L'inflazione ferma, il Pil negativo e l'immobilismo del governo impediscono la rivalutazione, mentre sugli assegni più alti continua a gravare il contributo di solidarietà. Alberto Brambilla: «Fra 12 mesi stop a quota 100: si rischia lo scalone. Serve flessibilità in uscita».L'assenza di inflazione aggiunta alle mancate scelte del governo sul tema previdenziale produrrà il risultato che l'assegno dei pensionati italiani nel 2021 resterà identico a quello dell'anno che si avvia a terminare. Nessuna entrata aggiuntiva.Nonostante con l'ultima legge di bilancio si sia insistito con il garantire la rivalutazione soltanto agli assegni più bassi, la crisi del Covid ha piallato il tasso di inflazione che per il 2021 è previsto intorno allo 0 per cento. Risultato? Nessuno spicciolo aggiuntivo. Va di pochissimo meglio per il 2020. Il tasso inflattivo definitivo è risultato pari allo 0,5%, contro lo 0,4% applicato a fine del 2019. Ragione per la quale l'assegno di gennaio godrà di un incremento dello 0,1%. Il «conguaglio» riferito alle somme non erogate nel 2020 in nessun caso supererà i 15 euro complessivi, attestandosi su una media di 10. Una cifra ridicola che almeno non è stata travolta dal Covid e dallo scivolamento verso il basso del Pil con una percentuale vicina al 10.Per la seconda volta dall'entrata in vigore delle norme contributive del 1996 la media quinquennale del Pil fornisce un valore negativo mettendo a repentaglio il montante contributivo. «Tale riduzione sarà comunque neutralizzata dall'articolo 5 del decreto 65 del 2015», spiega alla Verità, Alberto Brambilla, presidente del centro studi Itinerari previdenziali, «è previsto infatti che il tasso di rivalutazione non sia mai negativo, salvo il recupero di quanto neutralizzato negli anni successivi». In pratica, i lavoratori andati in pensione con decorrenza dal 1° gennaio 2020 vedono rivalutato il montante contributivo accreditato al 31 dicembre 2018 dell'1,9945%, (media quinquennio precedente dal 2014 al 2018), mentre non si procederà ad alcuna rivalutazione dei contributi versati nel 2019, l'anno precedente all'andata in pensione (legge Dini 335/95) nonché gli eventuali contributi versati nel 2020 fino alla decorrenza della pensione. Quelli che andranno in pensione nel 2021 avranno rivalutato il montante contributivo accreditato al 31 dicembre 2019 dell'1,9% circa (media quinquennio precedente dal 2015 al 2019 e inflazione 2019 = 0,6%). Invece, non ci sarà alcuna rivalutazione dei contributi versati nel 2020 e nel 2021 fino alla decorrenza della pensione. Insomma, una fregatura algebrica considerando il fatto che tra montante e rivalutazione legata all'inflazione gli assegni restano al palo almeno per i prossimi due anni. Resta invece in vigore la batosta per le cosiddette pensioni d'oro che, oltre a non veder alcun aumento, anche nel 2021 si troveranno a fare i conti con la falce del governo che ha previsto un taglio lineare sopra i 100.000 euro di imponibile. Si va da un minimo del 15% fino al 35% per gli importi compresi tra i 350.000 e i 500.000 euro. E sopra scatta il 40% di taglio. «Non senza polemiche, la manovra 2021 attua anche i contenuti della recente sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato legittimi sia il raffreddamento della perequazione sia il contributo di solidarietà, del quale viene tuttavia ridotta la vigenza da cinque a tre anni», aggiunge Brambilla, commentando: «Mi sarei aspettato tuttavia un esito diverso della vicenda. In pratica, è dalle norme Prodi che si interviene sulle pensioni più corpose con azioni di congelamento o di prelievo. La Carta però lo dice chiaro: le penalizzazioni non dovrebbero superare un periodo limitato. Invece succede dal 1996». Accade quando si cavalca la demagogia. Se un cittadino ha versato i contributi e pagato per un mega assegno, ha diritto al mega assegno. Nulla dovrebbe permettere che un esecutivo calpesti un contratto in vigore. Invece, penalizzare gli assegni più ricchi è servito lo scorso anno ai 5 stelle per nascondere gli interventi penalizzanti pure sugli importi più bassi. D'altronde, sulle pensioni la confusione fa comodo e permette ogni anni di risparmiare centinaia di milioni che vengono poi regolarmente sprecati in bonus dal sapore elettorale. Anche la manovra in via di approvazione non tradisce la filosofia. Salvo l'allargamento dei contratti di espansione alle aziende con 250 dipendenti (fino allo scorso anno serviva un minimo di 500 dipendenti), il governo ha mantenuto intatti i numerosi paragrafi del libro pensionistico. Quota 100 andrà a scadenza naturale alla fine del 2021, vengono ulteriormente prorogati altri due istituti per il pensionamento anticipato: Ape sociale e Opzione donna. Nessun cambiamento sostanziale riguarderà la platea dei beneficiari: scartata infatti per mancanza di risorse la richiesta delle parti sociali di un allargamento ai cosiddetti «lavoratori fragili a rischio Covid», è stata eliminata dallo schema definitivo della manovra finanziaria anche la proposta di estendere il beneficio ai soggetti che non hanno avuto accesso alla Naspi. In pratica, per il trattamento di vecchiaia l'età minima è confermata in 67 anni e 20 di contribuzione, mentre per la pensione anticipata il requisito contributivo - indipendente dall'età - resta bloccato a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne. Tutto fermo anche sul versante della pensione anticipata riservata ai cosiddetti contributivi puri; per loro il varco della pensione si potrà aprire anche nel 2021 all'età di 64 anni, con 20 anni di contributi, ma a condizione di aver maturato al momento del pensionamento un importo pari o superiore a 2,8 volte l'assegno sociale. In sostanza, i giallorossi non sembrano voler fare alcuna scelta politica. Eppure la fine di quota 100 è vicina «e non è certo possibile decidere a giugno 2021 che cosa accadrà sei mesi dopo», conclude Brambilla. «È arrivato il momento di mettere mano a una riforma e alla semplificazione del sistema pensionistico. Non è più accettabile, da un punto di vista della sostenibilità finanziaria, che ogni anno (con una deroga piuttosto che un'altra) vadano in pensione anticipata almeno 50.000 persone. Dall'altro lato, non è accettabile che il 2022 si apra con uno scalone che passi da 62 anni a 67 e mezzo. Serve flessibilità in uscita: è l'unica soluzione». Ma per organizzare la flessibilità ci vuole un governo che prima la studi.
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Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.