2021-01-28
Luca Manfredi: «Papà Nino spariva nei personaggi. È stato il più “americano” di tutti»
Luca e Nino Manfredi (Getty Images)
Il regista, figlio del grande attore: «Veniamo da una famiglia di emigranti, in “Pane e cioccolata" c'è questo dna. Dedicò tutto al lavoro: io sono il primo fan dell'artista, non del padre. Metterò in scena la sua complessità».Ci sono attori che entrano a tal punto nel cuore della gente da vivere in uno spazio temporale indefinito, che oltrepassa le generazioni. È come se ci fossero da sempre e per sempre. È il caso di Nino Manfredi, di cui ricorre quest'anno il centenario della nascita. Il figlio Luca, regista che lo ha diretto varie volte, sta realizzando un documentario per Rai e Sky Arte e sta scrivendo un libro su di lui. Nel 2017 aveva raccontato la sua vita nel film tv In arte Nino, in cui il popolare attore era interpretato da Elio Germano.Com'era lavorare con suo padre? «Mio padre era un uomo molto esigente, avendo fatto anche il regista. Eravamo in Francia per girare Un commissario a Roma perché per curiosi motivi di produzione il commissariato di San Vitale era stato ricostruito in teatro a Tolosa, quindi tutti i poliziotti erano comparse francesi, insomma una situazione un po' buffa. Durante una scena dissi a mio padre: “Entri dalla porta del tuo ufficio, ti siedi e riordini un po' di cose sulla tua scrivania". E lui: “Va bene, ma spiegami il perché". Io per fortuna ebbi la risposta pronta: “Perché, secondo me, il commissario Amidei potrebbe ritagliarsi dei momenti di sospensione in cui, facendo un po' ordine nella sua testa, quindi anche mettendo a posto la sua scrivania, ha il tempo di ragionare sulle cose e trovare la soluzione del caso che sta seguendo". Questa spiegazione gli piacque. Siccome mio padre era uno che conosceva benissimo il suo mestiere, non avrebbe mai fatto una cosa tanto per farla: gli dovevi sempre spiegare il perché delle cose».Un po' come gli attori americani...«Assolutamente. Infatti io ritengo che mio padre sia un po' il più americano della sua generazione, quello che forse più di tutti spariva dietro la pelle dei personaggi che interpretava. Nino diventava il portantino di C'eravamo tanto amati, il cameriere di Pane e cioccolata...».Se li portava a casa i personaggi?«Semmai il contrario: metteva nei personaggi la sua esperienza. Il cameriere di Pane e cioccolata è un retaggio delle sue origini. Noi veniamo da una famiglia di emigranti: suo nonno è stato 32 anni in America sotto terra a scavare il carbone. Nino aveva proprio il dna dell'emigrante, quindi ha trasferito nei personaggi tutte le sue esperienze, anche molto dolorose, dell'infanzia, la fame, la povertà, la malattia in sanatorio». In sanatorio dov'è stato?«È stato tre anni e mezzo ricoverato al Forlanini. Durante il fascismo, andò a fare una pedalata con la pesantissima bicicletta da bersagliere ai Castelli romani, si beccò una pleurite bilaterale, che poi si trasformò in tubercolosi, e fu ricoverato in sanatorio. Fu dato per spacciato, poi miracolosamente sopravvisse. Non solo: fu l'unico della sua camerata a uscire vivo e questa esperienza dolorosissima mise in crisi la sua fede. Lui, che veniva da una famiglia cattolica, cominciò a farsi delle domande: “Come mai i miei compagni che andavano tutti i giorni in cappella a pregare sono morti e io, l'unico che non ci andava, sono stato risparmiato?". Quello è stato lo spunto forse del suo film più biografico, Per grazia ricevuta, che è proprio sulla ricerca di Dio, e anche sulla superstizione e sulla cattiva educazione religiosa».Sono argomenti di cui parlava con voi figli quando eravate piccoli?«Mio padre, quando era in buona, era un grande raccontatore, quando gli girava male, era meglio stare alla larga. Il documentario si chiamerà Uno, nessuno, cento Nino, titolo un po' pirandelliano che racconta la poliedrica personalità di mio padre, una personalità molto complessa e difficile da decifrare. Nino era uno e centomila, sicuramente non nessuno. Mia madre mi ha detto: “Io mi sono molto aiutata, in 50 anni di vita insieme, con i suoi personaggi per conoscerlo».Era un padre presente?«No, ha dedicato la sua vita al lavoro. Sono un suo grandissimo fan come artista, non posso esserlo altrettanto come figlio: è un padre che mi è mancato tantissimo. Quando lui partì per la tournée di Rugantino nell'America del Nord e del Sud, i miei genitori mi lasciarono sei mesi dai miei zii in Sicilia. Avevo cinque anni. Credo di aver passato il periodo più bello della mia vita. Mio zio Alfio, antiquario a Taormina, mi portava sempre con sé: a fare colazione, al suo negozio, a fare il bagno a Mazzarò... nessun uomo aveva dedicato così tanto tempo a me. Quando mio padre è tornato dall'America, non volevo più tornare a Roma».Il mondo del cinema vi ha avvicinati...«Un altro mio zio, fratello di papà, mi convinse a iscrivermi a medicina perché, secondo lui, essendo io molto preciso, ero adatto a fare il chirurgo come lui. Al quarto anno mi disse che era ora che cominciassi a frequentare la sala operatoria. Al primo intervento operò una donna che aveva un tumore alla tiroide: quando le aprì la gola con il bisturi, mi portarono fuori a braccia. In quel momento ho capito che non era la mia strada». A quel punto cosa ha fatto?«Con grande difficoltà ho ammesso che avevo sbagliato tutto. Siccome all'epoca avevo una grande passione per la fotografia, dissi ai miei che andavo a lavorare come assistente in uno studio fotografico e contemporaneamente mi sarei scritto allo Ied, l'Istituto europeo per il design, per diplomarmi in tecnica pubblicitaria e marketing. Mio padre fu molto duro con me: “Se fallisci anche questa volta, non avrai altre possibilità". Per fortuna le cose sono andate bene: mi diplomai e andai subito a lavorare in una casa di produzione di spot pubblicitari, che è la cosa che ci ha fatto rincontrare per la famosa saga della Lavazza. Mio padre non era molto contento delle proposte che gli mandava l'agenzia di Armando Testa da Torino per i primi spot del caffè perché era un umorismo un po' piemontese. Un giorno mi disse: “Ma perché non provi tu a scrivere qualche spottino? Queste cose che mi mandano loro non mi divertono". Scrissi tre spot che mandai in agenzia e furono accolti con grande favore. Da lì è iniziata una collaborazione che è durata tantissimi anni. Credo che sia una delle campagne pubblicitarie con lo stesso testimonial più longeve perché è durata dalla fine degli anni Settanta ai primi gli anni Novanta».È inevitabile la domanda sui rapporti con gli altri «colonnelli della risata». Con Sordi? «Alberto ha frequentato molto casa nostra, ogni tanto veniva a pranzo. Mio padre una volta disse che Sordi era dotato di un talento naturale molto superiore al suo, “peccato che non abbia mai studiato e approfondito questo talento". Mio padre invece si definiva, forse un po' immodestamente, uno di talento medio che ha raggiunto buonissimi risultati con lo studio, con l'Accademia, con Orazio Costa, con i grandi insegnanti che ha avuto».A vederlo da spettatore, quello che colpisce di suo padre è proprio la naturalezza.«È un po' un paradosso. Invece mio padre non è mai stato un improvvisatore: ha sempre costruito i personaggi molto a tavolino. È stato un grande cesellatore, un artigiano della recitazione. Costruiva sempre i suoi personaggi alla ricerca di una chiave. Ti posso fare un esempio. Quando Luigi Comencini lo ha chiamato per fare Geppetto ne Le avventure di Pinocchio, mio padre era relativamente giovane, aveva 50 anni, e gli chiese: “Maestro, come mai chiama me quando ci sarebbero tanti altri attori più giusti come età?". Comencini gli fece un complimento meraviglioso: “Perché lei, Manfredi, secondo me è l'unico attore italiano che può parlare con un pezzo di legno". Mio padre, carico di questa responsabilità, cominciò ad andare al Giardino degli Aranci, un parco di fronte a casa sua, all'Aventino: “Vado lì a spiare qualche nonno con il nipote, per studiare i comportamenti e trarre un po' di ispirazione". Un giorno vide un nonno che stava leggendo il giornale su una panchina e aveva accanto una nipotina che parlava con il suo bambolotto ed ebbe una folgorazione: capì che non doveva interpretare Geppetto come un anziano, ma con il candore e l'innocenza di un bambino che parla con la sua marionetta. Quella fu veramente un'intuizione geniale«.Con Tognazzi c'era più rivalità?«Sono sempre stati amici, poi ci fu una frattura tra di loro perché Ugo era sempre molto goliardico, caciarone, quindi era distante da Nino nel modo di lavorare. Mio padre era un soldato: se aveva la convocazione sul set alle otto, lui arrivava alle sette e mezza per paura di arrivare tardi e sapeva non solo le sue battute, ma anche quelle degli altri. Un giorno che stavano facendo un film assieme, Ugo arrivò sul set che non sapeva nulla di quello che dovevano fare. Durante le prove, mio padre cominciò a dire le battute sue e anche quelle di Ugo che faceva scena muta, dopodiché interruppe le prove e disse: “Vabbè, adesso vado al camper. Quando questo signore ha imparato la sua parte, mi chiamate". Ci fu una frattura nell'amicizia che si è ricomposta anni dopo, quando Ugo lo invitò a Torvajanica per il suo torneo di tennis. Io ero presente e ci fu una cena della riconciliazione». Con Gassman invece?«Con Vittorio ha avuto un ottimo rapporto, anche perché Nino gli è sempre stato riconoscente: è stato il primo a dargli fiducia. Vittorio era uscito dall'accademia un paio di anni prima, aveva messo su la compagnia con Evi Maltagliati e venne a scegliere alcuni allievi per fare uno spettacolo, tra i quali anche mio padre. Quando iniziarono le prove, mio padre, che era molto timido, fece scena muta, con grande preoccupazione sia dell'amministratore che della Maltagliati. Dissero a Vittorio: “Ci hai portato un attore che non parla!" e lui lo difese: “No, parla e quando parla si fa ascoltare". Poi infatti nella seconda serie di prove mio padre riuscì a superare questo blocco». Quale film di suo padre reputa più significativo?«Quello che portò più nel cuore è Pane e cioccolata proprio perché vi ritrovo parte della nostra storia familiare».
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