Emergono particolari sempre più interessanti e preoccupanti sul tema del prestito all’Ucraina, coinvolgendo in qualche modo gli asset russi sequestrati in Belgio, le finanze pubbliche degli Stati membri e la Bce, in un abbraccio che ogni giorno si fa sempre più rischioso. Ieri vi abbiamo riferito che il complesso schema finanziario con cui la Ue preleverebbe 90 miliardi dalla liquidità russa presso i conti di Euroclear in Belgio, contro il rilascio di un «pagherò» infruttifero ai belgi, consentendo così a Bruxelles di erogare il prestito a Kiev, e si concluderebbe con il «pagherò» che finisce in portafoglio alla Bce, sarebbe un finanziamento monetario, di fatto, degli Stati membri vietato dai Trattati.
Per il semplice motivo che - nel probabile caso in cui la sentenza di un tribunale consenta alla Russia di riappropriarsi di quei fondi o in cui la Russia rifiuti di pagare le riparazioni di guerra e quindi l’Ucraina non rimborsi il prestito alla Ue - Euroclear non potrà restituire il prestito alla Bce e a Francoforte resteranno col cerino in mano, tenendosi in portafoglio a tempo indeterminato il «pagherò» della Ue. A meno che non decidano di escutere le garanzie degli Stati membri che assistono quel titolo di credito. Uno scenario da brivido, con Paesi come Italia, Francia e Germania chiamati a pagare sull’unghia rispettivamente 25, 34 e 52 miliardi entro pochi giorni. Ma questo è uno scenario, ancorché finanziariamente fattibile e legalmente sfidante, politicamente indigeribile nelle maggiori capitali europee. A partire da Berlino, dove il cancelliere Friederich Merz è da tempo politicamente debole e insidiato dalla forza crescente del partito di destra Afd. Si tratta dell’emissione di debito comune europeo, cioè il famoso «eurobond», o qualcosa che gli somigli, notoriamente non previsto dai Trattati e che in Germania è visto come fumo negli occhi. Non a caso, il precedente del debito «pandemico» emesso per finanziare il Next Generation Eu è stato ritenuto costituzionale dalla Corte Federale di Karlsruhe nel dicembre 2022, sotto le essenziali condizioni della sua temporaneità ed eccezionalità, del vincolo di scopo, e del divieto di mutualizzazione illimitata del debito. Quindi ognuno paga per sé e nessuno aiuta gli altri. Cosa ben diversa da un eurobond propriamente detto, che prevede la responsabilità illimitata e solidale di tutti gli Stati membri per l’intero debito. Un’unione del debito è proprio ciò a cui la Costituzione e, prima ancora, l’opinione pubblica tedesca si opporrebbero. Da qui «l’idea» di Merz di rendere quel «pagherò» della Ue molto diverso da un eurobond, perché infruttifero di interessi e non rivendibile, destinato quindi a restare in portafoglio a Euroclear. Esponendo però quest’ultima a un disastroso default nel caso fosse costretta a rimborsare la liquidità ai russi. Per far entrare nella partita la Bce - pur in violazione dei Trattati - quel titolo deve essere trasferibile e produttivo di interessi. Come si vede un pericoloso e interminabile gioco dell’oca in cui si torna sempre al punto di partenza.
L’idea precisa dell’enorme posta in gioco è stata fornita ieri in un’intervista al Sole 24 ore dalle parole dell’ex ministro Giulio Tremonti, ora presidente della Commissione Esteri della Camera, secondo il quale «quello che si sta definendo è un nuovo strumento finanziario comune europeo» e che nonostante si corra il rischio di «una caduta della credibilità e dell’affidabilità dell’euro, portando altri Stati al ritiro delle loro riserve dal sistema europeo [...] dal punto di vista politico un’operazione di questo tipo è oggettivamente il principio di una politica europea autonoma». Concludendo che «per fare l’Europa non serve la tecnica ma la politica, soprattutto nella dimensione drammatica della guerra, un caso in cui dal male può venire il bene». Insomma, siamo al Jean Monnet di «L'Europa si farà nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni apportate a queste crisi». Le parole giuste per mettere in difficoltà Merz e far crescere Afd.
Anche a Parigi e Roma i mal di pancia non mancano. L’Italia con Belgio e Bulgaria ha già puntualizzato che le decisioni vere si prenderanno, all’unanimità, giovedì 18 e, come la Francia, teme come la peste l’eventuale obbligatorio passaggio parlamentare per approvare le garanzie al «pagherò». Ma ieri la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova ha avvertito che «le misure di ritorsione della Russia al congelamento dei suoi asset da parte dell'Ue non tarderanno ad arrivare». Aumentando così il livello di allarme per le circa 110 imprese italiane che si stima abbiano ancora attività produttiva o commerciale in Russia, tra cui Ferrero, Barilla, Calzedonia, Pirelli, Unicredit, Cremonini, De Cecco, Menarini, Buzzi Unicem. Stessa preoccupazione per i francesi, che in Russia controllano, tra gli altri, strutture produttive o commerciali di Leroy Merlin, Auchan, Decathlon, TotalEnergies, Lactalis e Bonduelle. Ancora peggio per i tedeschi che hanno tuttora circa 250-300 grandi società attive e temono conseguenze per Metro, Beiersdorf, Bayer e tanti altri. Su tutte incombe lo spettro dell’esproprio e della nazionalizzazione.





