwal Park di Riyadh, davanti a 24.941 spettatori, i campioni d’Italia superano 2-0 il Milan al termine di una semifinale mai realmente in discussione e torneranno lunedì nello stadio dell’Al Nassr per giocarsi il primo trofeo stagionale contro la vincente di Bologna-Inter, in programma domani sera.
Decidono un gol per tempo di Neres e Hojlund, protagonisti assoluti di una gara che la squadra di Antonio Conte ha interpretato con maggiore lucidità, intensità e qualità rispetto ai rossoneri. Il pubblico saudita, arrivato a scaglioni sugli spalti come da consuetudine locale, si è acceso soprattutto per Luka Modric durante il riscaldamento, più inquadrato sugli smartphone che realmente seguito sul campo, ma alla lunga è stato il Napoli a prendersi scena e risultato. Un successo meritato per i partenopei che rispetto al Milan hanno dimostrato di avere più idee e mezzi per colpire.
Conte ha scelto la miglior formazione possibile, confermando il 3-4-2-1 con l’unica eccezione rispetto alle ultime gare di campionato che riguarda il ritorno tra i titolari di Politano al posto di Lang. Davanti la coppia McTominay-Neres ad agire alle spalle di Hojlund. Ed è stato proprio il centravanti danese uno dei protagonisti del match e della vittoria del Napoli, mettendo lo zampino in entrambi i gol e facendo impazzire in marcatura De Winter. L’ex difensore del Genoa è stato scelto da Allegri come perno della difesa a tre per sostituire l'infortunato Gabbia, un’assenza che alla fine dei conti si è rivelata più pesante del previsto. Ma se quella del difensore centrale era praticamente una scelta obbligata, il turnover applicato in mezzo al campo e sulla corsia di destra non ha restituito gli effetti desiderati. Nel solito 3-5-2 hanno trovato spazio dal primo minuto anche Jashari e Loftus-Cheek, titolari al posto di Modric e Fofana, ed Estupinan per far rifiatare Bartesaghi, uno degli uomini più in forma tra i rossoneri.
Il Napoli ha preso infatti fin da subito l’iniziativa, con Elmas al tiro già al 2’ e con Maignan attento a bloccare senza problemi. Il Milan ha poi avuto due ghiotte occasioni: al 5’ sugli sviluppi di una rimessa laterale Pavlovic ha tentato una rovesciata, il pallone è arrivato a Loftus-Cheek che, solo davanti a Milinkovic-Savic, ha mancato incredibilmente l’impatto; al 16' Saelemaekers ha sprecato calciando alto da buona posizione. È l’illusione rossonera, perché da quel momento sono i partenopei a comandare il gioco. Al 32' McTominay ha sfiorato il vantaggio con un destro di prima poco fuori, mentre Nkunku al 37’ ha confermato il suo momento negativo non inquadrando nemmeno la porta a conclusione di un contropiede che poteva cambiare la partita. Partita che è cambiata in maniera decisiva due minuti dopo, al 39’, quando è arrivato il gol che ha sbloccato la semifinale: da un'azione insistita di Elmas sulla sinistra, il pallone è arrivato a Hojlund il cui tiro in diagonale ha messo in difficoltà Maignan. La respinta troppo corta del portiere francese è finita sui piedi di Neres, il più rapido ad avventarsi sul pallone e a depositarlo in rete. Il Napoli è andato vicino al raddoppio già prima dell’intervallo con un altro contropiede orchestrato da Elmas e concluso da Hojlund, su cui Maignan ha dovuto compiere un mezzo miracolo.
Nella ripresa il copione non è cambiato. Rrahmani ha impegnato ancora Maignan da fuori area, poi al 64’ è arrivato il 2-0 che ha chiuso la partita: Spinazzola ha affondato a sinistra e servito Hojlund, veloce e preciso a finalizzare con freddezza, firmando così una prestazione dominante contro un De Winter in grande difficoltà. Allegri ha provato a cambiare volto alla gara passando al 4-1-4-1 con l’ingresso di Fofana e Athekame, ma il Milan non è riuscito di fatto mai a rientrare davvero in partita. Anzi. Al 73' uno scatenato Hojlund ha sfiorato la doppietta personale. Poi, al 75', il Milan ha regalato alla parte di stadio rossonera la gioia più grande di tuta la serata, ovvero l'ingresso in campo di Modric. Il croato è entrato tra gli applausi del pubblico, ma è solo una nota di colore in una serata che resta saldamente nelle mani del Napoli. Nel finale spazio anche a qualche tensione, sia in campo che in panchina. Prima le scintille tra Tomori e McTominay, ammoniti entrambi da Zufferli. Poi, in pieno recupero, un battibecco verbale tra Oriali e Allegri. E mentre scorrevano i sette minuti di recupero concessi dal direttore di gara, accompagnato dal coro dei tifosi sauditi di fede azzurra «Siamo noi, siamo noi, i campioni dell’Italia siamo noi», è arrivato il verdetto definitivo.
Nel post partita Massimiliano Allegri ha riconosciuto i meriti degli avversari: «Il Napoli ha meritato perché ha difeso molto meglio di noi. Dobbiamo migliorare la fase difensiva, è lì che nascono le difficoltà». Sull’eliminazione da Coppa Italia e Supercoppa è stato netto: «Siamo dispiaciuti, ma il nostro obiettivo resta la qualificazione in Champions, che è un salvavita per la società». Di tutt’altro tono Antonio Conte, soddisfatto della risposta della sua squadra: «Battere il Milan fa morale. Vincere contro un top team dà fiducia, entusiasmo e consapevolezza. Con energia, anche in emergenza, siamo difficili da affrontare». Parole di elogio per Hojlund: «Ha 22 anni, grandi margini di crescita e oggi è stato determinante. Sta capendo sempre di più quello che gli chiedo».
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Luigi Campedelli (Ansa)
In un libro il presidente dei clivensi confessa le sue verità: la squadra di quartiere che aveva fatto un miracolo sparì sommersa dai debiti, ma anche perché non aveva protezione politica. Dai dilettanti alla Uefa fino al tentato suicidio. Lotito? «Non un amico».
Mai smettere di sognare. Sorrentino tra i pali. Yepes, Maran, D’Angelo, D’Anna in difesa. Corini, Perrotta, Eriberto (o se preferite Luciano) e Franceschini a centrocampo. Pellissier e Cossato in attacco. Alzi la mano il tifoso che non ha mai giocato a «la migliore formazione di sempre». Questa l’ha immaginata direttamente Luigi Campedelli, patron del Chievo Verona, dalle stalle alle stelle e poi di nuovo alle stalle. Attualmente è ancora sotto processo e ha perso il club che gli aveva lasciato suo padre. Ha tentato il suicidio, poi si è rialzato. E ora racconta in un libro l’incredibile cavalcata di una squadra di quartiere, fino al crollo per i debiti con il Fisco nel 2020. Si proclama vittima del sistema calcio. Un sistema che prima ha cavalcato la ventata di aria fresca rappresentata da quella squadra di underdog totali, con allenatori visionari come Gigi Delneri, Alberto Malesani e Rolando Maran, e che poi, al primo rovescio, ha calato la scure del fairplay finanziario su un club che non aveva le coperture politiche di una Lazio, capace di ottenere dal governo Berlusconi-Fini il decreto spalma-debiti, con i tifosi biancazzurri che assediarono gli uffici dell’Agenzia delle entrate all’Eur.
Il Chievo era una di quelle storie che sembrano possibili solo nel calcio inglese. Una storia finalmente pulita, in uno sport distrutto dai procuratori e dove a fine stagione, specie nelle serie minori, si assiste a partite assurde, arbitraggi discutibili, squadre che salgono e scendono di categoria senza una logica apparente. Il tutto tra un fiume di nero e di milioni senza un padre certo. Ma la passione è tanta e quando sembra di vedere un calcio antico diventa ancora più forte. Il Chievo è piaciuto subito a tutti. Merito della famiglia Paluani, quella dei pandori, e di Luca Campedelli, che ha scelto di raccontarsi in un libro scritto da Fabiana Della Valle e Raffaele Tomelleri (Chievo, un delitto perfetto, People). Diciamolo subito: non ha la forza di un Giuseppe Gazzoni Frascara, il patron del Bologna morto nel 2020 e che ha subito varie ingiustizie, ma il racconto di Campedelli è comunque interessante e ricco di aneddoti, uniti da un filo rosso che non è una risposta ma una domanda. Una domanda che quasi ossessiona l’ex presidente: perché chi conta nel calcio italiano non ha fatto nulla per salvare il Chievo? Gli si potrebbe rispondere, un po’ meschinamente, che là fuori, fuori dal pallone, chi non paga le tasse e i contributi, finisce a gambe all’aria. E non vale nascondersi dietro ai tifosi-elettori. Ma la difesa di Campedelli è duplice: da un lato si va in apnea finanziaria quando scendi di categoria (magari ingiustamente, all’ultima giornata), dall’altro «così fan tutti» e i clivensi hanno pagato caro più di tanti altri.
Scorrendo le pagine di Chievo, un delitto perfetto, si rivive lo shock della morte per infarto di Gigi Campedelli, il carismatico padrone della Paluani e di quel Chievo che per i cugini ricchi dell’Hellas era già tanto che frequentasse la serie D. Alla sua morte, a settembre del 1992, il figlio Luca prende le redini della squadra e l’altro figlio resta in azienda. Sotto la guida di Luca, il Chievo diventa l’unico club che partendo dai campionati regionali arriva in Europa. Campedelli junior accetta di farsi guidare da Giovani Sartori, ex calciatore clivense, come direttore sportivo e insieme indovinano la scelta del primo allenatore, Alberto Malesani, scalando le serie fino alla B. Nella stagione 2000-2001, il Chievo passa sotto la guida di un grandissimo allenatore, Luigi Del Neri, che centra la promozione in A e dà inizio alla favola di cui scriveranno rapiti i giornali del mondo. La ricetta del Chievo è semplice, ma in qualche modo eversiva: fame sportiva, preparazione atletica eccellente, fantasia nella tattica, mercato equilibrato e furbo, valori umani in campo e nella società. Va subito in coppa Uefa e nel 2006 fa i preliminari di Champions. Tutta Europa parla di questo quartiere che è arrivato al top.
Nell’agosto 2021 il Chievo viene escluso dai campionati professionistici per inadempienze tributarie. Nel libro, Campanelli dà la colpa alle norme Covid del 2020, «che ci hanno ammazzato» e lamenta una evidente discriminazione della giustizia sportiva, rispetto a club più blasonati che secondo lui ne avevano fatte di tutti i colori. A cominciare dalla Lazio.
Nel luglio scorso, viene condannato a due anni di carcere per le plusvalenze fittizie realizzate scambiandosi giocatori con il Cesena, nell’ambito del processo per il fallimento del club romagnolo. Ci sarà ovviamente un processo d’appello. Nello scorso febbraio, invece, la Procura di Verona ha chiesto per lui il rinvio a giudizio per bancarotta fraudolenta del Chievo. Secondo i pm, dietro quel miracolo calcistico si sarebbe nascosto «un meccanismo fraudolento per mezzo del quale l’amministratore avrebbe sistematicamente rappresentato una situazione economica di apparente benessere del Chievo Verona, tale da dissimulare il dissesto».
Ma è andata davvero così? Campedelli ribatte che il Chievo fu messo «fuori legge» per decreto «in soli sette giorni». E in così poco tempo, nessuno lo ha aiutato finanziariamente per mettersi in regola. L’ex presidente ammette però che avrebbe dovuto saldare immediatamente la cartella esattoriale per le plusvalenze del Cesena, invece di farla marcire. Poi, nel novembre del 2021, tenta il suicidio con il gas, ma viene salvato dalla compagna Maddalena.
Chi è stato vicino a Campedelli nel mondo del pallone? Lui parla con stima e amicizia di Massimo Moratti (è anche interista) e dell’ex patron del Genoa, Enrico Preziosi. E degli altri ex colleghi salva giusto Maurizio Zamparini «con cui ho avuto sempre un buon rapporto». Di Moratti e Preziosi, diversissimi tra loro, Campedelli dice che lo hanno aiutato. Di Gabriele Gravina, presidente della Federcalcio, invece ricorda che «poteva fare qualcosa e non ha fatto nulla». E il presidente della Lazio, Claudio Lotito? Campedelli si rammarica ancora: «Lo pensavo amico, ma evidentemente abbiamo un’idea diversa dell’amicizia». E già, l’amicizia nel calcio. Roba da mussi che volano.
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L’indice dei chip Usa segna +30% da inizio anno. Al di là delle mode sui titoli, però, bisogna vedere chi riuscirà a garantirsi rendimenti duraturi per remunerare i capitali. Grossi rischi se la domanda di Ia deluderà le attese.
Il 2025 conferma i semiconduttori come epicentro dei mercati: il Phlx Semiconductor, l’indice che comprende le 30 maggiori società quotate negli Stati Uniti coinvolte principalmente nella progettazione, distribuzione, produzione e vendita di semiconduttori, è a circa +30% da inizio anno e l’Ia ha spinto diversi titoli su massimi storici, con Nvidia e Tsmc sotto i riflettori. La domanda non è, insomma, se l’Ia sia un megatrend, ma se il prezzo stia già incorporando uno scenario perfetto, la temuta bolla.
Sul lungo periodo, però, il settore ha consegnato più valore di qualsiasi narrativa: il tasso di crescita annuo composto è stato del 33,7% negli ultimi dieci anni, contro il +13,9% dell’S&P 500. Il motivo è industriale: i chip sono il «cuore pulsante dell’economia digitale» e la nuova domanda nasce dall’elaborazione. Come spiega Salvatore Gaziano, direttore investimenti di SoldiExpert Scf, «la domanda non è ciclica né correlata alle condizioni economiche, ma è in continua espansione in tutti i settori man mano che le aziende sviluppano capacità di intelligenza artificiale competitive».
L’entusiasmo per l’Ia, inoltre, è legato a vincoli fisici. Per alimentare una futura super intelligenza artificiale, alcune stime parlano di un’infrastruttura con consumo globale attorno a 400 gigawatt, paragonabile all’intera capacità elettrica degli Usa. «Tutti i principali colossi tech globali - da Meta ad Amazon, da Microsoft ad Alphabet - stanno integrando l’Ia nei rispettivi modelli di business e, nel farlo, condividono tutti un elemento chiave: la necessità di disporre di semiconduttori avanzati per l’addestramento dei modelli e per le applicazioni di inferenza», dice Anthony Ginsberg, ceo di GinsGlobal Index Funds e partner storico di Hanetf. «In questo scenario, il controllo della tecnologia hardware diventa un fattore strategico tanto quanto lo sviluppo del software». Qui riemerge la ciclicità. L’effetto frusta amplifica piccoli aumenti della domanda in ordini enormi a monte, seguiti da scorte e caduta dei prezzi; i cicli di capacità, invece, derivano dal fatto che una fabbrica di semiconduttori richiede anni e miliardi e può entrare in funzione quando il picco è già passato. «Investire nei semiconduttori non è semplice», avverte Gaziano. «La vera sfida è individuare i vincitori che possano trasformare queste tendenze in rendimenti duraturi». Il mercato, però, punisce subito : Broadcom ha perso circa il 10% in una seduta dopo aver citato «una pressione sul margine lordo a breve termine dovuta a un mix più ampio di ricavi dall’Ia», riaccendendo il timore di «eccesso di entusiasmo» .
Il rischio bolla può arrivare anche dal debito: Oracle e CoreWeave stanno ricorrendo a prestiti ingenti; Oracle ha indicato 18 miliardi di dollari a settembre. Luke Yang (Morningstar) avverte un «rischio molto elevato se la domanda di intelligenza artificiale non si concretizzerà come ci si aspetta ora». Conclusione: la partita si gioca su Roe (l’indice che misura la redditività aziendale) barriere tecnologiche e disciplina del capitale, non sui titoli di moda ora.
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Donald Trump (Ansa)
Il presidente Usa insiste con la Dottrina Monroe e minaccia Caracas: «Devono restituire tutto quello che ci hanno rubato».
Il presidente americano Donald Trump tira dritto con la riedizione della Dottrina Monroe. Ha infatti annunciato un «blocco totale e completo» delle petroliere sanzionate in entrata o in uscita dal Venezuela.
«Il Venezuela è completamente circondato dalla più grande flotta mai radunata nella storia del Sudamerica. Non farà che aumentare, e lo choc per loro sarà come mai prima d’ora, almeno fino a quando non restituiranno agli Usa tutto il petrolio, la terra e gli altri beni che ci hanno precedentemente rubato», ha dichiarato su Truth l’inquilino della Casa Bianca, riferendosi verosimilmente agli espropri attuati da Hugo Chávez nel 2007. «L’illegittimo regime di Nicolás Maduro sta usando il petrolio di questi giacimenti rubati per finanziare sé stesso, il terrorismo della droga, il traffico di esseri umani, gli omicidi e i rapimenti», ha proseguito, per poi aggiungere: «Il regime venezuelano è stato designato come organizzazione terroristica straniera: pertanto, oggi ordino un blocco totale e completo di tutte le petroliere sanzionate che entrano ed escono dal Venezuela».
Il regime di Caracas, dal canto suo, ha replicato duramente alle parole di Trump, bollandole come «minacce guerrafondaie». Nel frattempo, il governo di Maduro ha stracciato i contratti sul gas naturale sottoscritti con la Repubblica di Trinidad e Tobago, accusando quest’ultima di aver assistito gli Usa nel recente sequestro di una petroliera al largo del Venezuela. Come che sia, dopo l’annuncio del blocco da parte dell’inquilino della Casa Bianca, il Brent è salito del 2,4%, mentre il Wti del 2,6%.
Ora, non è un mistero che l’amministrazione Trump abbia da tempo accusato Maduro di essere coinvolto in attività di narcotraffico perpetrate ai danni degli Stati Uniti. È innanzitutto in quest’ottica che, a partire da settembre, il Pentagono ha effettuato vari attacchi, in area caraibica, contro barche sospettate di trafficare droga. Washington ha anche schierato undici navi da guerra al largo del Venezuela, mentre l’amministrazione americana sta da settimane prendendo in considerazione l’eventualità di attacchi militari direttamente sul territorio del Paese latinoamericano. Inoltre, la settimana scorsa, Washington ha sequestrato una petroliera venezuelana, mettendone altre sei sotto sanzioni. In tutto questo, sono mesi che Trump invoca le dimissioni di Maduro: un Maduro che, secondo quanto rivelato alcune settimane fa dal Washington Post, avrebbe recentemente cercato di ottenere materiale bellico da Cina, Russia e Iran.
E qui veniamo al lato geopolitico della faccenda. Sì, perché l’obiettivo del presidente americano non si ferma alla pur cruciale questione del traffico di droga. Per capirlo, dobbiamo tornare alla strategia di sicurezza nazionale che la Casa Bianca ha pubblicato a inizio dicembre. «Vogliamo garantire che l’Emisfero occidentale rimanga ragionevolmente stabile e sufficientemente ben governato da prevenire e scoraggiare la migrazione di massa verso gli Stati Uniti; vogliamo un emisfero i cui governi cooperino con noi contro narcoterroristi, cartelli e altre organizzazioni criminali transnazionali; vogliamo un emisfero che rimanga libero da incursioni straniere ostili», si legge nel documento, che prosegue: «In altre parole, affermeremo e applicheremo un “Corollario Trump” alla Dottrina Monroe».
Insomma, il presidente americano vuole rafforzare l’influenza statunitense sull’Emisfero occidentale non soltanto per contrastare il narcotraffico e l’immigrazione illegale, ma anche per arginare «incursioni straniere ostili»: un riferimento implicito, ma abbastanza chiaro, alla Cina, che ha nel regime di Maduro uno dei propri punti di riferimento in America Latina. D’altronde, è proprio Pechino a risultare il principale acquirente di petrolio venezuelano. In altre parole, aumentando la pressione su Caracas, Trump mira indirettamente a colpire la Cina. E lancia al contempo un monito a quei Paesi latinoamericani che, agli occhi della Casa Bianca, intrattengono legami troppo stretti con il Dragone.
Sotto questo aspetto, è interessante una recente analisi della Bbc, secondo cui, al netto delle dichiarazioni di facciata, né Pechino né Mosca si starebbero concretamente impegnando per sostenere Caracas nel suo duello con Washington. Se ciò fosse confermato, significherebbe che Cina e Russia starebbero riconsiderando il proprio ruolo in America Latina alla luce della riedizione della Dottrina Monroe promossa da Trump. Tra l’altro, vari Paesi della regione si stanno spostando elettoralmente a destra, avvicinandosi all’attuale amministrazione statunitense: l’ultimo, in ordine di tempo, è stato il Cile, dove, al ballottaggio presidenziale di domenica, ha trionfato il candidato conservatore José Antonio Kast.
È quindi all’interno di queste complesse dinamiche geopolitiche che va inserita la crisi in atto tra Washington e Caracas: un dossier che, per Trump, ha anche delle ricadute di politica interna. Secondo alcuni parlamentari statunitensi, l’inquilino della Casa Bianca non avrebbe l’autorità per agire militarmente nei Caraibi senza l’autorizzazione del Congresso. Trump, dal canto suo, si sta opponendo a questa interpretazione del War Powers Act, facendo ricorso a un precedente: l’intervento bellico in Libia, ordinato da Barack Obama nel 2011, che avvenne senza l’ok del potere legislativo.
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