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2023-10-14
L’Iran vuole che Hezbollah abbai e non morda
La folla inneggia al leader di Hezbollah, Sayyed Hassan Nasrallah (Getty Images)
Mark Lowe, Direttore Monact Risk Assessment Services
Pietro Zucchelli, Analista Mena
La sera dell’11 ottobre le sirene israeliane nelle aree di confine con il Libano hanno lanciato un allarme a seguito dell’avvistamento di velivoli nemici non identificati. Il mattino seguente, il tenente colonnello dell’esercito israeliano Richard Hecht ha affermato che la notizia di un’invasione aerea tramite l’utilizzo di parapendii o droni provenienti dal Libano erano frutto di un errore umano. Nonostante questo falso allarme, la situazione nel Nord di Israele rimane tesa e la paura di un’invasione del Paese da parte di Hezbollah rimane alta.
Già nei giorni precedenti, le dichiarazioni di Israele e degli Stati Uniti d’America hanno permesso di comprendere quelle che sarebbero le possibili conseguenze di un coinvolgimento di Hezbollah nel conflitto in corso. Il primo ministro libanese, Najib Mikati, è stato informato che il suo Paese sarà considerato responsabile di qualsiasi escalation causata dal gruppo sciita libanese. In particolare, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America ha chiarito che l’arrivo della portaerei Gerald Ford nel Mediterraneo orientale ha uno scopo di deterrenza nei confronti di altri attori che intendano aprire altri fronti contro Israele. Da parte sua, Najib Mikati ha rassicurato le parti affermando di non avere intenzione di coinvolgere il suo Paese, già attraversato da una profonda crisi economica, in un conflitto che rischierebbe di far sprofondare il Libano in un baratro.
Nonostante le rassicurazioni, tutti gli attori in questione sono consapevoli del debole controllo che il governo libanese esercita su Hezbollah. Al momento, il gruppo sciita libanese sembra aver optato per la cautela. Pur essendosi congratulato con Hamas per l’operazione al-Aqsa Flood e dichiarando che qualsiasi invasione su larga scala della Striscia di Gaza implicherà il proprio coinvolgimento nel conflitto, non ha tuttavia condotto operazioni significative contro Israele. Questo atteggiamento sembra essere confermato dalla decisione di non rivendicare i recenti attacchi dimostrativi che hanno interessato l’area contesa delle fattorie Sheeba, nascondendosi dietro il cappello di organizzazioni palestinesi attive in Libano.
Tutti gli attori in campo sembrano essere consapevoli di alcuni fattori. In primo luogo, è chiaro che qualsiasi azione proveniente dal Libano che vada oltre ad un’operazione dimostrativa, costringerebbe Tel Aviv ad avviare operazioni di bombardamento delle postazioni di Hezbollah in Libano, che coinvolgerebbero sicuramente anche Beirut. Uno scenario di questo tipo potrebbe facilmente degenerare in una vera e propria invasione da parte dell’esercito israeliano. In secondo luogo, tutti gli attori sono consapevoli dello scarso controllo esercitato dal governo provvisorio del Libano sul gruppo islamico sciita, il quale è storicamente una pedina dell’Iran. Infine, una escalation degli eventi in quest’area innescherebbe una reazione a catena che non recherebbe vantaggio a nessuna delle parti.
Una delle domande che sorge spontanea a questo punto è: che livello di potere decisionale hanno i leader di Hezbollah riguardo all’attacco a Israele? L’organizzazione dovrà chiedere il permesso a Teheran o, al contrario, l’Iran darà ordini specifici per attaccare Israele?
Considerate le circostanze, appare poco plausibile che Teheran dia l’ordine ad Hezbollah di entrare nel conflitto in corso. In questo caso, la Repubblica islamica correrebbe un rischio troppo alto di perdere quella che è la sua più potente pedina da usare contro le iniziative americane e israeliane nell’area. Inoltre, l’entrata diretta nel conflitto da parte di Hezbollah rischierebbe di portare al coinvolgimento di altre milizie filo-iraniane presenti nei Paesi mediorientali (gli Houti in Yemen e Kataib Hezbollah in Iraq), rendendo da una parte evidente il coinvolgimento iraniano nella guerra contro Israele e dall’altra rischiando di perdere importanti pedine nello scacchiere mediorientale. In questo modo la Repubblica islamica rischierebbe di mettere a repentaglio quel ruolo di potenza regionale che ha rinforzato dall’invasione americana dell’Iraq del 2003, mantenendo un atteggiamento di basso profilo, infiltrandosi nelle amministrazioni politiche e nelle strutture militari e paramilitari di molti Paesi dell’area mediorientale.
Da queste considerazioni appare evidente che l’Iran abbia molto da perdere nel caso di un intervento diretto di Hezbollah nella guerra contro Israele. Al contrario, sembra che la scelta migliore per Teheran sia quella di mantenere la pressione a Nord, attraverso continue operazioni dimostrative condotte di miliziani, sperando che un prolungamento del conflitto contro i palestinesi mini il processo di riavvicinamento tra l’Arabia Saudita e Israele. Sebbene sia poco probabile che l’Iran decida di sacrificare Hezbollah, il rischio di un’escalation è tuttora in corso. I continui attacchi dimostrativi contro Israele, oltre che la possibilità di un errore di valutazione da parte di Hezbollah nel calibrare la dimensione di questi attacchi, costringerebbero Israele ad intervenire militarmente, innescando così quella reazione a catena che nessuno degli attori in questione sembra desiderare.
Meloni visita Mozambico e Congo per blindare l’import di gas liquefatto
Con la crisi energetica aggravata dal recente conflitto tra Israele e Hamas, ieri il presidente Giorgia Meloni ha iniziato la sua missione tra Mozambico e Congo con l’obiettivo di avviare un processo di diversificazione dell’approvvigionamento di gas attraverso la costruzione di rapporti solidi con i due Paesi africani.
La prima tappa è stata a Maputo, accolta dall’ambasciatore Gianni Bardini, per incontrare il presidente della Repubblica del Mozambico, Felipe Nyusi. «Sono molto contenta di essere qui», ha detto il premier Meloni, «tenevo a esserci e, anche nella delicata situazione internazionale, ho voluto garantire questa visita», ha detto il presidente del Consiglio. «Credo si veda che questo governo italiano è particolarmente attento al ruolo che i Paesi e il continente africano giocano nell’attuale contesto», ha proseguito. «E credo si veda che la nostra idea è costruire da parte dell’Europa un approccio nuovo con l’Africa che non sia predatorio e paternalistico. È esattamente quello che accade qui in Mozambico, particolarmente all’interno di progetti legati all’energia. Il governo italiano considera l’energia un fattore decisivo, soprattutto nel partneriato tra Europa e Africa».
Non è un caso, insomma, se tra i punti affrontati durante l’incontro a Maputo vi siano progetti di cooperazione economica ed energetica. Per questo insieme al governo era presente anche una delegazione di Eni, guidata dall’amministratore delegato Claudio Descalzi.
Eni, d’altronde, è da sempre presente in Mozambico e Congo con progetti importanti che di certo faranno bene al fabbisogno energetico nazionale. Ad esempio, in Mozambico, tra il 2011 e il 2014, il cane a sei zampe ha trovato al largo delle coste settentrionali, nel bacino di Rovuma, diversi giacimenti di gas, tra cui Coral south, già in produzione (avviato nel novembre 2022). La produzione e liquefazione del gas avviene interamente offshore tramite l’impianto galleggiante Coral Sul Flng, con una capacità di liquefazione di circa 3,4 milioni di tonnellate all’anno di gas naturale liquefatto. Dall’avvio della produzione sono stati effettuati 30 carichi di gnl e 5 di condensati.
In Congo Eni è presente dal 1968 con attività di esplorazione e produzione sia onshore che offshore, per una produzione di circa 80,000 barili nel 2022. A novembre dell’anno scorso il gruppo ha deciso di investire in Congo Lng, il primo progetto per la liquefazione e l’export del gas del Paese. Congo Lng vedrà l’installazione di due impianti galleggianti di liquefazione del gas naturale: il primo avrà una capacità di liquefazione di 0,6 milioni di tonnellate all’anno di gas naturale liquefatto e avvio previsto alla fine del 2023; il secondo, attualmente in costruzione e con avvio previsto nel 2025, porterà la capacità complessiva di liquefazione a 3 milioni di tonnellate. Eni commercializzerà il 100% del gas liquefatto prodotto. Stando alle previsioni, l’Italia si appresta a ricevere dal Mozambico un miliardo di metri cubi di gas naturale liquefatto (Gnl) nell’inverno 2023-2024 e circa 4 miliardi di metri cubi nell’inverno 2024-2025. Dal Congo invece l’Italia riceverà fino a un miliardo di metri cubi di gas naturale liquefatto per l’inverno 2023-2024, e fino a 4,5 miliardi per il 2025-2026.
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Riduci
Con i continui tafferugli al confine con il Libano, il rischio escalation è dietro l’angolo. Ma se la formazione sciita costringesse Israele all’intervento, creerebbe un danno a Teheran. Che intende tenere alta la tensione per boicottare gli accordi di Abramo.Giorgia Meloni in Mozambico assieme all’ad di Eni. Con il Medio Oriente in fiamme, servono più fonti.Lo speciale contiene due articoli.Mark Lowe, Direttore Monact Risk Assessment ServicesPietro Zucchelli, Analista MenaLa sera dell’11 ottobre le sirene israeliane nelle aree di confine con il Libano hanno lanciato un allarme a seguito dell’avvistamento di velivoli nemici non identificati. Il mattino seguente, il tenente colonnello dell’esercito israeliano Richard Hecht ha affermato che la notizia di un’invasione aerea tramite l’utilizzo di parapendii o droni provenienti dal Libano erano frutto di un errore umano. Nonostante questo falso allarme, la situazione nel Nord di Israele rimane tesa e la paura di un’invasione del Paese da parte di Hezbollah rimane alta.Già nei giorni precedenti, le dichiarazioni di Israele e degli Stati Uniti d’America hanno permesso di comprendere quelle che sarebbero le possibili conseguenze di un coinvolgimento di Hezbollah nel conflitto in corso. Il primo ministro libanese, Najib Mikati, è stato informato che il suo Paese sarà considerato responsabile di qualsiasi escalation causata dal gruppo sciita libanese. In particolare, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America ha chiarito che l’arrivo della portaerei Gerald Ford nel Mediterraneo orientale ha uno scopo di deterrenza nei confronti di altri attori che intendano aprire altri fronti contro Israele. Da parte sua, Najib Mikati ha rassicurato le parti affermando di non avere intenzione di coinvolgere il suo Paese, già attraversato da una profonda crisi economica, in un conflitto che rischierebbe di far sprofondare il Libano in un baratro.Nonostante le rassicurazioni, tutti gli attori in questione sono consapevoli del debole controllo che il governo libanese esercita su Hezbollah. Al momento, il gruppo sciita libanese sembra aver optato per la cautela. Pur essendosi congratulato con Hamas per l’operazione al-Aqsa Flood e dichiarando che qualsiasi invasione su larga scala della Striscia di Gaza implicherà il proprio coinvolgimento nel conflitto, non ha tuttavia condotto operazioni significative contro Israele. Questo atteggiamento sembra essere confermato dalla decisione di non rivendicare i recenti attacchi dimostrativi che hanno interessato l’area contesa delle fattorie Sheeba, nascondendosi dietro il cappello di organizzazioni palestinesi attive in Libano.Tutti gli attori in campo sembrano essere consapevoli di alcuni fattori. In primo luogo, è chiaro che qualsiasi azione proveniente dal Libano che vada oltre ad un’operazione dimostrativa, costringerebbe Tel Aviv ad avviare operazioni di bombardamento delle postazioni di Hezbollah in Libano, che coinvolgerebbero sicuramente anche Beirut. Uno scenario di questo tipo potrebbe facilmente degenerare in una vera e propria invasione da parte dell’esercito israeliano. In secondo luogo, tutti gli attori sono consapevoli dello scarso controllo esercitato dal governo provvisorio del Libano sul gruppo islamico sciita, il quale è storicamente una pedina dell’Iran. Infine, una escalation degli eventi in quest’area innescherebbe una reazione a catena che non recherebbe vantaggio a nessuna delle parti.Una delle domande che sorge spontanea a questo punto è: che livello di potere decisionale hanno i leader di Hezbollah riguardo all’attacco a Israele? L’organizzazione dovrà chiedere il permesso a Teheran o, al contrario, l’Iran darà ordini specifici per attaccare Israele?Considerate le circostanze, appare poco plausibile che Teheran dia l’ordine ad Hezbollah di entrare nel conflitto in corso. In questo caso, la Repubblica islamica correrebbe un rischio troppo alto di perdere quella che è la sua più potente pedina da usare contro le iniziative americane e israeliane nell’area. Inoltre, l’entrata diretta nel conflitto da parte di Hezbollah rischierebbe di portare al coinvolgimento di altre milizie filo-iraniane presenti nei Paesi mediorientali (gli Houti in Yemen e Kataib Hezbollah in Iraq), rendendo da una parte evidente il coinvolgimento iraniano nella guerra contro Israele e dall’altra rischiando di perdere importanti pedine nello scacchiere mediorientale. In questo modo la Repubblica islamica rischierebbe di mettere a repentaglio quel ruolo di potenza regionale che ha rinforzato dall’invasione americana dell’Iraq del 2003, mantenendo un atteggiamento di basso profilo, infiltrandosi nelle amministrazioni politiche e nelle strutture militari e paramilitari di molti Paesi dell’area mediorientale. Da queste considerazioni appare evidente che l’Iran abbia molto da perdere nel caso di un intervento diretto di Hezbollah nella guerra contro Israele. Al contrario, sembra che la scelta migliore per Teheran sia quella di mantenere la pressione a Nord, attraverso continue operazioni dimostrative condotte di miliziani, sperando che un prolungamento del conflitto contro i palestinesi mini il processo di riavvicinamento tra l’Arabia Saudita e Israele. Sebbene sia poco probabile che l’Iran decida di sacrificare Hezbollah, il rischio di un’escalation è tuttora in corso. I continui attacchi dimostrativi contro Israele, oltre che la possibilità di un errore di valutazione da parte di Hezbollah nel calibrare la dimensione di questi attacchi, costringerebbero Israele ad intervenire militarmente, innescando così quella reazione a catena che nessuno degli attori in questione sembra desiderare.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/hamas-hezbollah-iran-2665963656.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="meloni-visita-mozambico-e-congo-per-blindare-limport-di-gas-liquefatto" data-post-id="2665963656" data-published-at="1697233614" data-use-pagination="False"> Meloni visita Mozambico e Congo per blindare l’import di gas liquefatto Con la crisi energetica aggravata dal recente conflitto tra Israele e Hamas, ieri il presidente Giorgia Meloni ha iniziato la sua missione tra Mozambico e Congo con l’obiettivo di avviare un processo di diversificazione dell’approvvigionamento di gas attraverso la costruzione di rapporti solidi con i due Paesi africani. La prima tappa è stata a Maputo, accolta dall’ambasciatore Gianni Bardini, per incontrare il presidente della Repubblica del Mozambico, Felipe Nyusi. «Sono molto contenta di essere qui», ha detto il premier Meloni, «tenevo a esserci e, anche nella delicata situazione internazionale, ho voluto garantire questa visita», ha detto il presidente del Consiglio. «Credo si veda che questo governo italiano è particolarmente attento al ruolo che i Paesi e il continente africano giocano nell’attuale contesto», ha proseguito. «E credo si veda che la nostra idea è costruire da parte dell’Europa un approccio nuovo con l’Africa che non sia predatorio e paternalistico. È esattamente quello che accade qui in Mozambico, particolarmente all’interno di progetti legati all’energia. Il governo italiano considera l’energia un fattore decisivo, soprattutto nel partneriato tra Europa e Africa». Non è un caso, insomma, se tra i punti affrontati durante l’incontro a Maputo vi siano progetti di cooperazione economica ed energetica. Per questo insieme al governo era presente anche una delegazione di Eni, guidata dall’amministratore delegato Claudio Descalzi. Eni, d’altronde, è da sempre presente in Mozambico e Congo con progetti importanti che di certo faranno bene al fabbisogno energetico nazionale. Ad esempio, in Mozambico, tra il 2011 e il 2014, il cane a sei zampe ha trovato al largo delle coste settentrionali, nel bacino di Rovuma, diversi giacimenti di gas, tra cui Coral south, già in produzione (avviato nel novembre 2022). La produzione e liquefazione del gas avviene interamente offshore tramite l’impianto galleggiante Coral Sul Flng, con una capacità di liquefazione di circa 3,4 milioni di tonnellate all’anno di gas naturale liquefatto. Dall’avvio della produzione sono stati effettuati 30 carichi di gnl e 5 di condensati. In Congo Eni è presente dal 1968 con attività di esplorazione e produzione sia onshore che offshore, per una produzione di circa 80,000 barili nel 2022. A novembre dell’anno scorso il gruppo ha deciso di investire in Congo Lng, il primo progetto per la liquefazione e l’export del gas del Paese. Congo Lng vedrà l’installazione di due impianti galleggianti di liquefazione del gas naturale: il primo avrà una capacità di liquefazione di 0,6 milioni di tonnellate all’anno di gas naturale liquefatto e avvio previsto alla fine del 2023; il secondo, attualmente in costruzione e con avvio previsto nel 2025, porterà la capacità complessiva di liquefazione a 3 milioni di tonnellate. Eni commercializzerà il 100% del gas liquefatto prodotto. Stando alle previsioni, l’Italia si appresta a ricevere dal Mozambico un miliardo di metri cubi di gas naturale liquefatto (Gnl) nell’inverno 2023-2024 e circa 4 miliardi di metri cubi nell’inverno 2024-2025. Dal Congo invece l’Italia riceverà fino a un miliardo di metri cubi di gas naturale liquefatto per l’inverno 2023-2024, e fino a 4,5 miliardi per il 2025-2026.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Riduci
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Riduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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