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2023-10-14
L’Iran vuole che Hezbollah abbai e non morda
La folla inneggia al leader di Hezbollah, Sayyed Hassan Nasrallah (Getty Images)
Mark Lowe, Direttore Monact Risk Assessment Services
Pietro Zucchelli, Analista Mena
La sera dell’11 ottobre le sirene israeliane nelle aree di confine con il Libano hanno lanciato un allarme a seguito dell’avvistamento di velivoli nemici non identificati. Il mattino seguente, il tenente colonnello dell’esercito israeliano Richard Hecht ha affermato che la notizia di un’invasione aerea tramite l’utilizzo di parapendii o droni provenienti dal Libano erano frutto di un errore umano. Nonostante questo falso allarme, la situazione nel Nord di Israele rimane tesa e la paura di un’invasione del Paese da parte di Hezbollah rimane alta.
Già nei giorni precedenti, le dichiarazioni di Israele e degli Stati Uniti d’America hanno permesso di comprendere quelle che sarebbero le possibili conseguenze di un coinvolgimento di Hezbollah nel conflitto in corso. Il primo ministro libanese, Najib Mikati, è stato informato che il suo Paese sarà considerato responsabile di qualsiasi escalation causata dal gruppo sciita libanese. In particolare, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America ha chiarito che l’arrivo della portaerei Gerald Ford nel Mediterraneo orientale ha uno scopo di deterrenza nei confronti di altri attori che intendano aprire altri fronti contro Israele. Da parte sua, Najib Mikati ha rassicurato le parti affermando di non avere intenzione di coinvolgere il suo Paese, già attraversato da una profonda crisi economica, in un conflitto che rischierebbe di far sprofondare il Libano in un baratro.
Nonostante le rassicurazioni, tutti gli attori in questione sono consapevoli del debole controllo che il governo libanese esercita su Hezbollah. Al momento, il gruppo sciita libanese sembra aver optato per la cautela. Pur essendosi congratulato con Hamas per l’operazione al-Aqsa Flood e dichiarando che qualsiasi invasione su larga scala della Striscia di Gaza implicherà il proprio coinvolgimento nel conflitto, non ha tuttavia condotto operazioni significative contro Israele. Questo atteggiamento sembra essere confermato dalla decisione di non rivendicare i recenti attacchi dimostrativi che hanno interessato l’area contesa delle fattorie Sheeba, nascondendosi dietro il cappello di organizzazioni palestinesi attive in Libano.
Tutti gli attori in campo sembrano essere consapevoli di alcuni fattori. In primo luogo, è chiaro che qualsiasi azione proveniente dal Libano che vada oltre ad un’operazione dimostrativa, costringerebbe Tel Aviv ad avviare operazioni di bombardamento delle postazioni di Hezbollah in Libano, che coinvolgerebbero sicuramente anche Beirut. Uno scenario di questo tipo potrebbe facilmente degenerare in una vera e propria invasione da parte dell’esercito israeliano. In secondo luogo, tutti gli attori sono consapevoli dello scarso controllo esercitato dal governo provvisorio del Libano sul gruppo islamico sciita, il quale è storicamente una pedina dell’Iran. Infine, una escalation degli eventi in quest’area innescherebbe una reazione a catena che non recherebbe vantaggio a nessuna delle parti.
Una delle domande che sorge spontanea a questo punto è: che livello di potere decisionale hanno i leader di Hezbollah riguardo all’attacco a Israele? L’organizzazione dovrà chiedere il permesso a Teheran o, al contrario, l’Iran darà ordini specifici per attaccare Israele?
Considerate le circostanze, appare poco plausibile che Teheran dia l’ordine ad Hezbollah di entrare nel conflitto in corso. In questo caso, la Repubblica islamica correrebbe un rischio troppo alto di perdere quella che è la sua più potente pedina da usare contro le iniziative americane e israeliane nell’area. Inoltre, l’entrata diretta nel conflitto da parte di Hezbollah rischierebbe di portare al coinvolgimento di altre milizie filo-iraniane presenti nei Paesi mediorientali (gli Houti in Yemen e Kataib Hezbollah in Iraq), rendendo da una parte evidente il coinvolgimento iraniano nella guerra contro Israele e dall’altra rischiando di perdere importanti pedine nello scacchiere mediorientale. In questo modo la Repubblica islamica rischierebbe di mettere a repentaglio quel ruolo di potenza regionale che ha rinforzato dall’invasione americana dell’Iraq del 2003, mantenendo un atteggiamento di basso profilo, infiltrandosi nelle amministrazioni politiche e nelle strutture militari e paramilitari di molti Paesi dell’area mediorientale.
Da queste considerazioni appare evidente che l’Iran abbia molto da perdere nel caso di un intervento diretto di Hezbollah nella guerra contro Israele. Al contrario, sembra che la scelta migliore per Teheran sia quella di mantenere la pressione a Nord, attraverso continue operazioni dimostrative condotte di miliziani, sperando che un prolungamento del conflitto contro i palestinesi mini il processo di riavvicinamento tra l’Arabia Saudita e Israele. Sebbene sia poco probabile che l’Iran decida di sacrificare Hezbollah, il rischio di un’escalation è tuttora in corso. I continui attacchi dimostrativi contro Israele, oltre che la possibilità di un errore di valutazione da parte di Hezbollah nel calibrare la dimensione di questi attacchi, costringerebbero Israele ad intervenire militarmente, innescando così quella reazione a catena che nessuno degli attori in questione sembra desiderare.
Meloni visita Mozambico e Congo per blindare l’import di gas liquefatto
Con la crisi energetica aggravata dal recente conflitto tra Israele e Hamas, ieri il presidente Giorgia Meloni ha iniziato la sua missione tra Mozambico e Congo con l’obiettivo di avviare un processo di diversificazione dell’approvvigionamento di gas attraverso la costruzione di rapporti solidi con i due Paesi africani.
La prima tappa è stata a Maputo, accolta dall’ambasciatore Gianni Bardini, per incontrare il presidente della Repubblica del Mozambico, Felipe Nyusi. «Sono molto contenta di essere qui», ha detto il premier Meloni, «tenevo a esserci e, anche nella delicata situazione internazionale, ho voluto garantire questa visita», ha detto il presidente del Consiglio. «Credo si veda che questo governo italiano è particolarmente attento al ruolo che i Paesi e il continente africano giocano nell’attuale contesto», ha proseguito. «E credo si veda che la nostra idea è costruire da parte dell’Europa un approccio nuovo con l’Africa che non sia predatorio e paternalistico. È esattamente quello che accade qui in Mozambico, particolarmente all’interno di progetti legati all’energia. Il governo italiano considera l’energia un fattore decisivo, soprattutto nel partneriato tra Europa e Africa».
Non è un caso, insomma, se tra i punti affrontati durante l’incontro a Maputo vi siano progetti di cooperazione economica ed energetica. Per questo insieme al governo era presente anche una delegazione di Eni, guidata dall’amministratore delegato Claudio Descalzi.
Eni, d’altronde, è da sempre presente in Mozambico e Congo con progetti importanti che di certo faranno bene al fabbisogno energetico nazionale. Ad esempio, in Mozambico, tra il 2011 e il 2014, il cane a sei zampe ha trovato al largo delle coste settentrionali, nel bacino di Rovuma, diversi giacimenti di gas, tra cui Coral south, già in produzione (avviato nel novembre 2022). La produzione e liquefazione del gas avviene interamente offshore tramite l’impianto galleggiante Coral Sul Flng, con una capacità di liquefazione di circa 3,4 milioni di tonnellate all’anno di gas naturale liquefatto. Dall’avvio della produzione sono stati effettuati 30 carichi di gnl e 5 di condensati.
In Congo Eni è presente dal 1968 con attività di esplorazione e produzione sia onshore che offshore, per una produzione di circa 80,000 barili nel 2022. A novembre dell’anno scorso il gruppo ha deciso di investire in Congo Lng, il primo progetto per la liquefazione e l’export del gas del Paese. Congo Lng vedrà l’installazione di due impianti galleggianti di liquefazione del gas naturale: il primo avrà una capacità di liquefazione di 0,6 milioni di tonnellate all’anno di gas naturale liquefatto e avvio previsto alla fine del 2023; il secondo, attualmente in costruzione e con avvio previsto nel 2025, porterà la capacità complessiva di liquefazione a 3 milioni di tonnellate. Eni commercializzerà il 100% del gas liquefatto prodotto. Stando alle previsioni, l’Italia si appresta a ricevere dal Mozambico un miliardo di metri cubi di gas naturale liquefatto (Gnl) nell’inverno 2023-2024 e circa 4 miliardi di metri cubi nell’inverno 2024-2025. Dal Congo invece l’Italia riceverà fino a un miliardo di metri cubi di gas naturale liquefatto per l’inverno 2023-2024, e fino a 4,5 miliardi per il 2025-2026.
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Con i continui tafferugli al confine con il Libano, il rischio escalation è dietro l’angolo. Ma se la formazione sciita costringesse Israele all’intervento, creerebbe un danno a Teheran. Che intende tenere alta la tensione per boicottare gli accordi di Abramo.Giorgia Meloni in Mozambico assieme all’ad di Eni. Con il Medio Oriente in fiamme, servono più fonti.Lo speciale contiene due articoli.Mark Lowe, Direttore Monact Risk Assessment ServicesPietro Zucchelli, Analista MenaLa sera dell’11 ottobre le sirene israeliane nelle aree di confine con il Libano hanno lanciato un allarme a seguito dell’avvistamento di velivoli nemici non identificati. Il mattino seguente, il tenente colonnello dell’esercito israeliano Richard Hecht ha affermato che la notizia di un’invasione aerea tramite l’utilizzo di parapendii o droni provenienti dal Libano erano frutto di un errore umano. Nonostante questo falso allarme, la situazione nel Nord di Israele rimane tesa e la paura di un’invasione del Paese da parte di Hezbollah rimane alta.Già nei giorni precedenti, le dichiarazioni di Israele e degli Stati Uniti d’America hanno permesso di comprendere quelle che sarebbero le possibili conseguenze di un coinvolgimento di Hezbollah nel conflitto in corso. Il primo ministro libanese, Najib Mikati, è stato informato che il suo Paese sarà considerato responsabile di qualsiasi escalation causata dal gruppo sciita libanese. In particolare, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America ha chiarito che l’arrivo della portaerei Gerald Ford nel Mediterraneo orientale ha uno scopo di deterrenza nei confronti di altri attori che intendano aprire altri fronti contro Israele. Da parte sua, Najib Mikati ha rassicurato le parti affermando di non avere intenzione di coinvolgere il suo Paese, già attraversato da una profonda crisi economica, in un conflitto che rischierebbe di far sprofondare il Libano in un baratro.Nonostante le rassicurazioni, tutti gli attori in questione sono consapevoli del debole controllo che il governo libanese esercita su Hezbollah. Al momento, il gruppo sciita libanese sembra aver optato per la cautela. Pur essendosi congratulato con Hamas per l’operazione al-Aqsa Flood e dichiarando che qualsiasi invasione su larga scala della Striscia di Gaza implicherà il proprio coinvolgimento nel conflitto, non ha tuttavia condotto operazioni significative contro Israele. Questo atteggiamento sembra essere confermato dalla decisione di non rivendicare i recenti attacchi dimostrativi che hanno interessato l’area contesa delle fattorie Sheeba, nascondendosi dietro il cappello di organizzazioni palestinesi attive in Libano.Tutti gli attori in campo sembrano essere consapevoli di alcuni fattori. In primo luogo, è chiaro che qualsiasi azione proveniente dal Libano che vada oltre ad un’operazione dimostrativa, costringerebbe Tel Aviv ad avviare operazioni di bombardamento delle postazioni di Hezbollah in Libano, che coinvolgerebbero sicuramente anche Beirut. Uno scenario di questo tipo potrebbe facilmente degenerare in una vera e propria invasione da parte dell’esercito israeliano. In secondo luogo, tutti gli attori sono consapevoli dello scarso controllo esercitato dal governo provvisorio del Libano sul gruppo islamico sciita, il quale è storicamente una pedina dell’Iran. Infine, una escalation degli eventi in quest’area innescherebbe una reazione a catena che non recherebbe vantaggio a nessuna delle parti.Una delle domande che sorge spontanea a questo punto è: che livello di potere decisionale hanno i leader di Hezbollah riguardo all’attacco a Israele? L’organizzazione dovrà chiedere il permesso a Teheran o, al contrario, l’Iran darà ordini specifici per attaccare Israele?Considerate le circostanze, appare poco plausibile che Teheran dia l’ordine ad Hezbollah di entrare nel conflitto in corso. In questo caso, la Repubblica islamica correrebbe un rischio troppo alto di perdere quella che è la sua più potente pedina da usare contro le iniziative americane e israeliane nell’area. Inoltre, l’entrata diretta nel conflitto da parte di Hezbollah rischierebbe di portare al coinvolgimento di altre milizie filo-iraniane presenti nei Paesi mediorientali (gli Houti in Yemen e Kataib Hezbollah in Iraq), rendendo da una parte evidente il coinvolgimento iraniano nella guerra contro Israele e dall’altra rischiando di perdere importanti pedine nello scacchiere mediorientale. In questo modo la Repubblica islamica rischierebbe di mettere a repentaglio quel ruolo di potenza regionale che ha rinforzato dall’invasione americana dell’Iraq del 2003, mantenendo un atteggiamento di basso profilo, infiltrandosi nelle amministrazioni politiche e nelle strutture militari e paramilitari di molti Paesi dell’area mediorientale. Da queste considerazioni appare evidente che l’Iran abbia molto da perdere nel caso di un intervento diretto di Hezbollah nella guerra contro Israele. Al contrario, sembra che la scelta migliore per Teheran sia quella di mantenere la pressione a Nord, attraverso continue operazioni dimostrative condotte di miliziani, sperando che un prolungamento del conflitto contro i palestinesi mini il processo di riavvicinamento tra l’Arabia Saudita e Israele. Sebbene sia poco probabile che l’Iran decida di sacrificare Hezbollah, il rischio di un’escalation è tuttora in corso. I continui attacchi dimostrativi contro Israele, oltre che la possibilità di un errore di valutazione da parte di Hezbollah nel calibrare la dimensione di questi attacchi, costringerebbero Israele ad intervenire militarmente, innescando così quella reazione a catena che nessuno degli attori in questione sembra desiderare.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/hamas-hezbollah-iran-2665963656.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="meloni-visita-mozambico-e-congo-per-blindare-limport-di-gas-liquefatto" data-post-id="2665963656" data-published-at="1697233614" data-use-pagination="False"> Meloni visita Mozambico e Congo per blindare l’import di gas liquefatto Con la crisi energetica aggravata dal recente conflitto tra Israele e Hamas, ieri il presidente Giorgia Meloni ha iniziato la sua missione tra Mozambico e Congo con l’obiettivo di avviare un processo di diversificazione dell’approvvigionamento di gas attraverso la costruzione di rapporti solidi con i due Paesi africani. La prima tappa è stata a Maputo, accolta dall’ambasciatore Gianni Bardini, per incontrare il presidente della Repubblica del Mozambico, Felipe Nyusi. «Sono molto contenta di essere qui», ha detto il premier Meloni, «tenevo a esserci e, anche nella delicata situazione internazionale, ho voluto garantire questa visita», ha detto il presidente del Consiglio. «Credo si veda che questo governo italiano è particolarmente attento al ruolo che i Paesi e il continente africano giocano nell’attuale contesto», ha proseguito. «E credo si veda che la nostra idea è costruire da parte dell’Europa un approccio nuovo con l’Africa che non sia predatorio e paternalistico. È esattamente quello che accade qui in Mozambico, particolarmente all’interno di progetti legati all’energia. Il governo italiano considera l’energia un fattore decisivo, soprattutto nel partneriato tra Europa e Africa». Non è un caso, insomma, se tra i punti affrontati durante l’incontro a Maputo vi siano progetti di cooperazione economica ed energetica. Per questo insieme al governo era presente anche una delegazione di Eni, guidata dall’amministratore delegato Claudio Descalzi. Eni, d’altronde, è da sempre presente in Mozambico e Congo con progetti importanti che di certo faranno bene al fabbisogno energetico nazionale. Ad esempio, in Mozambico, tra il 2011 e il 2014, il cane a sei zampe ha trovato al largo delle coste settentrionali, nel bacino di Rovuma, diversi giacimenti di gas, tra cui Coral south, già in produzione (avviato nel novembre 2022). La produzione e liquefazione del gas avviene interamente offshore tramite l’impianto galleggiante Coral Sul Flng, con una capacità di liquefazione di circa 3,4 milioni di tonnellate all’anno di gas naturale liquefatto. Dall’avvio della produzione sono stati effettuati 30 carichi di gnl e 5 di condensati. In Congo Eni è presente dal 1968 con attività di esplorazione e produzione sia onshore che offshore, per una produzione di circa 80,000 barili nel 2022. A novembre dell’anno scorso il gruppo ha deciso di investire in Congo Lng, il primo progetto per la liquefazione e l’export del gas del Paese. Congo Lng vedrà l’installazione di due impianti galleggianti di liquefazione del gas naturale: il primo avrà una capacità di liquefazione di 0,6 milioni di tonnellate all’anno di gas naturale liquefatto e avvio previsto alla fine del 2023; il secondo, attualmente in costruzione e con avvio previsto nel 2025, porterà la capacità complessiva di liquefazione a 3 milioni di tonnellate. Eni commercializzerà il 100% del gas liquefatto prodotto. Stando alle previsioni, l’Italia si appresta a ricevere dal Mozambico un miliardo di metri cubi di gas naturale liquefatto (Gnl) nell’inverno 2023-2024 e circa 4 miliardi di metri cubi nell’inverno 2024-2025. Dal Congo invece l’Italia riceverà fino a un miliardo di metri cubi di gas naturale liquefatto per l’inverno 2023-2024, e fino a 4,5 miliardi per il 2025-2026.
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A far risuonare le sirene d’allarme in Italia un po’ tutti i settori produttivi, che disegnando scenari apocalittici sono corsi a chiedere aiuti pubblici. Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire, senonché questa narrazione è stata smentita dai fatti, passati in sordina.
A fare un bilancio degli effetti dei dazi americani sul tessuto produttivo è uno studio della Banca d’Italia: «Gli effetti dei dazi statunitensi sulle imprese italiane: una valutazione ex ante a livello micro» (Questioni di Economia e Finanza n. 994, dicembre 2025). Un punto innovativo del report riguarda il rischio che i prodotti cinesi, esclusi dal mercato statunitense dai dazi, vengano «dirottati» verso altri mercati internazionali (inclusa l’Europa), aumentando la concorrenza per le imprese italiane in quei territori.
Dall’analisi di Bankitalia emerge che, contrariamente a scenari catastrofici, l’impatto medio è, per ora, contenuto ma eterogeneo. Prima dello choc, gli esportatori verso gli Usa avevano un margine medio di profitto del 10,1%. Si stima che i dazi portino a una riduzione dei margini di circa 0,3 punti percentuali per la maggior parte delle imprese (circa il 75%). Questa fluttuazione è considerata gestibile, poiché rientra nelle normali variazioni cicliche del decennio scorso. Vale in linea generale ma si evidenzia anche che una serie di imprese (circa il 6,4% in più rispetto al normale) potrebbe subire perdite severe, nel caso di dazi più alti o con durata maggiore. Si tratta di aziende che vivono in una situazione particolare, ovvero i cui ricavi dipendono in modo massiccio dal mercato americano (il 6-7% che vive di solo export Usa, con margini ridotti) e che operano in settori con bassa elasticità di sostituzione o dove non è possibile trasferire l’aumento dei costi sui prezzi finali.
I tecnici di Bankitalia mettono in evidenza un altro aspetto del sistema di imprese italiane: oltre la metà dell’esposizione italiana agli Usa è di tipo indiretto. Molte Pmi (piccole e medie imprese) che non compaiono nelle statistiche dell’export sono in realtà vulnerabili perché producono componenti per i grandi gruppi esportatori. L’analisi mostra che i legami di «primo livello» (fornitore diretto dell’esportatore) sono i più colpiti, mentre l’effetto si diluisce risalendo ulteriormente la catena di produzione.
Si stanno verificando due comportamenti delle imprese a cominciare dal «pricing to market». Ovvero tante aziende scelgono di non aumentare i prezzi di vendita negli Stati Uniti per non perdere quote di mercato e preferiscono assorbire il costo del dazio riducendo i propri guadagni. Poi, per i prodotti di alta qualità, il made in Italy d’eccellenza, i consumatori americani sono disposti a pagare un prezzo più alto, permettendo all’impresa di trasferire parte del dazio sul prezzo finale senza crolli nelle vendite.
Lo studio offre una prospettiva interessante sulla distribuzione geografica e settoriale dell’effetto dei dazi. Anche se l’impatto è definito «marginale» in termini di punti percentuali sui profitti, il Nord Italia è l’area più esposta. Nell’asse Lombardia-Emilia-Romagna si concentra la maggior parte degli esportatori di macchinari e componentistica, e siccome le filiere sono molto lunghe, un calo della domanda negli Usa rimbalza sui subfornitori locali. Il settore automotive, dovendo competere con i produttori americani che non pagano i dazi, è quello che soffre di più dell’erosione dei margini. Nel Sud l’esposizione è minore in termini di volumi totali.
Un elemento di preoccupazione non trascurabile è la pressione competitiva asiatica. Gli Usa, chiudendo le porte alla Cina, inducono Pechino a spostare la sua offerta verso i mercati terzi. Lo studio avverte che i settori italiani che non esportano negli Usa potrebbero comunque soffrire a causa di un’ondata di prodotti cinesi a basso costo nei mercati europei o emergenti, erodendo le quote di mercato italiane.
Bankitalia sottolinea, nel report, che il sistema produttivo italiano possiede una discreta resilienza complessiva. Le principali indicazioni per il futuro includono la necessità di diversificare i mercati di sbocco e l’attenzione alle dinamiche di dumping o eccesso di offerta derivanti dalla diversione dei flussi commerciali globali.
Questo studio si affianca al precedente rapporto che integra queste analisi con dati derivanti da sondaggi diretti presso le imprese, confermando che circa il 20% delle aziende italiane ha già percepito un impatto negativo, seppur moderato, nella prima parte dell’anno.
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Il punto è che l’argento ha trovato il modo perfetto per piacere a tutti. Agli investitori spaventati dal debito mondiale fuori controllo che potrebbe incenerire il valore delle monete, ai gestori che temono la stagflazione (il mostro fatto da inflazione e recessione), a chi guarda con sospetto al dollaro e all’indipendenza della Fed. Ma anche - ed è qui la vera svolta - all’economia reale che corre verso l’elettrificazione, la digitalizzazione e l’Intelligenza artificiale. Un metallo bipartisan, potremmo dire: piace ai falchi e alle colombe, ai trader e agli ingegneri.
Dietro il rally non c’è solo la solita corsa al riparo mentre i tassi Usa scendono fra le prudenze di Powell e le intemperanze di Trump. Il debito globale fa il giro del mondo senza mai fermarsi. C’è soprattutto una domanda industriale che cresce come l’appetito di un adolescente davanti a una pizza maxi. L’argento ha proprietà di conducibilità elettrica e termica che lo rendono insostituibile in una lunga serie di tecnologie chiave. E così, mentre il mondo si elettrifica, si digitalizza e si affida sempre più agli algoritmi, il metallo lucente diventa il filo conduttore - letteralmente - della nuova economia.
Prendiamo il fotovoltaico. Nel 2014 assorbiva appena l’11% della domanda industriale di argento. Dieci anni dopo siamo al 29%. Certo, i produttori di pannelli sono diventati più efficienti e riescono a usare meno metallo per modulo. Ma dall’altra parte della bilancia ci sono obiettivi sempre più ambiziosi: l’Unione europea punta ad almeno 700 gigawatt di capacità solare entro il 2030. Tradotto: anche con celle più parsimoniose, di argento ne servirà comunque a palate.
Poi ci sono le auto elettriche, che di sobrio hanno solo il rumore del motore. Ogni veicolo elettrico consuma tra il 67% e il 79% di argento in più rispetto a un’auto a combustione interna. Dai sistemi di gestione delle batterie all’elettronica di potenza, fino alle colonnine di ricarica, l’argento è ovunque. Oxford Economics stima che già entro il 2027 i veicoli a batteria supereranno le auto tradizionali come principale fonte di domanda di argento nel settore automotive. E nel 2031 rappresenteranno il 59% del mercato. Altro che rottamazione: qui è l’argento che prende il volante.
Capitolo data center e Intelligenza artificiale. Qui i numeri fanno girare la testa: la capacità energetica globale dell’IT è passata da meno di 1 gigawatt nel 2000 a quasi 50 gigawatt nel 2025. Un aumento del 5.252%. Ogni server, ogni chip, ogni infrastruttura che alimenta l’Intelligenza artificiale ha bisogno di metalli critici. E indovinate chi c’è sempre, silenzioso ma indispensabile? Esatto, l’argento. I governi lo hanno capito e trattano ormai i data center come infrastrutture strategiche, tra incentivi fiscali e corsie preferenziali. Il risultato è una domanda strutturale destinata a durare ben oltre l’ennesimo ciclo speculativo.
Intanto, sul fronte dell’offerta, la musica è tutt’altro che allegra. La produzione globale cresce a passo di lumaca, il riciclo aumenta ma non basta e il mercato è in deficit per il quinto anno consecutivo. Dal 2021 al 2025 il buco cumulato sfiora le 820 milioni di once (circa 26.000 tonnellate). Un dettaglio che aiuta a spiegare perché, nonostante qualche correzione, i prezzi restino ostinatamente alti e la liquidità sia spesso sotto pressione, con tassi di locazione da record e consegne massicce nei depositi del Chicago Mercantile Exchange, il più importante listino del settore.
Nel frattempo gli investitori votano con il portafoglio. Gli scambi sui derivati dell’argento sono saliti del 18% in pochi mesi. Il rapporto oro-argento è sceso, segnale che anche gli istituzionali iniziano a guardare al metallo bianco con occhi diversi. Non più solo assicurazione contro il caos, ma scommessa sulla trasformazione dell’economia globale.
Ecco perché l’argento oggi non si limita a brillare: racconta una storia. Quella di un mondo che cambia, che consuma più elettricità, più dati, più tecnologia. Un mondo che ha bisogno di metalli «di nuova generazione», come li definisce Oxford Economics. L’oro resta il re dei ben rifugio, ma l’argento si è preso il ruolo più ambizioso: essere il ponte tra la paura del presente e la scommessa sul futuro. E a giudicare dai prezzi, il mercato ha già deciso da che parte stare.
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