2018-06-06
Non solo navi militari. La Cina alla conquista dall'Australia con studenti e manager
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Il leader Xi Jinping ha promesso di seppellire il «secolo dell'umiliazione» e far tornare il Dragone in primo piano sullo scacchiere internazionale. Anche a costo di usare le sue «armi magiche». Alle tensioni con gli Usa nell'Oceano Indiano e con Canberra nel Pacifico si aggiunge il ruolo di alcune figure al soldo del Partito sbarcate in terra di canguri per influenzare la politica e la società.Consolidata la sua presidenza cancellando i limiti costituzionali di mandato, il leader cinese Xi Jinping è pronto a rafforzare la presenza e l'influenza del suo Paese nelle acque che lo circondano. E non è soltanto l'Oceano Pacifico, come dimostra la recente decisione da parte del Dipartimento di Stato statunitense di cambiare il nome del Comando del Pacifico, in Comando dell'Indopacifico. Una decisione che per gli Usa, che hanno già consolidato i rapporti con l'India, prova a rafforzare i legami nella regione, «aperta agli investimenti e al commercio libero, equo e reciproco, non vincolato dall'economia predatoria di nessuna nazione o da minacce di coercizione, perché l'Indopacifico ha molte vie», ha detto il segretario alla Difesa James Mattis. E il riferimento sembra chiaro, alla Cina.Particolare attenzione, infatti, Pechino l'ha riservata negli ultimi tempi all'Oceano Pacifico, rinnovando le frizioni con gli Stati Uniti e i suoi alleati. Tuttavia, non vanno trascurate le mire di Xi Jinping sull'Oceano Indiano, vista la funzione di autostrada delle petroliere che viaggiano verso i poli industrializzati dell'Asia orientale dal Medio Oriente, un'area di estremo interesse per Pechino come dimostra il fatto che la prima base militare cinese all'estero sia stata aperta nel 2017 a Gibuti, sul sullo stretto di Bab El Mandeb che unisce il Golfo di Aden e il Mar Rosso.Ma è il Pacifico l'area di maggiore attività delle forze cinesi. Basti pensare alla vicenda di una villetta a Tahiti utilizzata da Pechino come sede del consolato nell'isola della Polinesia francese. I diplomatici cinesi sono stati accusati di aver occupato illegalmente il Residence Taina, un edificio in stile coloniale nei pressi della capitale Papeete, che avevano affittato nel 2007. Ma il contratto è scaduto a fine febbraio e ora, visto che gli uomini di Pechino non hanno né rinnovato l'accordo né tantomeno lasciato la villetta, la proprietaria, la settantaseienne Huguette Ly, e sua figlia, Eva Bitton, hanno dato un ultimatum di sei mesi per lasciare la struttura, infastidite anche dai litigi sul canone, dalla manutenzione della proprietaria e dal rifugio del consolato cinese di pagare le tasse per la raccolta dei rifiuti e le bollette dell'acqua durante i dieci anni di affitto. Le padrone di casa accusano la Cina di non aver rispettato i patti: «È andato tutto per i primi tre o quattro anni, poi le cose sono cambiate», ha spiegato la signora Bitton. «Hanno trasformato la casa. Da sistemazione per il console è diventata un ufficio pubblico per i visti con tanto di satellite sul tetto». Dopo la mediazione degli avvocati, padrone di casa e Pechino hanno raggiunto un accordo: i diplomatici potranno rimanere fino alla fine di agosto.Come ha spiegato la professoressa Anne-Marie Brady, studiosa di scienza politica all'università neozelandese di Canterbury, ha detto che il caso è l'esempio del dilemma dei popoli del Pacifico che si trovano a dove affrontare l'espansionismo del Dragone. E l'ultimo di questi Paesi preoccupati dall'avanzata cinese è l'Australia, il cui premier, Malcolm Turnbull, ha puntato il dito contro la militarizzazione cinese del Mar cinese meridionale, area su cui Pechino reclama la sovranità mentre gli Stati Uniti e i loro alleati parlano di libera navigazione (come dimostrato le recenti installazioni di forze cinesi nell'arcipelago delle Spratly, fondamentalmente per i traffici navali). La sinistra ha sminuito derubricando i recenti fatti a semplice successione di incidenti isolati o casuali e accusato il premier e leader del Partito liberale di voler scatenare una nuova Guerra fredda.Turnbull ha promesso di risolvere le tensioni nel corso dei prossimi bilaterali ma potrebbe non bastare nel lungo termine. Infatti, secondo un recente rapporto del Center for strategic and budgetary assessments di Washington intitolato Countering comprehensive coercion, la Cina starebbe conducendo operazioni di political warfare, ossia di interferenze. Alcuni alti funzionari cinesi hanno spiegato alcuni mesi fa alle commissioni parlamentari che le attività di spionaggio su suolo australiano sono ora più intense che al culmine della Guerra fredda nei primi anni Ottanta. E ancora, studenti, manager, politici e sindacalisti al soldo di Pechino per smorzare le idee anticinesi nella società e nella cosa pubblica.Il Partito comunista è deciso a superare il cosiddetto «secolo di umiliazione» e di sottomissione all'Occidente e il leader Xi Jinping ha promesso, durante il congresso dello scorso ottobre, di voler riportare la Cina a essere leader globale in termini di potenza nazionale e influenza internazionale. E gli oceani e i Paesi che lo circondano sono i primi target. Contro cui Xi Jinping sarebbe pronto anche a utilizzare, come raccontano alcuni documenti del Partito tradotti da Anne-Marie Brady in un suo lavoro per il Wilson center di Washington, le sue «armi magiche», interferenze e denari in grado, secondo l'esperta, di minacciare la sovranità e l'integrità del sistema politico degli Stati obiettivo di Pechino.Le tensioni tra Australia e Cina preoccupano i produttori di vino austrialiani, che temono ripercussioni su una delle prime piazze del loro export. Un mercato che quest'anno potrebbe garantire oltre un miliardo di dollari australiani (oltre 650 milioni di euro) di vendite. Ma forse, come accade nel dibattito italiano sulle sanzioni contro la Russia di Vladimir Putin che vede la Coldiretti tra i principali sostenitori dell'abolizione, ci sarebbe da chiedersi qual è il prezzo nascosto degli scambi commerciali con certi Paesi.
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