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Oltreoceano si valuta di potenziare la deterrenza. Per colpire in profondità però occorrono dati d’intelligence.
Analista di sicurezza
Lontano dal dibattito pubblico, negli ambienti della difesa e dell’intelligence statunitense si sta sviluppando un confronto pragmatico: se l’Occidente vuole davvero porre fine al conflitto in Ucraina, limitarsi a fornire armi è necessario ma non sufficiente. Ciò che conta di più è dare a Kiev la capacità di colpire con precisione il punto in cui il danno nasce: fabbriche di assemblaggio, depositi, centri logistici e linee di rifornimento russe. Ed è qui che entra in gioco il Tomahawk, se abbinato a qualcosa di ancor più decisivo: l’intelligence che rende questo sistema d’arma veramente efficace.
La portata, l’affidabilità e la capacità di impatto del sistema missilistico Tomahawk sono note e rispettate, ma ciò che lo rende particolarmente efficiente è la possibilità di integrarlo con sistemi di guida avanzata. Come sottolineano diversi strateghi, se impiegato al massimo delle sue potenzialità, il Tomahawk consente di colpire «l’arciere» e ridurre così la minaccia rappresentata dalle sue frecce. Colpendo le linee di assemblaggio, i depositi e i centri logistici russi, la densità degli attacchi di droni e missili a basso costo contro l’Ucraina comincerebbe a diminuire sensibilmente.
Tuttavia, anche il miglior missile resta solo uno strumento senza i dati che lo guidano. Come ha osservato una fonte: «Un missile senza intelligence è poco più di un tubo volante con capacità distruttiva.» Il passo in discussione a Washington non riguarda semplicemente il trasferimento di sistemi missilistici a lunga gittata, ma il loro abbinamento a dati di geolocalizzazione, immagini satellitari, Sigint e targeting in tempo reale. In sostanza, le misure di supporto che trasformano una capacità distruttiva in una capacità distruttiva strategica. Dal punto di vista operativo, colpire le linee di rifornimento e gli asset in profondità all’interno del territorio russo ridurrebbe drasticamente la capacità di Mosca di sostenere il conflitto in corso. Politicamente, aumentando in modo palese la capacità offensiva di Kiev, il messaggio sarebbe inequivocabile.
Gli osservatori a Washington sottolineano che questo cambio di passo è stato accelerato da un mutamento di tono ai vertici: l’atteggiamento di Donald Trump verso la Russia si è irrigidito negli ultimi mesi, e la sua impazienza per la resistenza di Vladimir Putin a un accordo di cessate il fuoco sembra aver eroso la cautela iniziale. Parallelamente, alti ufficiali e consiglieri militari hanno chiesto in modo discreto una linea più ferma. Per molti leader in uniforme, solo una capacità visibile - e supportata da intelligence - di colpire in profondità nel territorio russo può modificare il corso del conflitto e, soprattutto, ristabilire la deterrenza.
A rendere la decisione ancora più urgente è una preoccupazione molto discussa negli ambienti della sicurezza britannici e americani: il timore che le recenti incursioni russe e l’uso di droni sui territori della Nato non siano test per misurare le reazioni o individuare vulnerabilità, ma segnali espliciti. Questa valutazione è fondamentale, perché la deterrenza si fonda tanto sulla percezione quanto sulla capacità. Anche solo l’idea che Washington sia pronta a combinare i Tomahawk con un’intelligence operativa modifica quella percezione. Il messaggio sarebbe chiaro: il «santuario» in profondità non esiste più, e quindi la protezione della macchina bellica russa è cambiata e deve essere ricalcolata.
I rischi sono evidenti - escalation, dispute legali, conseguenze diplomatiche - ma la convinzione prevalente negli ambienti della difesa e della sicurezza è netta: il pericolo maggiore è la continua esitazione.
Un’azione calcolata, basata su un’intelligence solida, volta a degradare o distruggere gran parte delle basi produttive e delle catene di approvvigionamento russe, comporta rischi, che vanno pesati rispetto alla costante erosione della credibilità occidentale. L’atmosfera tra consiglieri e decisori appare pragmatica e impaziente, e l’era del «vincere lentamente» sta perdendo sostenitori.
Se i Tomahawk verranno affiancati dai dati di puntamento e dall’intelligence in tempo reale necessari per impiegarli in modo efficace, l’impatto modificherà non solo lo scenario del campo di battaglia, ma rappresenterà anche una decisione politica che segnala una nuova volontà di essere presi sul serio. Per Washington, sarebbe il messaggio più significativo finora: la determinazione, non la prudenza, detterà ormai il ritmo.
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La folla inneggia al leader di Hezbollah, Sayyed Hassan Nasrallah (Getty Images)
- Con i continui tafferugli al confine con il Libano, il rischio escalation è dietro l’angolo. Ma se la formazione sciita costringesse Israele all’intervento, creerebbe un danno a Teheran. Che intende tenere alta la tensione per boicottare gli accordi di Abramo.
- Giorgia Meloni in Mozambico assieme all’ad di Eni. Con il Medio Oriente in fiamme, servono più fonti.
Lo speciale contiene due articoli.
Mark Lowe, Direttore Monact Risk Assessment Services
Pietro Zucchelli, Analista Mena
La sera dell’11 ottobre le sirene israeliane nelle aree di confine con il Libano hanno lanciato un allarme a seguito dell’avvistamento di velivoli nemici non identificati. Il mattino seguente, il tenente colonnello dell’esercito israeliano Richard Hecht ha affermato che la notizia di un’invasione aerea tramite l’utilizzo di parapendii o droni provenienti dal Libano erano frutto di un errore umano. Nonostante questo falso allarme, la situazione nel Nord di Israele rimane tesa e la paura di un’invasione del Paese da parte di Hezbollah rimane alta.
Già nei giorni precedenti, le dichiarazioni di Israele e degli Stati Uniti d’America hanno permesso di comprendere quelle che sarebbero le possibili conseguenze di un coinvolgimento di Hezbollah nel conflitto in corso. Il primo ministro libanese, Najib Mikati, è stato informato che il suo Paese sarà considerato responsabile di qualsiasi escalation causata dal gruppo sciita libanese. In particolare, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America ha chiarito che l’arrivo della portaerei Gerald Ford nel Mediterraneo orientale ha uno scopo di deterrenza nei confronti di altri attori che intendano aprire altri fronti contro Israele. Da parte sua, Najib Mikati ha rassicurato le parti affermando di non avere intenzione di coinvolgere il suo Paese, già attraversato da una profonda crisi economica, in un conflitto che rischierebbe di far sprofondare il Libano in un baratro.
Nonostante le rassicurazioni, tutti gli attori in questione sono consapevoli del debole controllo che il governo libanese esercita su Hezbollah. Al momento, il gruppo sciita libanese sembra aver optato per la cautela. Pur essendosi congratulato con Hamas per l’operazione al-Aqsa Flood e dichiarando che qualsiasi invasione su larga scala della Striscia di Gaza implicherà il proprio coinvolgimento nel conflitto, non ha tuttavia condotto operazioni significative contro Israele. Questo atteggiamento sembra essere confermato dalla decisione di non rivendicare i recenti attacchi dimostrativi che hanno interessato l’area contesa delle fattorie Sheeba, nascondendosi dietro il cappello di organizzazioni palestinesi attive in Libano.
Tutti gli attori in campo sembrano essere consapevoli di alcuni fattori. In primo luogo, è chiaro che qualsiasi azione proveniente dal Libano che vada oltre ad un’operazione dimostrativa, costringerebbe Tel Aviv ad avviare operazioni di bombardamento delle postazioni di Hezbollah in Libano, che coinvolgerebbero sicuramente anche Beirut. Uno scenario di questo tipo potrebbe facilmente degenerare in una vera e propria invasione da parte dell’esercito israeliano. In secondo luogo, tutti gli attori sono consapevoli dello scarso controllo esercitato dal governo provvisorio del Libano sul gruppo islamico sciita, il quale è storicamente una pedina dell’Iran. Infine, una escalation degli eventi in quest’area innescherebbe una reazione a catena che non recherebbe vantaggio a nessuna delle parti.
Una delle domande che sorge spontanea a questo punto è: che livello di potere decisionale hanno i leader di Hezbollah riguardo all’attacco a Israele? L’organizzazione dovrà chiedere il permesso a Teheran o, al contrario, l’Iran darà ordini specifici per attaccare Israele?
Considerate le circostanze, appare poco plausibile che Teheran dia l’ordine ad Hezbollah di entrare nel conflitto in corso. In questo caso, la Repubblica islamica correrebbe un rischio troppo alto di perdere quella che è la sua più potente pedina da usare contro le iniziative americane e israeliane nell’area. Inoltre, l’entrata diretta nel conflitto da parte di Hezbollah rischierebbe di portare al coinvolgimento di altre milizie filo-iraniane presenti nei Paesi mediorientali (gli Houti in Yemen e Kataib Hezbollah in Iraq), rendendo da una parte evidente il coinvolgimento iraniano nella guerra contro Israele e dall’altra rischiando di perdere importanti pedine nello scacchiere mediorientale. In questo modo la Repubblica islamica rischierebbe di mettere a repentaglio quel ruolo di potenza regionale che ha rinforzato dall’invasione americana dell’Iraq del 2003, mantenendo un atteggiamento di basso profilo, infiltrandosi nelle amministrazioni politiche e nelle strutture militari e paramilitari di molti Paesi dell’area mediorientale.
Da queste considerazioni appare evidente che l’Iran abbia molto da perdere nel caso di un intervento diretto di Hezbollah nella guerra contro Israele. Al contrario, sembra che la scelta migliore per Teheran sia quella di mantenere la pressione a Nord, attraverso continue operazioni dimostrative condotte di miliziani, sperando che un prolungamento del conflitto contro i palestinesi mini il processo di riavvicinamento tra l’Arabia Saudita e Israele. Sebbene sia poco probabile che l’Iran decida di sacrificare Hezbollah, il rischio di un’escalation è tuttora in corso. I continui attacchi dimostrativi contro Israele, oltre che la possibilità di un errore di valutazione da parte di Hezbollah nel calibrare la dimensione di questi attacchi, costringerebbero Israele ad intervenire militarmente, innescando così quella reazione a catena che nessuno degli attori in questione sembra desiderare.
Meloni visita Mozambico e Congo per blindare l’import di gas liquefatto
Con la crisi energetica aggravata dal recente conflitto tra Israele e Hamas, ieri il presidente Giorgia Meloni ha iniziato la sua missione tra Mozambico e Congo con l’obiettivo di avviare un processo di diversificazione dell’approvvigionamento di gas attraverso la costruzione di rapporti solidi con i due Paesi africani.
La prima tappa è stata a Maputo, accolta dall’ambasciatore Gianni Bardini, per incontrare il presidente della Repubblica del Mozambico, Felipe Nyusi. «Sono molto contenta di essere qui», ha detto il premier Meloni, «tenevo a esserci e, anche nella delicata situazione internazionale, ho voluto garantire questa visita», ha detto il presidente del Consiglio. «Credo si veda che questo governo italiano è particolarmente attento al ruolo che i Paesi e il continente africano giocano nell’attuale contesto», ha proseguito. «E credo si veda che la nostra idea è costruire da parte dell’Europa un approccio nuovo con l’Africa che non sia predatorio e paternalistico. È esattamente quello che accade qui in Mozambico, particolarmente all’interno di progetti legati all’energia. Il governo italiano considera l’energia un fattore decisivo, soprattutto nel partneriato tra Europa e Africa».
Non è un caso, insomma, se tra i punti affrontati durante l’incontro a Maputo vi siano progetti di cooperazione economica ed energetica. Per questo insieme al governo era presente anche una delegazione di Eni, guidata dall’amministratore delegato Claudio Descalzi.
Eni, d’altronde, è da sempre presente in Mozambico e Congo con progetti importanti che di certo faranno bene al fabbisogno energetico nazionale. Ad esempio, in Mozambico, tra il 2011 e il 2014, il cane a sei zampe ha trovato al largo delle coste settentrionali, nel bacino di Rovuma, diversi giacimenti di gas, tra cui Coral south, già in produzione (avviato nel novembre 2022). La produzione e liquefazione del gas avviene interamente offshore tramite l’impianto galleggiante Coral Sul Flng, con una capacità di liquefazione di circa 3,4 milioni di tonnellate all’anno di gas naturale liquefatto. Dall’avvio della produzione sono stati effettuati 30 carichi di gnl e 5 di condensati.
In Congo Eni è presente dal 1968 con attività di esplorazione e produzione sia onshore che offshore, per una produzione di circa 80,000 barili nel 2022. A novembre dell’anno scorso il gruppo ha deciso di investire in Congo Lng, il primo progetto per la liquefazione e l’export del gas del Paese. Congo Lng vedrà l’installazione di due impianti galleggianti di liquefazione del gas naturale: il primo avrà una capacità di liquefazione di 0,6 milioni di tonnellate all’anno di gas naturale liquefatto e avvio previsto alla fine del 2023; il secondo, attualmente in costruzione e con avvio previsto nel 2025, porterà la capacità complessiva di liquefazione a 3 milioni di tonnellate. Eni commercializzerà il 100% del gas liquefatto prodotto. Stando alle previsioni, l’Italia si appresta a ricevere dal Mozambico un miliardo di metri cubi di gas naturale liquefatto (Gnl) nell’inverno 2023-2024 e circa 4 miliardi di metri cubi nell’inverno 2024-2025. Dal Congo invece l’Italia riceverà fino a un miliardo di metri cubi di gas naturale liquefatto per l’inverno 2023-2024, e fino a 4,5 miliardi per il 2025-2026.
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