2023-03-08
«No ai tamponi» quando servivano
Mentre il morbo poteva essere tracciato, gli esperti bocciavano i test. Per Franco Locatelli (Cts) farli agli asintomatici era inutile: «Non contagiano». Cambiò idea, ma ormai era tardi.I voltafaccia dei cosiddetti esperti in tema di pandemia sono stati clamorosi anche sui tamponi. Le carte della Procura di Bergamo ripercorrono quelle posizioni iniziali, di totale chiusura a fare i test sugli asintomatici. Il 22 febbraio 2020, il ministero della Salute emetteva la circolare n. 5443 in cui precisava: «L’esecuzione dei tamponi è riservata ai soli casi sintomatici di Ili (influenza like illness, sindrome simil influenzale, ndr) e Sari (severe acute respiratory infections, infezione respiratoria acuta grave, ndr), oltre che ai casi sospetti Covid-19». Il 24 febbraio si riunisce il Cts, che prende atto «dell’incremento rapido del numero totale dei contagiati in Italia», però ritiene che «in assenza di sintomi il test non è giustificato, in quanto non fornisce un’informazione indicativa a fini clinici ai sensi delle definizioni di “caso”». Si moltiplicavano i focolai, ma non venivano utilizzati tamponi su larga scala. Sempre il Cts, coordinato dal presidente del Consiglio superiore di sanità, Franco Locatelli, dichiara che «le comunicazioni di positività non assodate a sintomi determinano una sovrastima del fenomeno sul Paese, rendendo i dati non omogenei con gli altri diffusi dall’Oms». Osservano, i pm di Bergamo, che gli esperti fanno questa osservazione «dimenticando, però, che la definizione di caso valeva solo ai fini di segnalazione, statistici, di sorveglianza, non a fini clinici». In questo modo, invece, si perse subito il tracciamento degli asintomatici, che sarebbe stato di fondamentale importanza. Due circolari dopo, ne esce una «con allegato un documento redatto dal Consiglio superiore di sanità e sottoscritto dal dottor Franco Locatelli, sotto forma di appunto per il ministro della Salute», segnalano gli inquirenti bergamaschi. Il presidente del Css informava che «alla data del 26 febbraio 2020, il livello d’infettività nel corso delle fasi asintomatiche/prodromiche delle infezioni da Sars-CoV-2 non è compiutamente noto, in quanto, a nostra conoscenza, non sono stati, ad oggi, pubblicati dati su ampie casistiche e con conferma dei dati medesimi in ulteriori e successive pubblicazioni». Le due segnalazioni, di «apparente trasmissione» in Cina, da un soggetto asintomatico, non avevano avuto «ulteriori riscontri nella letteratura medica a oggi disponibile», fa sapere Locatelli. Conclude la relazione affermando che, per il gruppo di lavoro permanente, costituito il 5 febbraio nell’ambito del Css, «trasferire un numero elevato di campioni che risulteranno poi essere, nella larghissima maggioranza dei casi, negativi a laboratori di virologia […] non sia scientificamente giustificabile e rischi di esitare in un danno per altre priorità sanitarie di ordine virologico/infettivologico». La priorità, in quel momento, era tentare di arginare la pandemia Covid, quindi era del tutto ingiustificata la scusa di non concentrare il lavoro dei laboratori sui test. Semmai, mancavano laboratori. Il presidente del Cts, a febbraio non riteneva utile monitorare gli asintomatici, ma a giugno aveva cambiato idea. «Abbiamo delle pubblicazioni scientifiche che documentano come anche un asintomatico può avere carica virale significativamente elevata» e dunque «i soggetti asintomatici hanno la possibilità di infettare», dichiarò a Sky Tg24.Due mesi dopo, dalle pagine del Corriere della Sera raccomanda ai vacanzieri «senso di responsabilità. Il virus circola e nel 27% circa dei casi viaggia con gli asintomatici. Rischiamo di poter essere magari contagiati da persone che stanno bene». E noi eravamo nelle mani di questi personaggi, che decidevano su tracciamento e chiusure brancolando nel buio fitto.Tornando al 21 febbraio 2020, Benedetta Allegranzi, responsabile mondiale del servizio prevenzione e controllo delle infezioni dell’Oms, scrive all’allora direttore scientifico dello Spallanzani, Giuseppe Ippolito, e a Brusaferro. Si mette a «completa disposizione» e dichiara di essere «sconvolta che si parli di quarantena di Paesi e di tampone a tutti». Le risponde Ippolito: «Concordo che i tamponi sono una risposta non appropriata in queste condizioni, sia per il volume di attività difficile da gestire che per la difficoltà di interpretarne i risultati al di fuori di studi specifici». Avete letto bene, i tamponi sarebbero stati inutili per gli esperti del Covid. Pronti a prendere cantonate, anche per la diffusa ignoranza della lingua inglese. Il 26 febbraio 2020, Anna Caraglia, a capo della segreteria tecnica della prevenzione al ministero della Salute, inviava ai colleghi la nuova definizione di «caso», per il quale bisognava fare il tampone. «Pazienti con infezione respiratoria acuta (insorgenza improvvisa di almeno uno dei seguenti: tosse, febbre, respiro corto) che richiedono il ricovero o meno, e che nei 14 giorni precedenti l’insorgenza dei sintomi ha soddisfatto almeno uno dei seguenti criteri epidemiologici…».Il 2 marzo, però, Alberto Arrighini di Spedali civili di Brescia le scrive dicendo che gli era sorto «un dubbio leggendo il documento del Css; a pag 3 dello stesso, quando si citano i lavori di Cheng e Al-Abdely, si dice che il picco dell’infettività sembra collocarsi nei 7-10 giorni antecedenti l’esordio della malattia; ma gli articoli parlano dei primi 7-10 giorni “after onset”... sono io che non capisco?». La Caraglia risponde che aveva «ragione, c’è un refuso infatti a pag 3, invece di antecedenti devi leggere successivi… anche gli scienziati sbagliano nella fretta». Quisquilie, senza dubbio. Sulla pelle di milioni di italiani.