Leone XIV (Ansa)
Leone XIV randella i volonterosi senza alcuna volontà, se non quella di portare l’Europa alla guerra. Ma la stampa nostrana racconta solo della sua visita al Senato. Se le stesse cose le avesse dette Francesco avrebbero riempito pagine intere...
La stampa italiana è veramente un po’ particolare. Avanti ieri il Papa ha parlato della guerra. Ha dato ciabattate praticamente a tutti, a partire dall’Europa, ma i giornali si sono occupati solamente di raccontare la sua visita a sorpresa in Senato. Figuratevi voi se ne avesse parlato papa Francesco: avrebbero fatto titoli a piena pagina, qualcuno forse avrebbe fatto anche la sovracopertina. D’altra parte, papa Francesco era sudamericano, era de sinistra, era alla moda perché parlava ar popolo. Questo invece, oltre ad avere la di per sé infamante origine statunitense, è atlantista (grave onta); non s’è capito ancora ma sembra de destra (ha dato la possibilità, ai cattolici che lo vogliono, di dire la messa in latino); ha ricominciato a parlare del Sacro e dei Misteri Cristiani e, quindi, a questa massa di ignorantoni non è che piaccia poi granché, nun se capisce da che parte stà.
Non è il caso di rifare qui la storia della controversia teologica della «guerra giusta» che ha occupato per secoli le menti più raffinate della teologia. Questa dottrina prevedeva che la guerra fosse dichiarata solo dalla Legitima auctoritas, la legittima autorità politica, al tempo il sovrano; prevedeva, inoltre, che ci fosse una iusta causa, che sostanzialmente si trattava della difesa da un’aggressione di uno Stato più debole aggredito, appunto, ingiustamente; prevedeva, inoltre, che tutto fosse fatto secondo il Debitus modus e cioè entro i limiti, come furono previsti molto dopo dalle Convenzioni di Ginevra, tutt’ora in vigore, che prevedono varie regole da seguire durante la guerra e che riguardano vari aspetti di essa. Il Catechismo della Chiesa cattolica più recente, voluto da Giovanni Paolo II e guidato dall’allora cardinale teologo Joseph Ratzinger, dedica alla difesa della pace molti articoli, dal numero 2302 al numero 2317, dove si condanna la corsa agli armamenti, si ricordano le leggi morali durante i conflitti armati e che bisogna fare tutto ciò che è ragionevolmente possibile per evitare la guerra. Del resto, Giovanni XXIII, con l’Enciclica Pacem in terris e il Concilio Vaticano II, nella Costituzione Gaudium et spes, ai numeri 77 - 82, abbandonò il concetto di guerra giusta a favore di quello di «legittima difesa in campo internazionale».
Capite bene, da questa breve sintesi, che la Chiesa, a proposito della guerra, ha sempre ragionato in termini di teologia morale, cioè di quella parte della teologia che si occupa della moralità degli atti umani, ivi compresi quelli di natura politica nazionale e internazionale. Sarebbe ora di dare una ripassatina alla storia per capire che non si tratta di Papi di destra o di sinistra che parlano di guerra, ma di Papi che esercitano il loro ruolo di capi universali della Chiesa cattolica e che, se la discussione si può fare, la si deve fare in termini teologici (anche storicamente considerati) e non in altri termini. Altrimenti non si capisce niente. Come non hanno capito niente tutti quei quotidiani che ieri non hanno riportato le parole di Leone XIV. Perché, volendo escludere, per cchristiana pietate, un pur palese ammanco di conoscenza, non rimane che quanto dicevamo sopra, e cioè che questo Papa varrebbe meno perché non è de sinistra secondo una classificazione di una nuova corrente teologica che è la teologia de’ noantri.
Il Papa, come ha egregiamente riferito Alessandro Rico su La Verità di ieri, ha randellato l’Europa in trincea che «Usa la paura in nome del riarmo… siamo oltre la legittima difesa: è destabilizzazione planetaria. Provano persino a rieducare al conflitto mediante media e corsi scolastici. E considerano una colpa non prepararsi alla guerra».
Tutto questo, come ricorda Rico: «Nel giorno in cui il Consiglio Ue dava il via libera al ReArm, il Papa ha voluto tirare le orecchie degli eurocrati nascoste sotto gli elmetti…nel rapporto tra cittadini e governanti si arriva a considerare una colpa il fatto che non ci si prepari abbastanza alla guerra, a reagire agli attacchi, a rispondere alle violenze». Questo avveniva il giorno prima che Donald Trump sostenesse che non esclude una guerra col Venezuela. Questo giornale ha da sempre sostenuto che può anche non piacerci Trump ma che le sue iniziative di mediazione tra Russia e Ucraina e tra Israele e i palestinesi (anzi Hamas) fossero gli unici tentativi concreti di fronte a un’Europa inerme, a un’Onu assente, a un gruppo di volenterosi che hanno tanta volontà quanta inefficacia. Diceva l’antica filosofia Scolastica: «Nihil volitum nisi praecognitum», non si può volere ciò che prima non si conosce. Infatti, questi volenterosi hanno avuto tanta volontà quanta poca conoscenza di come andavano fatte le cose e di quali erano le possibili vie diplomatiche per arrivare ad accordi di guerra o di pace.
Il Papa fa il Papa, questa è una tautologia: dove il predicato, il Papa, è contenuto già nel soggetto, il Papa. Ma evidentemente ad alcuni è difficile comprendere anche la figura filosofica più semplice, la tautologia, appunto. Se uno non comprende una tautologia è bene che rinunci all’uso del cervello e all’esercizio della ragione e si dedichi ad opere manuali ripetitive e prive di ausilio razionale, tipo picchiare la testa contro il muro con il pericolo, in questo caso specifico, che la testa rimanga integra e il muro vada in frantumi. Senza dirlo esplicitamente, che accuse ha lanciato il Papa agli Stati e alle organizzazioni internazionali? Quella dell’assenza di soggetti che non agiscano solo per autorità (ben oltre i confini della «legittima difesa internazionale»), sguarniti di quella autorevolezza che ha garantito durante la storia, anche limitatamente al Novecento, il raggiungimento di accordi che hanno ridisegnato l’assetto geopolitico del mondo. Quell’autorevolezza è purtroppo assente sia nelle figure di rilievo internazionale sia nelle organizzazioni che sarebbero preposte a garantire e tutelare l’ordine geopolitico mondiale. Con il suo ciuffo posticcio e con dei modi che non ci piacciono l’unico a cui aggrapparci si chiama Donald di nome e Trump di cognome. È americano anche lui, come il Papa, ma questo vale in tutta questa questione quanto il due a briscola che, presto o tardi, sarà sostituito nella grafica delle carte dalla faccia della Von der Leyen.
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Riduci
Friedrich Merz e Ursula von Der Leyen (Ansa)
Il cancelliere tedesco sognava di dettare legge come la Merkel Ma è uscito ko dal Consiglio europeo. Dove si è imposta Meloni.
Doppia sconfitta politica per il cancelliere tedesco Friedrich Merz al Consiglio europeo di giovedì, dove si è deciso di non procedere con l’utilizzo dei fondi russi depositati in Belgio e dove si è preso atto del rinvio della firma del patto commerciale con il Mercosur.
Su entrambi i dossier, Merz aveva speso tutta la sua influenza e cospicue energie, nella convinzione che fossero due mosse irrinunciabili per l’Ue. I risultati del Consiglio, invece, premiano la diplomazia discreta di Giorgia Meloni che, senza dare troppo nell’occhio, ha assunto un ruolo di regia delle soluzioni adottate e ha ottenuto ciò che voleva. Un Consiglio europeo, quello del 18 dicembre, che a suo modo segna una svolta importante e da cui emerge una nuova forza dell’Italia rispetto alla frastornata Bruxelles e alle deboli cancellerie europee.
Meloni ha messo il peso del nostro Paese in Consiglio dalla parte del Belgio, mentre il primo ministro Bart De Wever negoziava con l’Ungheria per trovare la scappatoia del prestito da 90 miliardi ed evitare l’utilizzo dei fondi russi. «Il buon senso ha prevalso», ha dichiarato Giorgia Meloni alla fine. Mentre Merz non ha toccato palla, Meloni ha mosso per tempo le sue pedine e ha portato a casa il risultato. Per una volta, chi si è trovata la pietanza cucinata è stata la Germania. Il voto a maggioranza sul sequestro dei fondi russi avrebbe significato inaugurare una prassi di rottura del quadro istituzionale europeo, le cui conseguenze sarebbero state molto gravi sotto diversi profili.
Il presidente del Consiglio ha anche dettato la linea del rinvio dell’accordo commerciale Ue-Mercosur, schierandosi con la Francia per ottenere più tempo, onde valutare gli impatti del trattato ed avere chiarimenti sulle contromisure. Piaccia o non piaccia, Meloni è riuscita nell’impresa di tenere insieme il quadro delle regole europee, allo stesso tempo evitando un passo dal quale l’Ue non avrebbe mai potuto tornare indietro. Probabilmente ora è più chiaro anche in Europa che il quadro politico è cambiato. Non è più il tempo di Angela Merkel e l’Italia sta dimostrando di poter influenzare l’agenda europea attraverso una azione diplomatica non di rottura, ma di persuasione e ragionevolezza. Questa è senz’altro una novità politica rilevante che a molti, anche in Italia, probabilmente non piacerà.
Così come ci saranno molti in Italia per cui, invece, questo non è abbastanza. Ma nel delicato passaggio storico che stiamo vivendo, Meloni ha dimostrato in Europa un’efficacia di azione e una sapienza tattica cui l’Italia era disabituata, arrivando anche a giocare di sponda con un «nemico» storico come la Francia di Emmanuel Macron pur di arrivare all’obiettivo. Dopo decenni di acritici ossequi alle peggiori politiche europee, vedere emergere una linea italiana è un passo avanti notevole. Si può non essere d’accordo nel merito delle scelte, ma almeno ci si può rallegrare per il ritorno della politica e per un nuovo ruolo dell’Italia.
Dall’altra parte, anche tornando indietro nel tempo di parecchio, è difficile ricordare un vertice europeo da cui la Germania sia uscita così suonata. Il secco «no» all’uso dei fondi russi congelati e il rinvio della firma dell’accordo di libero scambio con il Mercosur sono due rilevanti sconfitte politiche per Merz, che aveva messo tutto il suo peso su entrambe le questioni. «Oggi sono stato messo davvero alla prova», ha detto il cancelliere, apparendo stanco e stropicciato a notte fonda davanti ai giornalisti.
In merito all’utilizzo dei fondi russi, quella che veniva spacciata da Berlino come «unica soluzione possibile» per evitare «la fine dell’Europa» era solo una delle diverse opzioni, come ha dimostrato l’esito del vertice. «L’unica decisione possibile è che l’Europa accetti e che il presidente della Commissione e il presidente del Consiglio si rechino domani in Sud America e firmino questo accordo», aveva invece detto Merz alla vigilia parlando del Mercosur. Non è proprio andata così e Merz ha dovuto incassare un altro colpo. A valle del vertice, Merz ha minimizzato la sua sconfitta personale parlando di grande successo dell’Europa, ma la realtà è che i suoi ultimatum ai partner europei sono stati regolarmente ignorati. Merz ha ambizioni di diventare il nuovo leader dell’Ue in quanto cancelliere tedesco, ma non è riuscito a soddisfare neppure le sue stesse aspettative in questo appuntamento. È in difficoltà in patria, dove deve governare in coalizione con la Spd e dove, ad esempio, il suo candidato alla presidenza della Fondazione Konrad Adenauer è stato battuto ieri da Annegret Kramp-Karrenbauer, esponente di una diversa corrente della Cdu. L’unica consolazione per Merz è che dalla prosecuzione della guerra con altri 90 miliardi di euro messi sul piatto arriverà qualche grossa commessa per Rehinmetall e l’indotto industriale tedesco della difesa.
Le reazioni politiche in Germania, in realtà, sono di sollievo per la soluzione escogitata, stante che l’all-in di Merz non era così sentito nel suo partito. Molto dura, invece, la stampa. La Frankfurter Allgemeine Zeitung ha titolato «Così Merz è stato ingannato», mentre Die Welt ha scritto: «Doppia sconfitta per il cancelliere».
Berlino sta perdendo la sua presa sull’Unione europea che, da quando Merz è diventato cancelliere, non risponde più ai comandi come faceva fino a poco tempo fa.
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Riduci
Le possibilità che Zelensky rimborsi i fondi elargiti da Bruxelles sono praticamente nulle. Mosca non pagherà riparazioni di guerra. E mentre gli Stati sono alle prese con i tagli di bilancio, diamo fiumi di euro a chi li spreca.
Per l’Ucraina nel 2026 si prospettava un buco di bilancio di 72 miliardi di euro. La Ue poteva (solo teoricamente) scegliere se coprire quel buco utilizzando i fondi russi sequestrati per la gran parte presso la società depositaria belga Euroclear oppure ricorrere, via bilancio Ue, alle tasche dei contribuenti.
La scelta è stata a favore di quest’ultima soluzione, con l’essenziale distinguo che qualsiasi conseguenza finanziaria, a partire dal pagamento degli interessi, di tale scelta non ricadrà sui contribuenti ungheresi, cechi e slovacchi.
È questa l’estrema sintesi della «non soluzione» adottata ormai all’alba di venerdì dal Consiglio europeo, con l’aggravante che, da ieri, la Ue non è più a 27 ma a 24. Perché Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca hanno fermamente rifiutato di dover subire le conseguenze finanziarie derivanti dagli oneri per interessi (certi) e capitale (quasi certo) di questa scelta. Quindi avanti a 24, perché l’articolo 20 del Trattato consente la cosiddetta «cooperazione rafforzata», quando un gruppo di almeno nove Stati membri intende avanzare in modo più integrato in ambiti di competenza non esclusiva dell’UE. Solo quando Viktor Orbán, Andrej Babiš e Robert Fico hanno dato semaforo verde a questa soluzione, il Consiglio è uscito da uno stallo che cominciava a diventare imbarazzante.
Ma si tratta di un minimo comune denominatore trovato all’ultimo, quando il piano A, strombazzato ai quattro venti da mesi, se non proprio dal marzo 2022, quando fu attuato il sequestro delle attività finanziarie russe, è miseramente fallito. La nota opposizione del Belgio e del suo premier, Bart De Wever, si è presto rivelata una posizione non isolata. Infatti c’erano già da tempo, ma covavano sottotraccia, le perplessità di due pesi massimi della Ue come Italia e Francia. Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron hanno avuto gioco relativamente facile nello smontare il castello di carte e artifici legali di dubbia solidità montato da Ursula von der Leyen. Tanto che su Politico.Eu sono state diverse le voci trapelate dall’interno del summit che hanno esplicitamente accusato la Commissione di non aver fornito sufficiente chiarezza sugli aspetti legali controversi dell’operazione basata sull’utilizzo dei fondi russi, al punto che il fronte dei dubbiosi si è rapidamente allargato e De Wever si è sentito in una botte di ferro nel continuare a fare il «poliziotto cattivo».
La soluzione adottata, a favore della quale è subito partito uno «spin» mediatico anche da parte di chi avrebbe dovuto scappare a nascondersi per il fallimento, come la Von der Leyen, ha comunque numerosi punti di vulnerabilità, su cui rischia ancora di inciampare seriamente.
Partiamo dal primo passaggio, quello dell’emissione obbligazionaria dedicata sui mercati da parte della Commissione, che potrebbe essere accolta con poco entusiasmo dagli investitori. Perché quei fondi andranno, poi, prestati all’Ucraina le cui probabilità di rimborso sono praticamente pari a zero. Infatti, nessuno ritiene probabile che la Russia pagherà mai riparazioni di guerra. Quindi gli interessi e il capitale resteranno a carico del bilancio Ue e, in ultima istanza, dei contribuenti di 24 Stati membri su 27. E gli investitori non hanno certo dimenticato quanto pubblicato il 7 dicembre sul Financial Times, estratto testualmente dalla proposta di regolamento della Commissione, che spingeva per la soluzione alternativa dell’utilizzo dei fondi russi: «La capacità della Ue e dei suoi Stati membri di fornire finanziamenti aggiuntivi all’Ucraina è attualmente limitata e non corrisponde all’entità del fabbisogno».
Invece, alla ventiquattresima ora, questa è diventata la soluzione. Lo spazio di manovra di bilancio che qualche settimana fa non esisteva, ieri si è materializzato per miracolo. Perché era l’ultima spiaggia prima del fallimento. Ma questo gli investitori lo sanno e lo faranno pesare, col rischio di aumentare la tensione in tutto il mercato dei titoli governativi, già teso per altri motivi. La foglia di fico, peraltro presente nel documento separato approvato da 25 Paesi, secondo cui i fondi russi «rimarranno bloccati e l’Unione si riserva il diritto di utilizzarli per rimborsare il prestito, in piena conformità del diritto dell’Ue e internazionale», lascia davvero il tempo che trova. Se la Commissione, in quattro anni di tentativi, non ha convinto nessuno circa l’utilizzo legittimo di quei fondi, cosa induce a pensare che riesca a farlo in futuro? Con l’ulteriore difficoltà che è ormai noto che quei fondi sono stati già «opzionati» come merce di scambio per chiudere il negoziato con Mosca promosso da Washington.
Poi c’è l’aspetto degli equilibri di finanza pubblica. I Parlamenti di Germania, Francia, Spagna e, in misura minore, l’Italia stanno cercando di definire da settimane le rispettive leggi di bilancio. Tra accese discussioni su tagli di spesa e aumenti di imposte, che talvolta valgono solo qualche manciata di milioni.
Quei parlamentari e i rispettivi elettori ora scoprono che, nel giro di poche ore, la Commissione - la cui maggior parte delle entrate deriva dai contributi degli Stati membri - ha trovato spazio di bilancio per coprire un prestito (nella sostanza, un sussidio) di 90 miliardi all’Ucraina, «anche per le sue esigenze militari». In particolare, in Germania, qualche oppositore interno di Friedrich Merz - che non gradiva la soluzione adottata proprio per non trovarsi in difficoltà sul fronte interno - potrebbe tornare a bussare alla Corte di Karlsruhe, obiettando che impegnare le risorse del contribuente tedesco, via bilancio Ue, è semplicemente incostituzionale perché di fatto esautora il Bundestag. E chissà che finalmente qualcuno si svegli anche in Italia.
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Riduci
(Getty Images)
Per le nostre toghe inneggiare ai terroristi è un’opinione, dare del pirata a chi decide di non rispettare le leggi è diffamazione da risarcire con 80.000 euro. È così che si limita la libertà di stampa. Ma noi non ci fermeremo.
Se sei un imam che inneggia alla strage compiuta da Hamas il 7 ottobre, come l’egiziano Mohamed Shahin, il giudice ti archivia, perché le tue frasi sono «espressione di pensiero che non integra gli estremi di reato, e dunque pienamente lecite». Se invece sei un direttore di giornale che si è permesso di criticare le Ong, accostando il loro operato a quello dei pirati che deliberatamente decidono di non rispettare una legge dello Stato italiano, il giudice ti condanna e sei chiamato a corrispondere 80.000 euro a soggetti che non sono stati neppure menzionati nell’articolo o nella copertina incriminata. Siete stupiti? Io no: sono indignato.
Lo so che vi ho già raccontato l’incredibile sentenza di cui sono vittima in quanto direttore di Panorama, ma passato il giorno e la sorpresa per la condanna, mi rendo conto che le querele minacciano la libertà di stampa più di quanto possa fare la politica o un editore. Può un sostantivo valere 80.000 euro? Può il diritto di critica verso operazioni dichiaratamente politiche essere negato con sanzioni pecuniarie? È evidente che nessuno degli attori dell’azione giudiziaria ha avuto un danno reputazionale, perché non è stato accusato di alcun orrendo delitto e ha potuto continuare a operare liberamente come prima e forse più di prima. E allo stesso tempo è lampante la sproporzione fra una critica e il risarcimento disposto in favore di chi non era neppure chiamato in causa, perché il suo nome non compariva sulla copertina del settimanale. Di questo passo, se io critico le aziende farmaceutiche per le procedure poco trasparenti sui vaccini, legittimo tutte le imprese del mondo che si occupano di sieri a fare causa, come ad esempio ha fatto una Ong tedesca, il cui rappresentante neppure parla l’italiano.
Tanto per farvi comprendere quanto sia assurdo ciò che è capitato, pensate che per ingiusta detenzione lo Stato riconosce a un innocente messo in galera 235,82 euro per ogni giorno passato dietro le sbarre. Una parola ritenuta fuori posto come «pirata» e perciò giudicata diffamatoria, pur se espressa una sola volta in una edizione, è stata invece sanzionata con 10.000 euro a testa in favore dei querelanti, più spese legali, con il risultato che il risarcimento assomma a oltre 80.000 euro, ovvero molto di più di quanto può incassare un povero cristo che si è visto mettere in prigione per un anno, avendo la vita e la reputazione rovinata prima di essere riconosciuto innocente.
Per incassare 80.000 euro Panorama deve vendere 30.000 copie in più rispetto a quelle che settimanalmente vengono acquistate all’edicola. Ed è abbastanza facile capire che bastano alcune sentenze come quella emessa dal tribunale per mandare in fallimento una testata. I giornali vivono di ciò che vendono, non dei soldi che incassano dalle querele. Anche quando viene data loro ragione, nessuno li risarcisce per la denuncia temeraria. Se va bene si vedono riconosciute le spese legali, che a volte non riescono a coprire l’intera parcella degli avvocati.
È questa la vera minaccia alla libertà di stampa, questo il bavaglio che si cerca di imporre a chi canta fuori dal coro. Il risultato è che gran parte dei giornali annacqua notizie e giudizi decidendo spesso di non pubblicare quelli scomodi. Sapete quante volte mi è capitato di sentirmi dire da colleghi che lavorano in altre testate: beati voi che potete scrivere liberamente, senza avere i limiti imposti dagli editori, dalle relazioni politiche e pure dalle minacce delle sentenze? Molte. Però non so in che cosa consista la nostra beatitudine, forse nell’incoscienza di non volerci fare imporre la mordacchia. Sta di fatto che per noi vale una regola semplice: pubblichiamo tutto, anche quello che gli altri preferiscono nascondere. E diciamo ciò che pensiamo, senza imbarazzi e senza censure. È successo con i vaccini e con il green pass e di recente con le frasi del consigliere di Sergio Mattarella che auspicava un «provvidenziale scossone» per cambiare la situazione politica. Succederà ancora. Perché come La Verità anche Panorama è un vascello corsaro, che non ha paura di chiamare le cose con il loro nome e non si fa fermare da chi vorrebbe impedirci di scriverle.
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Riduci




