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Rio de Janeiro ha una delle riserve più ricche al mondo, che apre anche a capitali americani. Però è costretta a esportare le materie prime in Cina perché siano lavorate. I piani nazionali di investimento vanno a rilento.
Il Brasile possiede quella che è stimata, come la seconda riserva mondiale di terre rare, con circa 21 milioni di tonnellate metriche (pari al 23,3% delle riserve globali, ma secondo sondaggi recenti anche di più), a pari merito col Vietnam e superato solo dalla Cina che ne detiene 44 milioni. Questi 17 elementi sono un po’ la spina dorsale della civiltà industriale moderna. Senza di essi non esistono magneti per turbine eoliche, motori per veicoli elettrici, semiconduttori o sistemi di guida per missili e jet. Energia, trasporti, elettronica e difesa sono i settori che più di tutti hanno estrema necessità di questi componenti.
Ad oggi, la Cina controlla il 70% della produzione mineraria e oltre il 90% della lavorazione di questi minerali. Questa posizione di quasi-monopolio permette a Pechino di esercitare un’influenza enorme sui prezzi e sulle catene di fornitura globali, una vulnerabilità che gli Stati Uniti considerano una minaccia diretta alla sicurezza nazionale. Il Brasile, grazie ai suoi depositi di argille ioniche (più facili, economici e meno inquinanti da estrarre rispetto alle rocce dure di Australia e Usa) rappresenta il tassello mancante per il de-risking perseguito dall’Occidente.
Ma in anni di disinteresse di Washington, la Cina è diventata il primo partner commerciale del Brasile, assorbendo volumi enormi di soia, minerali di ferro ed energia. Ma l’influenza cinese va ben oltre il semplice scambio commerciale. Grandi compagnie minerarie come China Molybdenum (Cmoc) sono già profondamente radicate nel Paese attraverso joint venture strategiche.
Il simbolo della rinascita mineraria del Brasile è la città di Minaçu, nello stato di Goiás. Qui, dove un tempo si estraeva amianto, la società Serra Verde (controllata dal fondo americano Denham Capital) ha avviato nel 2024 la produzione commerciale di concentrato contenente le quattro terre rare più ambite per i supermagneti: neodimio, praseodimio, disprosio e terbio.
Tuttavia, emerge un paradosso tipico di questo settore. Nonostante il capitale sia statunitense, i primi carichi di minerali estratti a Minaçu sono stati esportati proprio in Cina per la raffinazione. Pur avendo il minerale, il Brasile manca di un’industria di trasformazione completa, rendendolo di fatto un fornitore di materie prime per il suo principale partner commerciale, Pechino. Neppure gli Stati Uniti, del resto, hanno una industria sviluppata che permetta di raffinare le terre rare, dunque la Cina, che controlla il 90% del mercato mondiale della raffinazione, è la destinazione obbligata dei minerali estratti.
Donald Trump sta adottando una tattica antica ma sempre efficace, il bastone e la carota. Mentre impone dazi pesanti, gli Stati Uniti stanno usando anche incentivi finanziari diretti. La U.S. International Development Finance Corporation (Dfc) ha stanziato fino a 465 milioni di dollari per espandere Serra Verde, mentre la Export-Import Bank (Ecim) ha manifestato interesse per finanziare con 250 milioni di dollari il progetto Caldeira della australiana Meteoric Resources nel Minas Gerais. L’obiettivo di Washington è costruire una catena di fornitura di terre rare che escluda Pechino, spingendo le aziende brasiliane a verticalizzare la produzione internamente o in Paesi alleati.
Il governo Lula ha risposto con il piano Nova Indústria Brasil (Nib), una strategia di neo industrializzazione che mira a stanziare oltre 50 miliardi di dollari per sviluppare settori tecnologici sovrani. Recentemente, la Finep (Financiadora de Estudos e Projetos) e il Bndes (Banco Nacional de Desenvolvimento Econômico e Social) hanno selezionato 56 progetti, per un valore potenziale di 8 miliardi di dollari, di cui 10 progetti specificamente dedicati alle terre rare.
Tuttavia, il Consiglio Nazionale di Politica Mineraria (Cnpm), istituito formalmente nel 2022, è rimasto inattivo per anni e solo recentemente è stato installato per aggiornare un Piano minerario nazionale fermo al 2011. Inoltre, il settore soffre per un’agenzia regolatrice (Anm) definita fragile e sottofinanziata, e per tempi di autorizzazione che possono durare un decennio. Le piccole compagnie minerarie si sono recentemente unite nell’Associazione dei Minerali Critici (Amc) per chiedere al governo garanzie finanziarie reali, poiché senza flussi di cassa immediati rischiano di dover cedere la produzione futura a investitori stranieri.
Sullo sfondo rimangono i conflitti socio-ambientali. Sebbene l’estrazione dalle argille ioniche sia definita sostenibile da Serra Verde, le comunità locali vicino alla miniera denunciano la contaminazione dei corsi d’acqua e impatti sulla salute. Il Brasile rischia di ripetere la sua traiettoria storica, cioè esportare minerali grezzi e restare dipendente dalle tecnologie estere. Sarebbe necessario creare un polo di raffinazione nazionale che rassicuri sia i militari, desiderosi di autonomia per il loro programma di sottomarini nucleari, sia gli investitori internazionali.
In conclusione, il Brasile ha tra le mani le chiavi di una importante cassaforte di preziose materie prime. Molto dipende da come il governo Lula saprà agire. Se in maniera pragmatica, cercando un compromesso tra le opposte spinte di Cina e Stati Uniti, o se sceglierà di gettarsi da una parte e in questo modo determinare uno squilibrio che sarà da valutare nella sua portata. Il rischio è che il grande Paese imploda sotto la pressione dei dazi di Trump o finisca per diventare una semplice colonia estrattiva per la fame di risorse della Cina.
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Il movimento di emancipazione si è trasformato in pura misandria. Risultato: la donna può sopprimere il feto e il padre non può opporsi. E siccome le mamme sono rapite dalla carriera, alla fine mettono al mondo meno figli. E li lasciano «educare» dallo Stato.
I suicidi degli uomini sono il triplo di quelli delle donne. Eppure, schiere di femministe ci informano che le donne sono vittime permanenti di un potere spietato. Il femminismo, se esistesse come difesa, se fosse davvero una spinta ideale perché ogni creatura umana possa essere padrona del proprio corpo e del proprio destino, sarebbe in prima fila a combattere contro la lapidazione e l’obbligo del velo. Se a «qualcun*» gliene fregasse veramente qualcosa delle donne, invece di occuparsi di scempiaggini come gli asterischi, si preoccuperebbe di cose serie, come il divieto granitico della pornografia, per vari motivi: la pornografia è fatta da gente vera, non sono ologrammi. La pornografia crea dipendenza, distruggendo le relazioni. Dato che il cervello umano funziona sull’imitazione, la pornografia aumenta il disprezzo e la violenza contro le donne. Come ogni droga, si aumentano le dosi, così da arrivare alla pedopornografia. Non tutti i fruitori di pornografia arrivano alla pedopornografia, ma tutti i fruitori di pedopornografia sono partiti dalla pornografia.
Femminismo è il vezzoso nome dato alla misandria occidentale, e la misandria è stato il mezzo per distruggere nel giro di due generazioni l’invincibile società occidentale giudaico-cristiana: le donne sempre vittime, i maschi sempre carnefici e soprattutto nemici. La «vera donna» si sente sorella di sconosciute, incluse cantanti mediocri che guadagnano cifre astronomiche mostrando la biancheria intima o la sua assenza, ma non deve avere linee di collaborazione o anche solo umana simpatia con il marito o il compagno. Il femminismo occidentale non è difesa delle donne, è misandria, odio per gli uomini. Il femminismo misandrico è un movimento creato a tavolino, con lo scopo di distruggere la famiglia, che è un’unità affettivo/economica con una sua intrinseca potenza: rende le persone non isolate, e quindi meno malleabili, tali da avere la forza di opporsi al potere dello Stato o del parastato. Il secondo scopo è abbattere i salari buttando sul mercato milioni di lavoratrici. Il terzo scopo è annientare le aree di lavoro non tassabile. Le donne a casa loro fanno lavori non tassabili: cucire, cucinare, costruire giocattoli, creare tende e vestiario, fare conserve, allevare bambini. Ora il loro lavoro è sostituito da supermercati, orrendi cibi precotti, con tutti i danni dei cibi processati, vestiario «made in China» fatto da schiavi sottopagati e soprattutto educatrici e insegnanti.
A ogni interazione madre-figlio, il cervello del bambino piccolo crea miliardi di sinapsi. Ogni interazione con l’estranea cui è affidato mentre mamma si sta facendo sfruttare da qualcuno in un posto di lavoro - e deve farlo perché il salario di papà è troppo basso - fabbrica molte meno sinapsi. Per i bambini, essere affidati a estranei al di sotto dei tre anni è un danno neurobiologico. Chi nega questa affermazione sta mentendo. Il bambino impara la regolazione delle emozioni sulla madre, ma per poter completare questo processo la madre deve essere presente. Con l’estranea cui è stato affidato, il processo non può realizzarsi. Inoltre, per quell’estranea il bambino è lavoro. Ci sono persone che amano il loro lavoro, altre che lo detestano: nel caso delle educatrici, quello che è detestato è il bambino. Ogni tanto bisogna mettere le videocamere per scoprire bambini picchiati o umiliati. La madre lavoratrice deve occuparsi del lavoro e quando alla sera torna a casa stanca e nervosa deve occuparsi del bambino, che alla sera, dopo ore e ore con estranee, è stanco e nervoso. Il peso è micidiale.
Le donne non mettono più al mondo figli. Il femminismo misandrico è stato creato per abbattere la natalità. Quando il bambino è malato, la mamma non può stare con lui. La presenza della madre fabbrica endorfine che potenziano il sistema immunitario. La sua assenza fabbrica cortisolo, ormone da stress che abbatte il sistema immunitario. Per poter essere affidato alle estranee del nido, il bambino deve essere sottoposto a un esavalente che in molte altre nazioni è vietato. Il 70% delle morti improvvise in culla avviene nella settimana successiva all’iniezione dell’esavalente. Perché le madri possano serenamente lavorare è stato creato il latte in polvere, pessimo prodotto che sostituisce il cibo perfetto dal punto di vista nutrizionale e immunologico che è il latte materno. È statisticamente dimostrata la differenza cognitiva e la migliore salute dei bambini allattati al seno. Dopo i tre anni un bambino potrebbe restarsene benissimo a casa sua; se proprio lo si vuole mandare all’asilo, sarebbe meglio non superare le due ore al giorno. Quando ha sei anni, il bambino dovrebbe andare in una scuola quattro ore, dalle 8.30 alle 12.30. Se la classe è fatta da bambini in maggioranza sereni e tutti della stessa madrelingua, come negli anni Cinquanta, quattro ore sono sufficienti.
Il bambino, messo sotto stress dalla mancanza cronica della madre, consegnato allo Stato per un numero spaventoso di ore, diventa un perfetto recipiente per la propaganda.
Le femministe hanno conquistato il diritto al lavoro. Il lavoro è una maledizione biblica. Anche l’aborto è una maledizione biblica e pure di quello hanno conquistato il diritto. Nella Cappella Sistina, Michelangelo ha rappresentato il momento in cui il serpente corrompe Eva con la mela: il serpente ha un volto di donna. Un’ intuizione geniale. Le donne hanno meno testosterone: questo le rende più accoglienti, permette la maternità, ma le rende meno capaci di battersi. Noi siamo meno capaci di combattere, cediamo più facilmente alla propaganda. Il vittimismo isterico del femminismo misandrico è stata la tentazione con cui le donne hanno annientato la invincibile civiltà giudaico-cristiana. Abbiamo ancora una generazione, forse una e mezza. Creperemo di denatalità e scemenze: tra due generazioni al massimo saremo una repubblica islamica. Il potere è stato tolto al pater familias, che era sporco brutto e cattivo, ma era comunque uno cui di quella donna e quei bambini importava, ed è stato consegnato allo Stato, una macchina burocratica cieca e stolida. Lo Stato decide quanti vaccini un bambino deve fare, mentre gli Ordini dei medici applicano la legge Lorenzin radiando tutti coloro che si permettono di parlare della criticità di questi farmaci. Lo Stato decide cosa un bambino deve mangiare: le orrende mense scolastiche dove si mangia pessimo cibo statale sono obbligatorie. Digitate su Google le parole mensa scolastica e tossinfezioni alimentari e troverete dati interessanti. I dati che mancano sono i danni su danni sul lungo periodo degli oli di bassa qualità, della conserva di pomodoro comprata dove costava meno (spesso sono pomodori coltivati in Cina con fertilizzanti pessimi). Lo Stato decide come il bambino deve vivere e se la famiglia si permette di farlo vivere felice in un bosco, lo Stato interviene. Lo Stato decide cosa il bambino deve pensare, perché l’etica gliela insegnano i docenti, quasi sempre femmine, che sono impiegati statali che eseguono gli ordini, le circolari, fanno corsi di aggiornamento Lgbt e hanno criminalizzato i ragazzi non vaccinati per il Covid.
Grazie al femminismo misandrico, in Italia, la disparità tra padre e madre è clamorosa: i padri sono esseri inferiori. La donna ha potere di vita e morte sul concepito, un potere osceno e criminale. Si considera criminale un padre che ha picchiato suo figlio, ma non si considera criminale una donna che ha fatto macellare il suo bambino nel suo ventre. Il potere che ha creato il femminismo misandrico vuole gli aborti, li adora. Se hai abbandonato il cane sei un bastando, se hai fatto uccidere tuo figlio nel tuo ventre sei un’eroina della libertà. Per far uccidere il bambino nel suo ventre, la donna ha bisogno di un medico, che diventa quindi un medico che sopprime vite umane. Il feto è vivo ed è umano. Chi lo sopprime, sta sopprimendo vite umane. Se la donna vuole abortire, il padre non può opporsi. La donna può abortire, ma il padre non può rifiutarsi di pagare gli alimenti, deve assumersi la responsabilità economica fino alla maggiore età (e spesso oltre), eredità garantita al figlio, un terzo del patrimonio che deve essere accantonato. La donna può rendere suo figlio orfano di padre: può partorirlo, disconoscerlo e impedire che il padre lo riconosca. Il padre, per riconoscere il figlio, deve arruolare uno o più avvocati, pagarli e imbarcarsi in una guerra giudiziaria lunga e dall’esito incerto. Mentre le donne sono normalmente aggredite da immigrati islamici, l’invasione che sostituisce il deficit demografico dei bambini abortiti, al punto che non si possono più fare manifestazioni in piazza come quelle di Capodanno, quando l’uomo è bianco e occidentale, la parola della donna in tribunale vale più di quella dell’uomo.
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Riduci
Roberto Speranza (Ansa)
Miozzo, coordinatore del Comitato: «La didattica a distanza e l’abbandono dei ragazzi mi terrorizzavano». Poi ammette: «Subissati da richieste che di sanitario avevano poco. Da noi solo pareri, decideva il governo».
«Io sono sempre stato un assiduo e feroce sostenitore della riapertura delle scuole, perché l’idea della didattica a distanza e dell’abbandono dei ragazzi nel loro contesto individuale e familiare mi terrorizzava. Credo di essere stato un buon profeta o forse un cattivo profeta, ahimè, perché il prezzo di quel lungo periodo di didattica a distanza l’abbiamo pagato, lo vediamo ancora adesso e lo vedremo nel prossimo futuro». La desecretazione dell’audizione in commissione Covid di Agostino Miozzo, già coordinatore del Comitato tecnico scientifico, offre l’ennesima occasione per rivangare l’ovvio (almeno per questo giornale e i suoi lettori): le misure di contrasto alla pandemia, benché rivestite di tecno-retorica, erano il frutto di una volontà squisitamente politica. Che dentro al Cts la chiusura delle scuole trovasse pareri tutt’altro che positivi, d’altra parte, era cosa ben nota. Non solo per i contenuti dei verbali trapelati già all’epoca, ma anche grazie alle carte dell’inchiesta di Bergamo.
Sull’edizione del 7 marzo del 2023, Francesco Borgonovo riportava un eloquente scambio di messaggi tra l’allora presidente dell’Iss, Silvio Brusaferro, e il ministro Roberto Speranza, che si esprimeva così: «Dobbiamo chiudere le scuole. Ne sono sempre più convinto». Ma il giorno seguente Brusaferro notava: «Per chiusura scuola Cts critico». E il ministro incalzava: «Così ci mandate a sbattere». Dopo una serie di ulteriori scambi, Brusaferro cedeva: «Va bene. Domani bisognerà pensare a illustrare come il parere riporti principi ed elementi di letteratura e modellistica lasciando al Consiglio dei ministri le scelte». Tradotto: prima si prendeva la decisione, poi si trovava l’appiglio «scientifico».
L’audizione di Miozzo appare indubitabilmente sincera. L’esperto sottolinea il contesto emergenziale in cui agivano i commissari, mettendo in guardia dai «Soloni del senno di poi». Parla del Cts come punto di riferimento «mitologico», «di fatto chiamato a rispondere a qualsiasi tipo di richiesta e necessità» che «di sanitario avevano ben poco: la distanza tra i tavoli nei ristoranti, il numero di passeggeri all’interno di un autobus, la distanza tra i banchi di scuola». «Che ci azzeccavo io, medico esperto di emergenze internazionali, con la distanza degli ombrelloni al mare?», osserva. «Eppure dovevamo dare un’indicazione, che alla fine, in un modo o nell’altro, veniva fuori con l’intelligenza, con il buonsenso, con la lettura che di volta in volta si faceva del contesto nazionale e internazionale». Dato il vuoto decisionale, in buona sostanza, il Cts si è dovuto far carico di una serie di questioni lontane dalla sua competenza. E sbaglia, spiega Miozzo, chi ci ha visto un «generatore di norme, di leggi, di indirizzi e di potere decisionale, cosa che assolutamente non ha mai avuto»: «Quello che il Comitato elaborava come indicazioni tecnico-scientifiche era offerto al governo, che lo doveva tradurre in atti normativi». L’equivoco si verificò solo perché alcuni passaggi venivano copiati tali e quali nelle leggi.
Miozzo ribadisce a più riprese che il Cts forniva solo pareri sulla base di assunti scientifici necessariamente - visto il contesto - in divenire. La dinamica, però, appare chiaramente invertita: se un organo subisce pressioni politiche (fatto testimoniato sopra) e viene interpellato su questioni che esulano dalle proprie competenze, è perché esso viene usato per sottrarre decisioni politiche al dibattito democratico. Una strategia che non riguarda solo il Covid: in pandemia ha conosciuto il suo culmine, ma è iniziata ben prima e proseguita ben dopo: l’ideologia green ne è una dimostrazione plastica. E anche il prezzo di queste scelte scellerate, per usare le parole di Miozzo, lo abbiamo pagato e lo pagheremo ancora in futuro. Se si parla tanto di Covid, in fondo, è puramente per una questione di metodo.
Miozzo avanza almeno un’altra considerazione degna di nota quando spiega che il piano pandemico del 2006 era una «lettera morta negli archivi della nostra amministrazione». Nessuno lo conosceva, «non era mai stata fatta un’esercitazione e non era stato fatto l’acquisto di beni di pronto soccorso e di Dpi. Non c’era nulla». Una responsabilità che imputa ai ministri precedenti e non a Speranza. Ai fini del buon funzionamento della democrazia, è fondamentale stabilire le responsabilità: a tagliare i fondi alla sanità per un decennio, in nome di una presunta austerità espansiva richiesta dall’«Europa», sono stati governi sostenuti dalla sinistra che oggi bercia contro l’attuale esecutivo. Lo dicono i dati, lo raccontano le condizioni in cui ci siamo trovati ad affrontare la pandemia. Almeno e limitatamente all’impreparazione del piano pandemico, possiamo anche assolvere Speranza. Ma non possiamo assolvere il Partito democratico dall’aver ucciso la sanità italiana.
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Riduci
I disagi comprendono infrastrutture ancora insufficienti, prezzi dell’energia in aumento e app molto diverse per il pagamento. Adiconsum: i costi «del pieno» superano la soglia di convenienza rispetto a benzina e diesel.
Se l’uso dell’auto elettrica è complicato nei giorni feriali, nel periodo delle festività diventa un vero e proprio girone dantesco. Punti di ricarica occupati da mezzi che non trovano altri parcheggi o da altrettante auto a spina, batterie che si esauriscono prima del previsto a causa del calo delle temperature (non tutti sono consapevoli che gli automatismi innescati con il freddo, a cominciare dal riscaldamento, richiedono energia supplementare) e che mollano l’utente letteralmente in mezzo a una strada e l’estenuante zapping tra le app per il pagamento. Per non parlare del costo. La bella favola che l’elettrico, oltre che a salvare il Pianeta, salva anche il portafoglio, è davvero una bella storia. A fine anno anche i più tenaci paladini dell’ideologia green qualche bilancio se lo fanno per scoprire che, a causa del caro elettricità, la vecchia utilitaria a benzina è più economica. Oltre che infinitamente più facile da gestire.
A mettere nero su bianco qualche dato in grado di smontare le ultime illusioni sui vantaggi del motore a batteria, è l’Adiconsum che periodicamente fa un report sull’andamento delle tariffe di ricarica. Lo stato dell’infrastruttura è ancora carente. I punti di ricarica sono 70.272 di cui un 10% non è attivo. La maggioranza dei punti (53.000) è in corrente alternata (Ac) con potenza inferiore a 50 Kw mentre le ricariche ultra veloci sono meno di 5.000. Intraprendere un percorso in autostrada è da temerari: la copertura delle aree di servizio è ancora al 48% e ci sono solo 1.274 punti. Essere a secco di elettricità e beccare un paio di stazioni di servizio sprovviste di colonnine apre scenari da incubo. Quindi, nella pianificazione di un percorso, bisognerebbe anche avere contezza della distribuzione delle ricariche.
Ma veniamo ai costi. Il prezzo unico nazionale a novembre scorso era pari a 0,117 euro il Kwh, in aumento del 5% rispetto a ottobre 2025. I prezzi medi alla colonnina sono per la Ac (lenta e accelerata) di 0,63 euro al Kwh (in aumento di 1 centesimo rispetto a ottobre), per la veloce (Dc) di 0,75 euro /Kwh (+1 centesimo rispetto a ottobre) e per la ultra veloce (Hpc) di 0,76 euro/kwh (stazionario). Per le tariffe medie massime si arriva a 0,83 per ricariche Ac, 0,82 per la Dc e 1,01 per Hpc.
Il report di Adiconsum fa un confronto con i carburanti fossili e evidenza che la parità di costo con benzina e diesel si attesta mediamente tra 0,60 e 0,65 euro/kwh. Ma molte tariffe medie attuali, superano questa soglia di convenienza.
Inoltre esistono forti divergenze tra i prezzi minimi e massimi che nella ricarica ultra veloce possono arrivare fino a 1,01 euro /Kwh. L’associazione dei consumatori segnala tra le tariffe più convenienti per la Ac, Emobility (0,25 euro/Kwh) per la Dc, Evdc in roaming su Enel X Way (0,45 euro/Kwh) e per l’alta potenza, la Tesla Supercharger (0,32 euro/Kwh). La conclusione del report è che c’è un rincaro, anche se lieve delle ricariche più diffuse ovvero Ac e Dc e il consiglio dell’Adiconsum, è che a fronte dell’alta variabilità dei prezzi è fondamentale utilizzare le app dedicate per verificare quale operatore offre il prezzo più basso sulla singola colonnina.
Questo vuol dire che mentre all’estero, come ad esempio in Germania, si fa il pieno utilizzando semplicemente il bancomat o la carta di credito, come al self service dei distributori, in Italia bisogna scaricare una infinità di app, a seconda del fornitore o del gestore, con la complicazione delle informazioni di pagamento e della registrazione. Chi ha la ventura (o sventura) di aver scelto una full electric, deve fare la gimcana tra le varie app, studiando con la comparazione, la soluzione più vantaggiosa. Un bello stress.
Secondo i dati più recenti di Eurostat e Switcher.ie, mentre la media europea per un pieno si attesta intorno a 14 euro, in Italia la spesa media sale a circa 20,30 euro. Nel nostro Paese, come detto prima, la media di ricarica Ac è di 0,63 euro /Kwh, in Francia e Spagna si scende sotto gli 0,45-0,50 euro /Kwh. La ricarica ultra rapida che nelle nostre colonnine è di media 0,76 euro/Kwh con picchi sopra 1 euro, in Francia si mantiene mediamente intorno a 0,60 euro/Kwh. Il costo dell’energia all’ingrosso in Italia è tra i più alti d’Europa, inoltra l’Iva e le accise sull’energia elettrica ad uso di ricarica pubblica sono meno agevolate rispetto alla Francia dove l’Iva è al 5,5%. Inoltre l’Italia non prevede riduzioni degli oneri di sistema per le infrastrutture ad alta potenza.
C’è un altro elemento di divergenza tra l’Italia e il resto dell’Europa che non incentiva l’acquisto di un’auto elettrica, ed è la metodologia del pagamento. Il nostro Paese è il regno delle app e degli abbonamenti. La ricarica «spontanea» (senza registrazione) è rara e spesso molto costosa. In paesi come Olanda, Danimarca e Germania, il pieno è gestito più come un servizio di pubblica utilità «al volo». Con il regolamento europeo Afir, nel 2025 è diventato obbligatorio per le nuove colonnine fast permettere il pagamento con carta di credito/debito tramite Pos. In Nord Europa questa pratica è già la norma, riducendo la necessità di avere dieci app diverse sul telefono. Inoltre in Paesi tecnologicamente avanzati (Norvegia, Germania), è molto diffuso il sistema Plug & Charge: colleghi il cavo e l’auto comunica direttamente con la colonnina per il pagamento, senza bisogno di tessere o smartphone. In Italia, questa tecnologia è limitata quasi esclusivamente alla rete Tesla.
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