2023-10-14
«Non sparate sul pianismo all’italiana. Una sfilata di geni che dura da secoli»
Vanessa Benelli Mosell, l’ultima allieva di Stockhausen presenta «Italia»: «Un disco dedicato al nostro modo di comporre per il re degli strumenti musicali. Da Scarlatti a Morricone, fino ai contemporanei: ci sono troppi tesori dimenticati». Stroppa, Cilea, Sgambati, Scarlatti, Respighi, Berio, Paradisi, Casella, Galuppi, Busoni, Malipiero. Non è la formazione di una nazionale azzurra dei tempi andati (e immune al calcioscommesse). Ma se la maggior parte di questi nomi non sembra dire granché e basta metterli in fila per far pensare a una vecchia radiocronaca di Sandro Ciotti, significa che il disco di cui stiamo per parlare era davvero necessario. L’album si intitola Italia, ma non contiene tracce di: Mameli, elmi di Scipio, arie d’opera o brani per mandolino. Offre invece un’insolita visita guidata, in 20 tappe, tra i tesori poco frequentati della letteratura pianistica nostrana. Un’esplorazione che attraversa tre secoli e nella quale non mancano nemmeno alcuni artisti stranoti: dal tridente operistico Rossini-Verdi-Puccini - per una volta alle prese con la tastiera a 88 tasti - a due top player della musica da cinema (e non solo) come Rota e Morricone (compreso il maestro dell’Ennio nazionale, Goffredo Petrassi). Concludendo con l’inventore di ‘O sole mio, Di Capua, e due compositori dei nostri tempi: Filidei (classe 1973) e Bosso (scomparso troppo presto, nel 2020). A prendere per mano l’ascoltatore guidandolo tra pagine dimenticate, snobbate o declassate a sottofondo, ci pensa Vanessa Benelli Mosell, pianista che in soli 35 anni ha già vissuto nove vite: enfant prodige nella sua Prato, globetrotter dello studio e del perfezionamento a Imola, Milano, Mosca, Londra, Parigi, concertista richiesta in tutto il mondo, ma anche ultima allieva di Karlheinz Stockhausen a Kürten e, da circa un lustro, impegnata pure nella direzione d’orchestra.Iniziamo tentando di mettere dei paletti. Oggi quale luogo riesce a chiamare «casa»?«Parigi, Vienna e, ovviamente, la Toscana».Tutte e tre assieme?«Sì, il viaggio non è ancora finito. Ho sempre fatto le valigie per la musica e continuo in questo modo. Se non avessi passato gli ultimi 16 anni fuori dall’Italia, oggi sarei sicuramente diversa. Ma non lo dico per dare un giudizio negativo sul mio Paese. Ognuno ha il suo percorso».Da enfant prodige a professionista il passaggio non è sempre indolore. A lei, che ha iniziato a esibirsi a quattro anni, com’è andata?«Non è scontato che i talenti e le abilità dei bambini preludano a una maturità artistica nell’età adulta. A ogni modo la verifica avviene per gradi». Ovvero?«Da piccoli si è inconsapevolmente incapaci e ci si sente onnipotenti. Poi, nel tempo, si scoprono i propri limiti e si diventa consapevolmente incapaci. Studiando duramente si arriva a essere consapevolmente capaci. L’ultimo stadio, quello ideale, è scoprirsi inconsapevolmente capaci. Lasciando che la musica diventi padrona di noi, senza più domandarsi cosa sia giusto e cosa no».Prima di parlare del nuovo disco, vorrei tornare su uno dei punti di svolta della sua carriera: l’incontro con il compositore tedesco Karlheinz Stockhausen. Per studiare con un protagonista della musica contemporanea del XX secolo, lei affittò una casa vicino alla sua, non lontano da Colonia, lavorando con il maestro fino all’ultimo. «La folgorazione avvenne durante un’esecuzione di Maurizio Pollini: quella musica era diversa da tutto il resto. Mi colpì sicuramente la carica rivoluzionaria di Stockhausen e la potenza della sua musica, ma anche la capacità di scrivere magistralmente per il pianoforte. Un aspetto che per molti compositori non è ovvio».Come nacque il vostro legame artistico?«L’incontro avvenne grazie a Mario Bortolotto e a Michele Dall’Ongaro. Stockhausen ascoltò le mie incisioni di alcuni Klavierstücke e mi invitò a seguirlo. Studiare un’opera con chi l’ha composta è un’esperienza unica e andare a Kürten è stato come entrare nel suo universo. Non era una persona semplice, ma mi incoraggiava molto perché percepiva tra me e il pubblico un “entusiasmo reciproco”. E questo mi ha fatto sentire in dovere di contribuire a far conoscere ancora di più le sue composizioni».Se dovesse scegliere il più importante, qual è l’insegnamento di Stockhausen da non scordare? «La musica è una - che si tratti di brani pianistici, orchestrali o elettronici - e non va divisa in compartimenti. E poi il concetto di opera d’arte totale, che lui ereditava da Richard Wagner. Seguendo questa visione, cerco di non farmi confinare in un ambito solo. Preferisco abbracciare tutto il repertorio, classico o contemporanea, che io sia al pianoforte o abbia una bacchetta in mano».Passando a Italia, la sua ultima incisione per Decca. Come le è venuta l’idea di dedicare un disco al pianismo di casa nostra? Voleva ricordare al mondo che il re degli strumenti musicali l’abbiamo inventato noi (o meglio, Bartolomeo Cristofori) o è più un «siamo italiani, oltre al Belcanto c’è di più»? «Sull’opera mi ero già concentrata con l’album Casta Diva. Adesso mi sembrava doveroso valorizzare la nostra cultura strumentale, che, glielo confermo, è poco conosciuta nel mondo».Forse anche a livello nazionale. Non tutti gli italiani sanno che nell’Olimpo del pianoforte qualche illustre concittadino può dare del tu a Bach, Beethoven e Chopin. «In effetti i compositori e le opere degne di nota non si contano, al di là delle epoche. E un disco non può certo bastare. Essere esaustiva non era comunque il mio obiettivo. Ho provato a costruire una selezione che rispondesse prima di tutto al mio gusto di ascoltatrice e, in secondo luogo, che fosse stimolante».Nicola Cattò, direttore della rivista Musica, si diverte a trovare, nel libretto dell’album, «accostamenti di compositori tra loro lontanissimi» e «che sembrano fatti a coppie, talora per simmetria, talora per opposizione». Solo a livello cronologico, ad esempio, lei prova a far stare insieme Alessandro Scarlatti ed Ezio Bosso, un brano del Settecento e uno del 2015. Oppure affianca esponenti dell’avanguardia come Luciano Berio, Marco Stroppa e Francesco Filidei a uno struggente Morricone, con il quale apre le danze.«L’esperienza con Stockhausen ha lasciato il segno e mi ha permesso di instaurare un rapporto privilegiato con la musica contemporanea. In questo ambito devo dire che il nostro Paese può vantare una qualità e una quantità di compositori impressionante».Che il grande pubblico però spesso non segue. Lei stessa, in una precedente intervista, notava, forse come conseguenza, il ritorno di chi compone «a una musica di facile comprensione». «Le difficoltà, anche a livello di lettura della partitura, spaventano gli stessi interpreti. Spesso c’è una sovrabbondanza di indicazioni di suono, tempo e dinamica. Penso al brano di Stroppa (Miniature Estrose, I libro: Birichino, come un furetto, ndr) che ho da tempo in repertorio. Non bisogna avere paura, in mezzo a tanti vincoli si può trovare un’inaspettata libertà esecutiva. Per quanto riguarda Berio ho voluto sparigliare registrando un brano (6 Encores: n.3 Wasserklavier, ndr) di facile fruizione, ispirato a Franz Schubert e Johannes Brahms».Senza svelare troppo a chi non ha ancora ascoltato il disco, lei passa da La leggenda del pianista sull’Oceano a Domenico Paradisi. Tutti quelli che pensano di non conoscere la Toccata dalla Sonata n.6 in La maggiore invece ci sentiranno la sigla dell’Intervallo Rai.«Si tratta di una pagina che amo molto e che andrebbe rivalutata. Da noi è popolarissima e allo stesso tempo ridotta a jingle, all’estero invece è sconosciuta».Proprio la «toccata» è l’elemento che sembra tenere insieme gli stili e le diverse epoche di questo percorso. Una forma strettamente legata alla tastiera e che porta con sé anche una certa idea di improvvisazione. «Sì, dal primo brano di Morricone (Playing love, ndr), che ha quel tipo di carattere e che mi dava l’idea di un sipario che si apre su tutto quello che viene dopo. Passando per Scarlatti, il già citato Paradisi, Alfredo Casella, Giovanni Sgambati e Francesco Filidei».Proprio con quest’ultimo autore dei giorni nostri lei chiude il disco. Piccolissimo dettaglio, si fa per dire: la Toccata di Filidei non prevede suoni. Il pianoforte viene inteso letteralmente per quello che è, uno strumento a percussione, senza però che un tasto si abbassi e un martelletto percuota una corda.«Non a caso non era mai stato inciso e devo dire che la Universal ha avuto coraggio a lasciarmi fare. L’esecuzione è impegnativa, Filidei ha “inventato” e indicato una ventina di segni che indicano dei “rumori” precisi da ottenere con le diverse parti del pianoforte. Da eseguire a un tempo incalzante. C’è ovviamente molta ironia da parte dell’autore, che sembra dirci: toccare non vuol dire per forza suonare».Della direzione d’orchestra parleremo alla prima occasione discografica, ma mi tolga una curiosità: anche all’estero si disquisisce così tanto sul termine da utilizzare per una donna, come «direttore/direttrice»?«No, l’inglese ci toglie dall’impaccio» (ride). «In italiano comunque preferisco direttrice, che è come scrittrice. Non credo che crei problemi a nessuno». Nemmeno io, al massimo rischia un’accusa di sovranismo musicale o di mancato rispetto delle quote rosa, essendo l’unica donna nel disco. Sciocchezze a parte, esiste ancora, in conclusione, una scuola, un dna musicale italiano?«Certamente e ha almeno due elementi imprescindibili: il nostro melodramma, connubio perfetto tra la musica e la vita delle persone, e una produzione strumentale che, soprattutto dal Novecento a oggi, è costellata da una miriade di geni. Su questo non temiamo rivali».
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