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2020-08-06
La vice di Obama prima difende l'ex presidente, poi lo inguaia
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Barack Obama (Ansa)
In particolare, il nome della Yates ha acquisito una sempre maggior rilevanza, a causa della sua partecipazione - il 5 gennaio 2017 - a un meeting, tenutosi alla Casa Bianca, insieme a Barack Obama, Joe Biden, l'allora direttore del Bureau James Comey e l'allora consigliere per la sicurezza nazionale Susan Rice. Su questo incontro si sono accesi da tempo i riflettori, visto che vi si ventilò la possibilità di incriminare il generale Mike Flynn per violazione del Logan Act, nonostante - appena il giorno prima - l'Fbi avesse chiuso le indagini su di lui in assenza di «informazioni dispregiative». Indagini che - lo stesso 4 gennaio 2017 - erano state tuttavia misteriosamente riaperte.
La scelta di ascoltare la Yates era quindi principalmente dovuta al fatto di essere stata presente a quel meeting. Che si tratti di una questione delicata è testimoniato anche dalla dura presa di posizione di Trump che, poco prima dell'audizione, aveva twittato: «Sally Yates ha zero credibilità. Faceva parte del più grande crimine politico del secolo e Obama-Biden sapevano tutto! Sally Yates ha fatto trapelare la conversazione del generale Flynn? Chiedeteglielo sotto giuramento. I repubblicani dovrebbero iniziare a giocare come fanno i democratici!». Il riferimento polemico risiedeva soprattutto nel fatto che, il 12 gennaio 2017, il Washington Post riportò la notizia - fatta trapelare illegalmente - dell'esistenza (ma non dei contenuti) delle telefonate tra Flynn e l'ambasciatore russo, Sergej Kislyak, innescando così una bufera mediatico-politica sull'amministrazione Trump (che non era ancora entrata in carica).
Ma che cosa è emerso dall'audizione di mercoledì? I fatti maggiormente rilevanti sono due. In primo luogo, la Yates ha confermato di essere stata informata delle intercettazioni di Flynn lo stesso 5 gennaio 2017 da Obama e, quindi, non da Comey. L'ex viceministro ha affermato di essersi sentita «francamente irritata», per poi aggiungere: «Ero sconvolto dal fatto che il direttore Comey non ci coordinasse con noi e abbia agito unilateralmente». A tal proposito, il senatore repubblicano Lindsey Graham le ha chiesto: «Comey ha fatto di testa sua?». Una domanda, cui la Yates ha replicato affermativamente. Si tratta di dichiarazioni gravi, perché - almeno in teoria - il Bureau dovrebbe agire sotto la supervisione del Dipartimento di Giustizia. In secondo luogo, l'altro aspetto problematico riguarda l'identità di chi propose di incriminare Flynn per violazione del Logan Act. Secondo una precedente testimonianza della Yates del 2017, sarebbe stato Comey ad avanzare l'ipotesi. Tutto questo, sebbene - stando ad alcune note manoscritte dell'allora agente Peter Strzok - la paternità dell'idea debba in realtà essere attribuita a Biden. L'audizione di ieri non ha fatto troppa chiarezza su questo punto: la Yates ha infatti detto di non poter ricordare se l'allora vicepresidente abbia parlato o meno del Logan Act. Un'affermazione che quindi non esclude affatto che l'attuale candidato democratico possa aver proposto l'incriminazione di Flynn. Un dubbio che, in campagna elettorale, potrebbe avere un discreto peso.
Certo: la Yates ha difeso a spada tratta l'indagine sul generale, aggiungendo che Obama non abbia cercato di interferire sul piano politico. «Durante l'incontro, il presidente, il vicepresidente, il consigliere per la sicurezza nazionale non hanno tentato in alcun modo di dirigere o influenzare alcuna indagine», ha affermato. L'ex viceministro ha avuto momenti di attrito con Graham sulla legittimità dell'interrogatorio di Flynn condotto dall'Fbi il 24 gennaio 2017: secondo lei, quell'interrogatorio era necessario per capire se lo stesso Flynn avesse "sterilizzato" la politica estera di Obama, che - a fine dicembre - aveva comminato alla Russia delle sanzioni per le interferenze nelle elezioni del 2016.
Ciononostante vi sono degli aspetti che non tornano. Nonostante la Yates abbia affermato che Obama non abbia esercitato influenze politiche, resta il fatto che - secondo quanto dichiarato da lei stessa - l'Fbi avesse indebitamente aggirato il Dipartimento di Giustizia nel caso delle intercettazioni di Flynn. Non solo: come detto, fu Obama in persona a informare la Yates della faccenda il 5 gennaio 2017. Un altro punto controverso riguarda le tempistiche. L'ex viceministro ha affermato che la raccomandazione di chiudere il caso Flynn sarebbe arrivata «prima che venissero a conoscenza delle conversazioni» tra Flynn e Kislyak. Ne conseguirebbe che l'interrogatorio fosse quindi legittimo. Si scorgono tuttavia alcuni punti problematici. In primo luogo, non dimentichiamo che le intercettazioni risalgano agli ultimi giorni di dicembre 2016, mentre l'Fbi decise di chiudere le indagini su Flynn il 4 gennaio 2017. E comunque, ammesso e non concesso che le cose siano andate realmente così, ricordiamo che una bozza del Dipartimento di Giustizia - recentemente desecretata - abbia mostrato che, dopo l'interrogatorio, gli agenti dell'Fbi avessero comunque stabilito che - a loro modo di vedere - il generale non avesse mentito e non fosse un agente della Russia. Tutto questo, senza dimenticare le controverse note manoscritte - pubblicate lo scorso aprile - degli agenti che si accingevano a interrogare Flynn: note in cui si lasciava intendere che l'obiettivo fosse quello di farlo licenziare dal suo incarico di consigliere per la sicurezza nazionale.
Ulteriore punto controverso riguarda il fatto che, da viceministro, la Yates - nell'ottobre 2016 - firmò l'autorizzazione per intercettare l'allora consigliere di Trump, Carter Page: autorizzazione che il Bureau aveva richiesto usando prevalentemente come base il dossier di Steel, un documento che - nel corso del tempo - si è rivelato largamente infondato (oltre che finanziato dagli avversari politici dell'attuale presidente). La Yates ha replicato di essersi fidata del Bureau in quel frangente, sottolineando che - nel suo rapporto dello scorso dicembre - l'ispettore del Dipartimento di Giustizia, Michael Horowitz, non avesse reperito prove di partigianeria politica nell'indagine dell'Fbi su alcuni componenti del comitato elettorale di Trump (l'operazione Crossfire Hurricane). Peccato che Horowitz, nel documento, abbia comunque sottolineato numerose irregolarità commesse dal Bureau e che - in un'audizione al Senato nello stesso dicembre 2019 - avesse dichiarato di non poter escludere del tutto il movente politico nelle azioni dei federali.
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Mercoledì scorso si è tenuta al Senato un'audizione dell'ex viceministro della Giustizia americano, Sally Yates, nell'ambito dell'indagine parlamentare che sta cercando di fare luce sulle controverse modalità con cui l'Fbi mise sotto inchiesta alcuni esponenti del comitato elettorale di Donald Trump per presunte collusioni con il Cremlino.In particolare, il nome della Yates ha acquisito una sempre maggior rilevanza, a causa della sua partecipazione - il 5 gennaio 2017 - a un meeting, tenutosi alla Casa Bianca, insieme a Barack Obama, Joe Biden, l'allora direttore del Bureau James Comey e l'allora consigliere per la sicurezza nazionale Susan Rice. Su questo incontro si sono accesi da tempo i riflettori, visto che vi si ventilò la possibilità di incriminare il generale Mike Flynn per violazione del Logan Act, nonostante - appena il giorno prima - l'Fbi avesse chiuso le indagini su di lui in assenza di «informazioni dispregiative». Indagini che - lo stesso 4 gennaio 2017 - erano state tuttavia misteriosamente riaperte.La scelta di ascoltare la Yates era quindi principalmente dovuta al fatto di essere stata presente a quel meeting. Che si tratti di una questione delicata è testimoniato anche dalla dura presa di posizione di Trump che, poco prima dell'audizione, aveva twittato: «Sally Yates ha zero credibilità. Faceva parte del più grande crimine politico del secolo e Obama-Biden sapevano tutto! Sally Yates ha fatto trapelare la conversazione del generale Flynn? Chiedeteglielo sotto giuramento. I repubblicani dovrebbero iniziare a giocare come fanno i democratici!». Il riferimento polemico risiedeva soprattutto nel fatto che, il 12 gennaio 2017, il Washington Post riportò la notizia - fatta trapelare illegalmente - dell'esistenza (ma non dei contenuti) delle telefonate tra Flynn e l'ambasciatore russo, Sergej Kislyak, innescando così una bufera mediatico-politica sull'amministrazione Trump (che non era ancora entrata in carica). Ma che cosa è emerso dall'audizione di mercoledì? I fatti maggiormente rilevanti sono due. In primo luogo, la Yates ha confermato di essere stata informata delle intercettazioni di Flynn lo stesso 5 gennaio 2017 da Obama e, quindi, non da Comey. L'ex viceministro ha affermato di essersi sentita «francamente irritata», per poi aggiungere: «Ero sconvolto dal fatto che il direttore Comey non ci coordinasse con noi e abbia agito unilateralmente». A tal proposito, il senatore repubblicano Lindsey Graham le ha chiesto: «Comey ha fatto di testa sua?». Una domanda, cui la Yates ha replicato affermativamente. Si tratta di dichiarazioni gravi, perché - almeno in teoria - il Bureau dovrebbe agire sotto la supervisione del Dipartimento di Giustizia. In secondo luogo, l'altro aspetto problematico riguarda l'identità di chi propose di incriminare Flynn per violazione del Logan Act. Secondo una precedente testimonianza della Yates del 2017, sarebbe stato Comey ad avanzare l'ipotesi. Tutto questo, sebbene - stando ad alcune note manoscritte dell'allora agente Peter Strzok - la paternità dell'idea debba in realtà essere attribuita a Biden. L'audizione di ieri non ha fatto troppa chiarezza su questo punto: la Yates ha infatti detto di non poter ricordare se l'allora vicepresidente abbia parlato o meno del Logan Act. Un'affermazione che quindi non esclude affatto che l'attuale candidato democratico possa aver proposto l'incriminazione di Flynn. Un dubbio che, in campagna elettorale, potrebbe avere un discreto peso.Certo: la Yates ha difeso a spada tratta l'indagine sul generale, aggiungendo che Obama non abbia cercato di interferire sul piano politico. «Durante l'incontro, il presidente, il vicepresidente, il consigliere per la sicurezza nazionale non hanno tentato in alcun modo di dirigere o influenzare alcuna indagine», ha affermato. L'ex viceministro ha avuto momenti di attrito con Graham sulla legittimità dell'interrogatorio di Flynn condotto dall'Fbi il 24 gennaio 2017: secondo lei, quell'interrogatorio era necessario per capire se lo stesso Flynn avesse "sterilizzato" la politica estera di Obama, che - a fine dicembre - aveva comminato alla Russia delle sanzioni per le interferenze nelle elezioni del 2016.Ciononostante vi sono degli aspetti che non tornano. Nonostante la Yates abbia affermato che Obama non abbia esercitato influenze politiche, resta il fatto che - secondo quanto dichiarato da lei stessa - l'Fbi avesse indebitamente aggirato il Dipartimento di Giustizia nel caso delle intercettazioni di Flynn. Non solo: come detto, fu Obama in persona a informare la Yates della faccenda il 5 gennaio 2017. Un altro punto controverso riguarda le tempistiche. L'ex viceministro ha affermato che la raccomandazione di chiudere il caso Flynn sarebbe arrivata «prima che venissero a conoscenza delle conversazioni» tra Flynn e Kislyak. Ne conseguirebbe che l'interrogatorio fosse quindi legittimo. Si scorgono tuttavia alcuni punti problematici. In primo luogo, non dimentichiamo che le intercettazioni risalgano agli ultimi giorni di dicembre 2016, mentre l'Fbi decise di chiudere le indagini su Flynn il 4 gennaio 2017. E comunque, ammesso e non concesso che le cose siano andate realmente così, ricordiamo che una bozza del Dipartimento di Giustizia - recentemente desecretata - abbia mostrato che, dopo l'interrogatorio, gli agenti dell'Fbi avessero comunque stabilito che - a loro modo di vedere - il generale non avesse mentito e non fosse un agente della Russia. Tutto questo, senza dimenticare le controverse note manoscritte - pubblicate lo scorso aprile - degli agenti che si accingevano a interrogare Flynn: note in cui si lasciava intendere che l'obiettivo fosse quello di farlo licenziare dal suo incarico di consigliere per la sicurezza nazionale. Ulteriore punto controverso riguarda il fatto che, da viceministro, la Yates - nell'ottobre 2016 - firmò l'autorizzazione per intercettare l'allora consigliere di Trump, Carter Page: autorizzazione che il Bureau aveva richiesto usando prevalentemente come base il dossier di Steel, un documento che - nel corso del tempo - si è rivelato largamente infondato (oltre che finanziato dagli avversari politici dell'attuale presidente). La Yates ha replicato di essersi fidata del Bureau in quel frangente, sottolineando che - nel suo rapporto dello scorso dicembre - l'ispettore del Dipartimento di Giustizia, Michael Horowitz, non avesse reperito prove di partigianeria politica nell'indagine dell'Fbi su alcuni componenti del comitato elettorale di Trump (l'operazione Crossfire Hurricane). Peccato che Horowitz, nel documento, abbia comunque sottolineato numerose irregolarità commesse dal Bureau e che - in un'audizione al Senato nello stesso dicembre 2019 - avesse dichiarato di non poter escludere del tutto il movente politico nelle azioni dei federali.
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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