2020-10-06
Nozze Nexi-Sia: nasce colosso da 15 miliardi
Cassa depositi e prestiti primo azionista al 25%. La nuova società di pagamenti digitali ha una super capitalizzazione e un fatturato aggregato di 1.800 milioni. Determinante il ruolo di Intesa Sanpaolo, che ieri ha anche chiuso un accordo con la svizzera ReylLa proposta di Alessandro Giglio: «Negozi vuoti, i marchi devono consorziarsi per conquistare gli ecommerce»Lo speciale contiene due articoliVia libera al matrimonio tra Nexi e Sia che darà vita a un colosso dei pagamenti digitali del valore di oltre 15 miliardi. In termini di capitalizzazione il nuovo gruppo si colloca nella top ten dei maggiori titoli quotati a Piazza Affari assestandosi, ai prezzi di ieri, al nono posto dietro a colossi come Enel, Intesa, ed Eni, con Unicredit davanti per un soffio. La paytech italiana conterà su 5.500 collaboratori in 15 Paesi, di cui oltre 4.000 impegnati in un polo tutto italiano di tecnologia e innovazione digitale, e beneficerà di ricavi aggregati pari a 1,8 miliardi. A scambiarsi le fedi sono Sia, la società che realizza e gestisce infrastrutture e servizi tecnologici per sistemi di pagamento controllata da Cassa depositi e prestiti attraverso Cdp equity, e Nexi, di fatto la ex Cartasì che fa capo ai fondi Bain, Avent e Clessidra attraverso la società veicolo Mercury. Con le nozze, il principale azionista diventerà la Cassa controllata dal Mef. L'incorporazione avverrà sulla base di un rapporto di cambio per il quale gli azionisti di Sia riceveranno 1,5761 azioni Nexi per ogni titolo Sia e gli attuali azionisti di Sia riceveranno una quota del 30% circa del capitale del nuovo gruppo. Cdp avrà una quota complessiva di poco superiore al 25% e Mercury ne avrà circa il 23% con un flottante di oltre il 40%. «Il nuovo campione dei pagamenti digitali sarà in grado di competere e crescere a livello internazionale assumendo un ruolo da vero protagonista sul mercato europeo», ha commentato ieri l'ad di Cdp, Fabrizio Palermo. Seguito dai «brindisi» del ministro del Tesoro, Roberto Gualtieri, di quello di Mise, Stefano Patuanelli, del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, e anche del premier Giuseppe Conte: «È stato compiuto un nuovo passo per accelerare il processo di digitalizzazione del nostro Paese», ha scritto su Twitter celebrando il ruolo «di investitore di lungo periodo» di Cassa depositi e prestiti.A Palazzo Chigi, al Mef e ai piani alti dei 5 stelle si intestano il successo del matrimonio, dunque. Che però non sarebbe stato mai possibile senza Intesa Sanpaolo che ha fatto da vero perno sistemico all'intera operazione e che, con un occhio al business bancario, sarà azionista del nuovo gruppo con una quota di circa il 7% riducendola dal 12% detenuto attualmente (comprendendo anche la partecipazione che aveva Ubi). A giugno, infatti, Intesa ha perfezionato l'accordo sul trasferimento a Nexi dell'attività di acquiring (cioè il business che connette l'esercente al sistema di pagamenti digitali) attualmente svolta nei confronti di oltre 380.000 punti vendita. Nexi diventa il partner esclusivo di Intesa e quest'ultima, mantenendo la relazione con la propria clientela, distribuisce i servizi di acquiring di Nexi. Intesa ha venduto a Nexi le azioni ricevute a fronte del conferimento e, con parte del corrispettivo, ha acquistato da Mercury il 9,9% di Nexi. La stessa Intesa è anche il perno di un'altra operazione di respiro europeo, ovvero dell'alleanza stretta tra Cdp e Euronext per rilevare Borsa italiana bilanciando il peso dei francesi e alzando barricate su un asset strategico (protetto dalla normativa sul golden power) proprio come le transazioni finanziarie. Il dialogo tra Cassa e il gruppo guidato da Carlo Messina si fa dunque sempre più stretto. Anche perché Cdp può contare su un margine di manovra più ampio mentre quello di Intesa è limitato dalle regole sull'assorbimento di capitale anche in termini di partecipazioni azionario. Nel gioco di equilibrio fra chi fa il «braccio» e chi la «mente» di certe operazioni, chissà se sarà proprio la banca milanese - che già sta svolgendo il ruolo di banca di sistema, a supporto dell'economia in una fase di crisi - a scendere in campo per aiutare i vertici di via Goito a uscire in fretta dalla palude Autostrade in cui sembra essersi ficcato il governo Conte. Vedremo.Nel frattempo, però, Intesa si muove anche su un altro scacchiere. Quello dei grandi patrimoni. Fideuram - Intesa Sanpaolo private banking ha infatti concluso un accordo con il gruppo svizzero Reyl per la costituzione di una partnership strategica. Fideuram acquisirà una partecipazione del 69% in Reyl e conferirà la propria controllata bancaria svizzera Intesa Sanpaolo private bank (Suisse) morval (quest'ultima, comprata nel 2018), a Reyl. Una volta finalizzata l'operazione, Intesa Sanpaolo private bank (Suisse) morval sarà incorporata in Reyl, dando origine a un gruppo bancario privato con sede a Ginevra ma presente anche nell'Unione europea, in America Latina, Medio ed Estremo Oriente. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/nozze-nexi-sia-nasce-colosso-da-15-miliardi-2648105817.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="una-holding-con-cdp-per-salvare-i-nostri-stilisti" data-post-id="2648105817" data-published-at="1601921271" data-use-pagination="False"> «Una holding con Cdp per salvare i nostri stilisti» «L'apocalisse dei negozi era già in atto, ma il lockdown le ha fatto fare un balzo in avanti di almeno cinque anni. Se non interverremo subito per salvare il made in Italy, nel giro di poche settimane tanti marchi storici falliranno o verranno comprati dagli stranieri». A parlare è Alessandro Giglio, presidente di Meridiana holding e di Giglio group, specializzato nella logistica e nell'ecommerce (fra i suoi clienti, anche Max Mara), che ha elaborato una proposta per salvare il settore. «A parte poche eccezioni, la maggioranza dei brand di moda italiani che ci hanno resi famosi nel mondo non supera i 200 milioni di euro di fatturato, e non ha la forza e l'organizzazione per spingere le vendite online a livello internazionale. Oggi però i negozi sono vuoti e a trainare le vendite sono le piattaforme web e - questo è il vero futuro - i social network: è in atto una rivoluzione copernicana. Chi non riuscirà a prendere questo treno nel giro di pochissimo sarà spazzato via: parlo di settimane, non di mesi. So che almeno 30 grandi famosi stanno già per dichiarare bancarotta». Qual è la sua idea? «Creare una sorta di consorzio che raggruppi marchi diversi. I singoli brand avrebbero totale autonomia dal punto di vista stilistico, in modo da mantenere la loro identità, ma la holding accentrerebbe settori come l'amministrazione e la logistica, con una riduzione dei costi e un'enorme capacità di penetrazione nei mercati esteri, come quelli asiatici. Noi siamo pronti a investire, insieme a un fondo cinese -già diversi si sono candidati, dobbiamo solo scegliere il partner migliore - e, almeno questo è il progetto, Cassa depositi e prestiti, direttamente o attraverso una sua controllata, con un'uscita programmata a sette anni. Per partire servono circa 60 milioni, quanto costa agli italiani mantenere in vita per un singolo giorno Alitalia. Io ho contattato diversi brand interessati, aspettano solo il progetto operativo che arriverà entro fine mese». Avete già avuto contatti con Cdp? «Abbiamo un appuntamento nei prossimi giorni. Se ci dovesse incomprensibilmente dire di no, al suo posto selezioneremo come terzo partner un altro fondo straniero. Certo, sarebbe meglio avere un supporto istituzionale... Il nostro obiettivo è aiutare le case di moda, frenare la delocalizzazione (produrremmo almeno l'80% dei capi in Italia, non ci limiteremmo ad assemblare pezzi fatti all'estero) e salvare posti di lavoro nell'indotto. A oggi l'export online per l'Italia vale circa l'8%: se salissimo al 30%, che è la media mondiale, il Pil potrebbe crescere dell'1,5-2%. Con Giglio group potremmo fin da subito far entrare i nostri “soci" in 200 marketplace nel mondo». La sua idea è creare un gruppo simile a colossi come i francesi Lvmh e Kering, che controllano marchi anche molto diversi fra loro e che negli ultimi anni hanno fatto shopping in Italia? «No, io penso più a una sorta di consorzio, non a un modello in cui c'è un padrone. D'altra parte, se non agiremo subito i nostri marchi verranno comprati o dai francesi, che se non altro hanno competenza nella moda, o dagli asiatici, a cui però spesso manca l'esperienza nel campo dello stile e della qualità dei capi. Abbiamo visto degli esempi di nomi storici distrutti per questo motivo».