2020-06-16
Non si può debellare un’epidemia in tribunale
Fare luce sulla mancata zona rossa a Nembro e Alzano è sacrosanto. Ma se lo Stato lascia, per paura o per calcolo, l'ultima parola a una sentenza, sarà una sconfitta. E significherà che dallo scempio di Mani pulite non abbiamo imparato proprio nulla.«Non vogliamo diventare i monatti di Mani pulite». Il grido d'allarme arrivò da un giovane magistrato di Brescia, Angelo Antonio Chiappani, 25 anni fa quando quella Procura fu travolta dalle inchieste su Antonio Di Pietro. La metafora manzoniana rimase inascoltata. Fu soffocata dalla canea di chi pretendeva - a torto o a ragione - che giudici e pm cercassero casa per casa i cadaveri della Prima repubblica, forzassero gli armadi per rinvenirne gli scheletri e gettassero tutti sul carretto diretto alla pira purificatrice. Uno scempio politico mentre le telecamere riprendevano la scena.Oggi l'autore di quella battuta è procuratore capo a Bergamo ed è difficile che non avverta il peso del contrappasso: sarà ancora lui a correre il rischio di diventare un monatto perfino più paradossale, quello della pandemia. Lui al culmine di un percorso professionale di prim'ordine. Lui che arriva dopo la frase della collega Maria Cristina Rota sulle responsabilità di Giuseppe Conte sulla mancata zona rossa a Nembro e Alzano. Lui che prende il comando (la sede era vacante da oltre un anno) proprio mentre infuria l'indignazione governativa. Lui che compare nelle intercettazioni dello scandalo Palamara. Sembra un puzzle perfetto, sono solo fatti concatenati che ci rivelano una triste verità: 25 anni sono trascorsi invano.Siamo ancora qui. A utilizzare gli stessi riflessi condizionati, a invocare inchieste, ad attendere sentenze per attribuire loro conseguenze politiche. Siamo ancora qui - mentre la classe dirigente è rinchiusa a Villa Pamphili in un surreale Todo Modo postdemocristiano - a delegare ai giudici il potere di scegliere chi guiderà il Paese. Sia chiaro, se Palazzo Chigi ha responsabilità è giusto che emergano ed è già importante che l'omerico scaricabarile del premier sia stato smascherato. Vogliamo però ripartire dal giorno zero: in un Paese civile non può essere un tribunale a giudicare un'epidemia mondiale. A decidere se i tempi e i modi di combattere un virus letale arrivato dalla Cina dopo due mesi di omertà di Pechino siano stati corretti da parte di medici, virologici, anestesisti, tecnici di laboratorio, amministratori di ospedali, assessori e ministri della Sanità. Ma sarà così, il grottesco è la nostra cifra istituzionale. Sarà così perché il palcoscenico è già stato allestito e il circo è pronto: comitati con striscioni, sindacalisti arrabbiati, accusatori dell'ultima ora, chiamate in correo per invidie di categoria, minacce di morte per sentenze mediatiche già confezionate. Vecchia storia. Notizie chiave nascoste a riga 44, generici titoli stragisti (esempi di scuola in Lombardia). Oggi divoratori di involtini senza memoria lanciano accuse di inettitudine dai loro talk show. Manca il popolo dei fax e siamo a Tangentopoli. Unici al mondo senza pudore a caccia degli untori. Nel frattempo la politica non dà segni di vita. Tutti nascosti dietro la toga di turno (si prevedono più processi) sperando che peschi la carta giusta come un sorteggio di Champions. Con l'aggravante che le allegre conversazioni di Luca Palamara hanno restituito ai cittadini un mondo giudiziario tutt'altro che equilibrato e terzo e indipendente. È da mezzo secolo che l'Italia delega ai tribunali la propria Storia. Per evanescenza della politica abbiamo lasciato ai magistrati l'esclusivo peso della lotta alla mafia (ce lo ricordano le targhe in memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino). Per incapacità di governo e opposizione abbiamo investito solo le Procure della lotta al terrorismo: due leggi speciali e corone di fiori per i pm uccisi. Per subalternità di un'intera classe dirigente abbiamo assistito alla decimazione della Prima repubblica nell'ordalia selettiva mediatico-giudiziaria e poi nella demonizzazione di Silvio Berlusconi. Un virus con l'elmetto a punta è perfetto per l'ennesimo regolamento di conti: epidemia colposa per i più sfortunati e dividendo politico per gli altri. In mezzo le tricoteuse. Questa volta è perfino più facile. Agli imputati non si contesterà ciò che hanno fatto ma ciò che non hanno fatto. In giuridichese, il nesso di causalità. Si cerca «la prova diabolica» (copyright di Carlo Nordio), sostenendo che se il malcapitato avesse fatto ciò che doveva fare lo tsunami epidemiologico che ha schiantato il pianeta non si sarebbe verificato. Neanche Bruce Willis in Armageddon, ma guai a dirlo. Come per i sismologi de L'Aquila, accusati di non avere previsto il terremoto; dibattimento galileiano che tutto il mondo rilanciò per la sua intrinseca follia. Qui, dove l'afflittività del processo è più grande di quella della pena, si rischia una nuova stagione di barbarie mentre il Paese è in ginocchio. Davanti a una pandemia l'aridità della visione leguleia è solo asfissia della ragione. Lo diciamo con la massima comprensione per chi cerca di lenire il dolore famigliare in un'aula di giustizia e con la massima disistima per chi cerca crediti elettorali. Il virus cinese è stata un'immensa tragedia collettiva; da Sergio Mattarella all'ultimo dei sottosegretari, tutti hanno il dovere di dare risposte politiche e di difendere il Paese come prevede la Costituzione. Devono rinforzare le strutture sanitarie, scegliere esperti di valore e istituire una Commissione d'inchiesta per far emergere eventuali responsabilità organizzative. L'ultima parola non può essere una sentenza.
Lo ha dichiarato il presidente del Consiglio europeo in occasione del suo incontro con il premier greco Kyriakos Mitsotakis.
Antonella Bundu (Imagoeconomica)