Volodymyr Zelensky (Ansa)
L’Anticorruzione accusa Anna Skorokhod: «Al vertice di un gruppo criminale dedito alle estorsioni». Avrebbe intascato 250.000 dollari. Intanto Volodymyr Zelensky pensa a Mykhailo Fedorov come nuovo capo del suo staff.
Le autorità dell’anticorruzione ucraine hanno aperto un nuovo fronte interno in un momento cruciale per il Paese. Nabu, Sapi e i servizi di Sicurezza hanno annunciato di aver smantellato un presunto sodalizio criminale riconducibile alla parlamentare Anna Skorokhod, accusata di aver preteso denaro da un imprenditore. Secondo le prime ricostruzioni, la deputata - perquisita insieme ai suoi collaboratori - avrebbe costretto un uomo d’affari a versarle 250.000 dollari. Eletta nel 2019 nel distretto di Kiev ed entrata in Parlamento sotto la bandiera di Servitore del popolo (partito del presidente Volodymy Zelensky, Skorokhod era stata espulsa dal partito solo pochi mesi dopo e ora siede nel gruppo Per il futuro.
Il caso rischia di trasformarsi nell’ennesima ferita politica per un Paese già piegato dalla guerra e dalla pressione economica. La vicenda esplode mentre Kiev combatte un’altra battaglia: quella contro una corruzione strutturale che continua a divorare risorse vitali. Le stime degli organismi internazionali mostrano un’emorragia impressionante: ogni anno scompare tra il 10 e il 15% del Prodotto interno lordo. Tradotto in cifre pre-invasione, quando il Pil si aggirava sui 200 miliardi di dollari, significa un buco compreso fra 20 e 30 miliardi annuali. Fondi che mancano per modernizzare lo Stato, rafforzare l’economia e sostenere un apparato militare impegnato in un conflitto esistenziale con Mosca. Prima del 2022, le autorità di controllo avevano già rilevato voragini nella riscossione fiscale e doganale, pari a 5-8 miliardi l’anno, cui si sommano decenni di inefficienze croniche nel settore energetico e negli appalti pubblici.
Il problema ha anche un peso reputazionale enorme. Una posizione scomoda, che alimenta la propaganda russa (non certo immune alla corruzione), e che allo stesso tempo irrigidisce le condizioni poste da Unione europea e Stati Uniti per continuare a sostenere militarmente ed economicamente Kiev. Le riforme richieste sono drastiche, tanto più che - secondo la Banca mondiale - la ricostruzione dopo la guerra supererà i 450 miliardi di dollari. Nessun donatore, osservano i partner occidentali, investirà simili somme senza garanzie forti sulla trasparenza.
La guerra, tuttavia, complica ulteriormente il quadro. Da un lato ha costretto il governo a introdurre controlli più severi; dall’altro ha generato nuove aree opache, giustificate dalla segretezza militare e dall’afflusso straordinario di finanziamenti. Gli scandali sulla fornitura di materiale all’esercito, esplosi tra il 2023 e il 2024, testimoniano quanto il comparto difesa resti molto vulnerabile: contratti gonfiati, prezzi anomali e intermediari sospetti hanno minato la fiducia dei cittadini e rafforzato il ruolo delle agenzie anticorruzione, sempre più centrali nel sistema istituzionale.
In questo clima, al vertice dello Stato si apre un altro dossier sensibile. Il presidente Volodymyr Zelensky sta valutando la nomina del vicepremier e ministro della Trasformazione digitale, Mykhailo Fedorov, alla guida dell’Ufficio presidenziale dopo le dimissioni di Andriy Yermak. Fonti del Parlamento e del governo parlano di una decisione «quasi definitiva», poi frenata all’ultimo momento. Le dimissioni di Yermak arrivano infatti sullo sfondo dell’operazione Midas, l’inchiesta che ha scoperchiato un sistema di tangenti multimilionario legato a Energoatom, il colosso dell’energia nucleare ucraina. Otto persone sono state incriminate, mentre il produttore cinematografico Timur Mindich, indicato come il dominus del gruppo, è già scomparso all’estero e nessuno ha più sue notizie.
Le ricadute politiche sono state immediate: il Parlamento ha sfiduciato il ministro dell’Energia Svitlana Hrynchuk e il titolare della Giustizia German Galushchenko, mentre l’ex ministro della Difesa Rustem Umerov risulta a sua volta tra i nomi finiti nel mirino degli inquirenti. Le indiscrezioni filtrate da Kiev raccontano anche di un possibile beneficio personale destinato a Yermak: una villa di lusso nella capitale che sarebbe stata parte del giro di corruzione.
Gli investigatori, che hanno effettuato perquisizioni nella sua abitazione e nei suoi uffici, lo avrebbero indicato nei documenti con il soprannome di «Ali Baba», un riferimento che sintetizza il clima di sfiducia e amarezza con cui l’opinione pubblica osserva l’ennesima vicenda giudiziaria. In un Paese che tenta di vincere una guerra e di agganciare l’Europa, ogni nuovo scandalo è un colpo alla resilienza nazionale. Ma anche un test: dimostrare di saper ripulire le proprie istituzioni è ormai parte integrante della sopravvivenza politica dell’Ucraina.
La capacità di Kiev di perseguire funzionari, parlamentari e dirigenti legati a reti corruttive diventa così un banco di prova non solo per la classe politica, ma anche per la società civile, chiamata a sostenere un percorso di riforme che richiede costanza, trasparenza e sacrifici.
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Soldati (iStock)
Secondo l’ultimo rapporto, il 43% degli italiani è contrario a qualunque intervento. Mentre la Cei condanna gli investimenti militari: «No alla forza, sì all’obiezione di coscienza e al servizio civile». Federcontribuenti: «Basta aiuti bellici all’Ucraina».
Sarà interessante ascoltare gli autorevoli commentatori che difendono la Costituzione «nata dall’antifascismo», ma hanno una gran voglia di menare le mani per farla pagare a Vladimir Putin e indirettamente a Donald Trump. Solo che gli italiani mandano a memoria l’articolo 11 e si adeguano: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». A dare manforte arrivano i contribuenti che intimano «basta soldi all’Ucraina» e i vescovi che in una nota della Cei riprendono don Milani, per dire: «La difesa della patria non si assicura solo con il ricorso alle armi, ma passa per la cura della civitas, attraverso l’obiezione di coscienza e il servizio civile».
Così il Censis nel suo rapporto - il 59° della serie - dedica un capitolo all’addio alle armi. Il 43% degli italiani disapprova un nostro intervento militare anche nel caso in cui un Paese alleato della Nato venisse attaccato. Il tanto invocato articolo 5 dell’Alleanza non piace a quasi un italiano su due. La faccenda diventa ancor più seria se si considera che ieri la Reuters ha fornito un’anticipazione dei colloqui che si sono avuti al Pentagono tra le due sponde dell’Atlantico. Gli americani hanno detto agli europei: «Dovete assumere la maggior parte della capacità di difesa convenzionale entro il 2027», aggiungendo, «siamo insoddisfatti degli impegni europei e perciò siamo pronti a smettere di partecipare ad alcuni meccanismi di coordinamento della difesa Nato». Ora bisogna cercare di convincere quel 66% (due italiani su tre) che al Censis ha detto: se per riarmarsi l’Italia dovesse tagliare la spesa sociale bisognerebbe rinunciare a rafforzare la difesa. Chissà se la baronessa Ursula von der Leyen ha mai riflettuto sul fatto che i cittadini potrebbero non essere d’accordo col riarmo. A maggior ragione se lo impone la von Truppen. Perché gli italiani hanno una scarsissima opinione dell’Europa. Il 62% è convinto che non abbia alcun ruolo decisivo sullo scacchiere globale, il 53% ritiene che l’Ue sia marginale in un mondo in cui vincono la forza e l’aggressività, anziché il diritto e l’autorità degli organismi internazionali. Oltre la metà degli italiani (il 55%) sostiene che l’Occidente è a fine corsa e a tirare oggi sono Cina e India. Se questo è il quadro si fa fatica a dare sostegno a Volodymyr Zelensky senza se e senza ma.
Sul punto si fa viva la Federcontribuenti che intima a governo e Palamento: «Fermate l’invio di fondi all’Ucraina destinati a sostenere uno sforzo bellico che, a oggi, ha già drenato oltre 1,2 miliardi di euro diretti dall’Italia e rischia di costare ai contribuenti italiani oltre 22 miliardi tra il 2025 e il 2026: 10 miliardi già nel 2025 e 12 miliardi nel 2026, secondo stime di previsione legate a spese Nato, aiuti Ue e fondi bilaterali». Federcontribuenti ricorda che 4 milioni di italiani rinunciano a curarsi, che il 40% delle scuole non è a norma, che una famiglia su dieci è in povertà, perciò è improponibile il baratto tra «welfare e armamenti» e che hanno chiuso 100.000 imprese. Da qui l’appello: «No all’abitudine alla guerra, sì alla dignità sociale ed economica degli italiani». Peraltro, i dati del rapporto Censis sono una conferma di un sentimento assai diffuso in Italia e già osservato in luglio dallo stesso istituto che aveva rilevato come solo il 16% sarebbe disposto a combattere, mentre il 39% si definisce pacifista e il 59% in caso di guerra - che metà degli italiani pensano possa essere scatenata dalla Russia mentre un terzo teme i Paesi islamici - lascerebbe l’Italia. Dunque, dai dati Censis, emerge un’esigenza di prudenza di governo e Parlamento sui temi del riarmo e della guerra.
Lo fa notare la Cei che proprio ieri ha diffuso le Conclusioni della Nota pastorale «Educare a una pace disarmata e disarmante». Scrivono i vescovi: «L’annuncio della pace esige un no deciso alla logica bellica e scelte coerenti con esso. Esige una testimonianza di speranza, uno stile di vita che abbia carattere dimostrativo e renda visibile, nell’abito esteriore e nel comportamento, l’aver scelto la pace come regola». I vescovi condannano con fermezza la corsa al riarmo e sottolineano: «La difesa, mai la guerra; occorre un rinnovato impegno internazionale per il controllo degli armamenti, sia tra i Paesi alleati che con i Paesi rivali». Ecco una «scomunica» all’Ue, a Ursula von der Leyen, a Friedrich Merz e a Emmanuel Macron lanciatissimi sui missili: «È un’istanza da promuovere anche a livello di Ue, la cui normativa è meno forte di quella italiana, e potrebbe essere ulteriormente allentata dal piano ReArm Europe. Occorre invece che l’Europa si faccia promotrice di una rinnovata cooperazione per un’agenzia unica per il controllo dell’industria militare interna e del commercio di armi con il resto del mondo». La prudenza di Giorgia Meloni sul decreto aiuti a Kiev e gli stimoli di Matteo Salvini e della Lega - che con Massimiliano Romeo ha ribadito: «Serve un provvedimento che guardi alle garanzie di sicurezza per Kiev nell’ambito del piano di pace Usa; una semplice proroga rischia di non essere allineata al percorso negoziale» - sembrano assai vicini al sentimento dei cittadini.
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Rana crocifissa (Ansa)
L’esposizione di Vienna propone ai bambini rane crocifisse e Madonne trans. Ma per il clero è «rispettosa».
Madonne trans e rane crocifisse fatte vedere ai bambini. Una trovata che qualche esponente della sinistra nostrana magari proverebbe a emulare, proponendola come educazione artistica. Accade a Vienna, dove una discussa mostra dal titolo «Du Sollst dir ein Bild Machen», «Dovresti farti un’immagine», viene proposta come strumento didattico per i piccoletti.
Poco importa che la rassegna di arte e religione visitabile fino al prossimo 8 febbraio nella Künstlerhaus, la Casa degli artisti, sia un campionario di immagini blasfeme. Gli organizzatori hanno pensato a pacchetti educativi speciali, come quello «per asili nido e scuole primarie» che promette: «Insieme, intraprenderemo un emozionante viaggio di scoperta. Esploreremo in modo giocoso alcune opere d’arte selezionate e ne scopriremo dettagli sottili: cosa ci dicono ornamenti, colori e simboli nascosti? E come possiamo esprimere i nostri pensieri e sentimenti al riguardo?».
Difficile immaginare in quale modo si possa spiegare a una creatura di pochi anni perché il dipinto «Anch’io sono la Madre» di Sumi Anjuman, raffigurante una Madonna barbuta dalla carnagione scura con in braccio un bambinello bianco, vorrebbe dimostrare «quanto siano fluide le immagini della maternità» e che «anche gli uomini vorrebbero essere madri». Una lezione queer a tutti gli effetti.
«Si tratta di meravigliarsi, porsi domande, confrontare e creare!», insistono quei geni della Künstlerhaus. Chiedono ai bimbi dell’asilo: «Cosa collega le opere a noi stessi? E come possiamo esprimere i nostri pensieri e sentimenti al riguardo?». Papa Benedetto XVI si era già espresso nel 2008, definendo blasfema la scultura dell’artista Martin Kippenberger: una rana verde crocifissa, la lingua che sporge, un bicchiere di birra in una mano, nell’altra un uovo. Lo stesso orrore è riproposto a Vienna, nella visita guidata pure a pagamento, 7 euro a persona.
E quali impressioni potranno ricavare i piccini, turbati davanti all’obbrobrio della Pietà in chiave transgender dove l’unico elemento ben visibile è il membro maschile? «Quaint Sunday/Mary’s Penis No. 3», ovvero «Domenica bizzarra/il pene di Maria», opera di Anouk Lamm Anouk, è stata così presentata: «Maria trans e sanguinante tiene in braccio il corpo senza vita del figlio, che a sua volta tiene in braccio il pene della madre, un gesto che può essere letto come tenero e inquietante al tempo stesso. È un momento che inverte le dinamiche di potere tradizionali; il divino diventa corporeo e queer».
Pensate che la Chiesa austriaca sia riuscita a far chiudere questa galleria di offese alla religione cristiana? Niente affatto. Günther Oberhollenzer, direttore e curatore della mostra, e Tanja Prušnik, presidente di Künstlerhaus hanno invocato la libertà artistica «protetta dalla Costituzione austriaca» e così commentato: «Se un’opera d’arte sia provocatoria o meno spesso è una questione di chi la guarda».
Ma i bambini dell’asilo e della scuola materna possono solo subire certe immagini, che spirito critico possono mai avere?
Incredibili sono i commenti che arrivano dal mondo religioso. «La mostra testimonia l’infinita lotta per rendere in qualche modo giustizia al mistero di Dio, che si è inscritto in un mondo ferito», ha detto il vescovo di Innsbruck, Hermann Glettler, il monsignore che aveva fatto appendere un Crocifisso capovolto nella chiesa dell’ospedale con le braccia di Gesù a fare da lancette d’orologio. «Reinterpreta i motivi cristiani, in modo rispettoso, critico», sostiene Der Sonntag Wien, settimanale di cultura, fede e tradizione. «Le immagini ispirate al cristianesimo potrebbero aiutarci ad aprire gli occhi su una realtà terribile, minacciosa e violenta, ma in cui, allo stesso tempo, si possono scoprire meraviglia, amore, tenerezza e devozione», scrive Gustav Schörghofer, sacerdote gesuita.
Se a essere esposte fossero state opere irrispettose della religione islamica, la rassegna avrebbe chiuso i battenti dopo due giorni di isteriche condanne anche da parte della sinistra. E, magari, pure da parte dei vescovi.
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Donald Trump (Ansa)
Il documento strategico della Casa Bianca bacchetta le élite del Vecchio continente: «I cittadini invocano la pace, loro sovvertono la democrazia». Avvisi a Nato («Basta espansione») e Cina: «Non tocchi Taiwan».
Viva l’Europa, abbasso l’Unione europea. È la sintesi brutale ma efficace della dottrina di Donald Trump, esposta in un documento di una trentina di pagine, datato novembre 2025, che la Casa Bianca ha diffuso ieri. A bistrattare Bruxelles ci hanno già pensato diversi esponenti dell’amministrazione americana: il segretario di Stato, Marco Rubio, ha rifiutato d’incontrare l’omologa, Kaja Kallas, a Washington; il suo vice, Christopher Landau, ha rinfacciato a Federica Mogherini, già Alto rappresentante Ue, ora sotto inchiesta, di essere stata un’estimatrice del regime castrista; JD Vance, dopo il discorso di Monaco di febbraio, durissimo con l’Unione, ha contestato la multa da 120 milioni comminata a X per violazione del Dsa. In realtà, a suo parere, per il rifiuto della piattaforma di «impegnarsi nella censura».
La diagnosi dei mali del Vecchio continente, contenuta nel faldone, è severa. Il testo denuncia «le attività dell’Unione europea e di altri corpi transnazionali, che minano la libertà e la sovranità politiche», nonché «le politiche migratorie», «la repressione della libertà d’espressione e la soppressione dell’opposizione politica», la «voragine» che si è aperta nei tassi di natalità, «la perdita delle identità nazionali e della fiducia in sé stessi». «Se le attuali tendenze dovessero continuare», è la profezia apocalittica, «il continente sarà irriconoscibile entro 20 anni, se non meno».
«area vitale per noi»
Persino le frizioni con la Russia vengono attribuite allo smarrimento culturale dell’Europa, la quale godrebbe di un «significativo vantaggio nel potere coercitivo», tale da consentirle una certa tranquillità. Perciò gli Stati Uniti intendono profondere sforzi diplomatici, «sia per ripristinare condizioni di stabilità strategica nell’area euroasiatica, sia per mitigare il rischio di un conflitto tra la Russia e gli Stati europei». Anche perché il conflitto in Ucraina ha aggravato le «dipendenze esterne» dei Paesi Ue, Germania in primis: le sue aziende sono arrivate a delocalizzare in Cina per «usare il gas russo che non possono ottenere in patria».
L’accusa nei confronti delle élite del Vecchio continente è pesante: «Una vasta maggioranza degli europei vuole la pace, eppure quel desiderio non viene tradotto in politiche, in larga misura perché quei governi hanno sovvertito il processo democratico». È facile cogliere l’allusione alla conventio ad excludendum dei partiti di sistema nei confronti di Afd in Germania e del Rassemblement national in Francia. L’amministrazione, pertanto, dice di trovarsi in disaccordo «con i funzionari europei, che nutrono aspettative irrealistiche rispetto alla guerra, fondate su governi di minoranza instabili».
L’insofferenza per l’involuzione dell’Unione europea, d’altronde, non impedisce al documento di riconoscere che «l’Europa rimane strategicamente e culturalmente vitale per gli Stati Uniti». E che sarà cruciale «promuovere la grandezza europea». Purché l’Europa impari a difendersi da sé, a «reggersi in piedi da sola». E purché si ponga fine alla «percezione» - evitando che diventi realtà - che la Nato sia «un’alleanza in perpetuo allargamento». Stando al retroscena di Reuters, Washington vorrebbe che l’Ue ne assuma la guida entro il 2027.
Il senso del «corollario Trump» alla dottrina Monroe, della quale il presidente americano ha celebrato giusto quattro giorni fa i 250 anni, sta qui. Non si tratta, semplicemente, di respingere ogni ingerenza negli affari del continente americano, bensì di rivendicare l’emisfero occidentale quale sfera d’influenza degli Usa, contrastando l’influenza russa e cinese, il narcotraffico, impiegando dazi e minaccia della forza come strumenti di pressione e agendo per contenere l’espansione delle potenze ostili, affinché non intacchino gli interessi vitali di Washington.
l’indo-pacifico
Trump vuole che la sua politica estera sia «pragmatica senza essere “pragmatista”, realistica senza essere “realista”», semmai improntata a una forma di «realismo flessibile»; e, ancora, che essa riposi su dei principi «senza essere “idealista”», che sia «muscolare senza essere “da falchi” e misurata senza essere “da colombe”». Poca ideologia, molti fatti, che concorrano all’obiettivo di mettere «l’America al primo posto», «America first». Perciò va corretta la tracotanza degli egemoni americani post Guerra fredda. «Gli Stati Uniti», proclama la Casa Bianca, «respingono il concetto fallimentare di dominio globale» e non hanno più intenzione di «sprecare sangue e denaro per limitare l’influenza di tutte le grandi e medie potenze del mondo». Niente più poliziotti del mondo. Si dovrà ricalibrare la presenza militare Usa nelle varie aree geografiche, «per affrontare le minacce urgenti nel nostro emisfero». Tenendosi lontani «da teatri la cui importanza relativa per la sicurezza nazionale americana è diminuita». Il tutto, sullo sfondo di una «propensione al non intervento», pur nella convinzione che si debba mantenere «la pace attraverso la forza».
Kiev e Bruxelles sono avvisate. Perché, nonostante il giuramento di fedeltà all’Europa e al Regno Unito, ancorché accompagnato dalla pretesa di più contributi alle spese militari e più equità nei rapporti commerciali, il nucleo degli interessi Usa non è in Europa. È nell’Indo-Pacifico. Quell’area che produce già «quasi la metà del Pil mondiale a parità di potere d’acquisto» e la cui quota di ricchezza planetaria, nel XXI secolo, «di certo crescerà». La priorità dell’amministrazione statunitense sarà interrompere le strategie industriali e commerciali «predatorie», il furto di proprietà intellettuale nel campo tecnologico, le minacce alla catena di approvvigionamento di materie prime, il flusso di fentanyl e la guerra ibrida e psicologica portata avanti da Pechino. Trump ha ormai smontato l’illusione dei suoi predecessori: che «aprendo i nostri mercati alla Cina, incoraggiando le imprese americane a investire in Cina e spostando la nostra manifattura in Cina, avremmo facilitato l’ingresso della Cina nel cosiddetto “ordine internazionale basato sulle regole”».
Come invertire la rotta? La Casa Bianca si propone di «arruolare» i suoi alleati, cioè di esigere da loro - Giappone, Corea, la stessa Europa - una completa collaborazione e una crescente responsabilizzazione sul piano militare. Dopodiché, bisognerà «allargare» la rete di Paesi amici dell’America. Sembra un’eco della teoria del politologo cinese Yan Xuetong, molto ascoltato da Xi Jinping e convinto che la competizione tra grandi potenze sarà decisa dalla loro capacità di attrarre sostegno sullo scacchiere. Di certo, se per The Donald l’Ucraina è periferica, Taiwan è invece centrale. L’avviso a Pechino è cristallino: «Gli Stati Uniti non supportano alcun cambiamento unilaterale dello status quo».
Anche il Medio Oriente e, soprattutto, l’Africa, paiono meno rilevanti agli occhi di Trump. Soddisfatto della tregua a Gaza («Negli ultimi nove mesi», scrive nell’introduzione il presidente, «abbiamo salvato la nazione e il mondo dall’orlo della catastrofe e del disastro»), dell’indebolimento dell’Iran e della stabilizzazione della Siria, il tycoon confida di porre termine all’era «in cui il Medio Oriente dominava la politica estera americana». Nel continente nero, intanto, gli Usa cercheranno di sostituire, al «paradigma degli aiuti esteri», quello degli investimenti e della crescita.
droga, woke, nazioni
Il documento uscito ieri, però, aiuta altresì a comprendere la filosofia che ispira la politica interna di Trump. Se l’obiettivo ultimo della sua strategia è conservare la sovranità e la prosperità degli Usa, per mantenere una influenza determinante sull’emisfero occidentale e limitare le ambizioni degli avversari, si capisce per quale motivo siano così essenziali il controllo dei confini e la lotta ai fattori di sgretolamento della società: la droga, il woke, la cappa ideologica, la deindustrializzazione. «America first», poi, significa ripensare la funzione delle «più intrusive organizzazioni transnazionali», le quali saranno tenute a «favorire anziché danneggiare la sovranità». Si spiegano le scintille con l’Onu e l’Oms. È il principio del «primato delle nazioni», che dovrebbe far scoppiare la bolla del multilateralismo europeo. Un bel sogno infranto. Oppure un incubo dal quale ci dobbiamo risvegliare.
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