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2019-01-04
«Nessuna nostalgia
. Noi due siamo “Ritorno al futuro”»
Sito web del tour
Immaginate una serata in cui risentire 29 settembre, Bang bang, Un angelo blu, Tutta mia la città. Ma anche Che colpa abbiamo noi, C'è una strana espressione nei tuoi occhi, Bisogna saper perdere, È la pioggia che va. Eseguite in coppia dai due leader di quei gruppi che furono The Rokes e l'Equipe 84: in ordine rigorosamente alfabetico, Shel Shapiro e Maurizio Vandelli.
Hanno firmato un disco, Love and peace, che ha dato vita a un tour che in autunno ha fatto il pieno nei teatri d'Italia, e che per questo riprende a giorni (il 19 gennaio da La Spezia).Il loro primo incontro non fu in realtà tra i migliori. Esibendosi come gruppi nel mitico Piper di Roma, nel 1965, Vandelli propose a Shapiro di esibirsi insieme. «Non c'è nessuno che mi possa dire cosa devo o non devo fare», pare sia stata la replica in quel tipico italiano inglesizzato, di solito definito «alla Don Lurio». Acqua passata. Oggi in scena s'intendono alla meraviglia, anche se poi dietro le quinte battibeccano scherzosamente (o almeno così giurano entrambi) in continuazione.
Shel Shapiro: «L'amarcord non ci interessa. Ai ragazzi cantiamo: quella di domani "Sarà una bella società"»
Lo sa, Shapiro, che Vandelli ancora si ricorda di quella volta al Piper? Lui assicura di averle risposto a tono, mandandola eufemisticamente a quel paese?
«Non mi ricordo della circostanza. Ma Maurizio evidentemente sì, deve essere ancora traumatizzato se a più di 50 anni di distanza ancora ne parla».
Onestamente l'ho sfruculiato io. Nonostante tutto, però, vi siete ritrovati per questa operazione «amarcord».
«Non sono d'accordo. La nostra non è un'iniziativa in nome della nostalgia. Che è un nobile sentimento, ma forse appartiene più agli occhi, alle orecchie, al cuore di chi viene ai nostri concerti. Che si rivede com'era un tempo, in un'epoca in cui tutto sembrava possibile, con quella spinta ideale che faceva dire a tutti noi: "Sarà una bella società" quella in cui vivremo. Per questo, preferisco pensare a un recupero della memoria, ma come ritorno al futuro, nel segno della speranza. Anche perché il 60% del nostro pubblico ha 50-55 anni, ma il rimanente è intorno ai 30-35. Qualcosa vorrà pur dire».
Lei è arrivato in Italia nel 1963, insieme al gruppo che all'epoca si chiamava Shel Carson Combo.
«Cinquantacinque anni fa, mamma mia. Sì, eravamo il gruppo di accompagnamento di Colin Hicks. Mi ricordo che passammo le prime settimane qui senza incontrare nessuno che parlasse inglese. E provocammo dei tamponamenti».
In che senso?
«Potenza dei capelli lunghi. Quando arrivammo alla Stazione Centrale di Milano, nel maggio del 1963, provocammo due tamponamenti nel raggio di 150 metri».
Come Adriana Sklenarikova quando si affacciava dai cartelloni in reggiseno provocando: «Non so cucinare. E allora?». Però poi foste scritturati per un tour con Rita Pavone.
«Sì, e d'accordo con Teddy Reno, decidemmo di cambiare il nome in The Rokes, più semplice anche da ricordare».
Lei ha citato Sarà una bella società, titolo di uno spettacolo del 2008 da lei scritto con Edmondo Berselli, giornalista, saggista e indimenticato direttore editoriale del Mulino, ma che è anche un verso di Che colpa abbiamo noi.
«Credo che negli ultimi cinquant'anni sia capitato a ogni italiano di chiedersi Ma che colpa abbiamo noi davanti ai tanti problemi del Paese. L'importante è che non diventi una gara allo scaricabarile, perché invece dobbiamo tenere a mente che siamo tutti corresponsabili, con le nostre scelte e le nostre azioni, di quello che succede».
Lei è naturalizzato italiano, ma è nato 75 anni fa a Londra.
«Da una famiglia ebrea di russi emigrati tanto tempo prima. Ma non così tanto da aver rinunciato a una religione. O forse meglio, anche qui: a una memoria, a un modo di essere, di vedere il mondo e di guardare gli altri. Mia madre, mi sembra di riascoltarla ancora adesso, qualche volta cantava: "Hava nagila/Hava nagila/Hava nagila ve nis'mecha" (Rallegriamoci, ndr)».
Lei è sempre stato molto eclettico. Come attore, per esempio con una strepitosa caratterizzazione del monaco Zenone nel film Brancaleone alle crociate. Ma anche come autore, e cito un caso per tutti: E poi... di Mina.
«Che fu un primato di vendite, tra il 1973 e il 1974, rimanendo in classifica per 36 settimane. Superata soltanto da E tu di Claudio Baglioni. Aveva una struttura complessa, che i discografici giudicarono "improponibile" per via di due lunghe strofe, in un'atmosfera blues con tanto di armonica nella ripresa. Ma quando Mina la eseguì dal vivo nella prima puntata di Milleluci, lo show che conduceva insieme a Raffaella Carrà in prima serata il sabato sera su Rai 1, il brano era ancora una hit».
Nella scaletta del concerto non ci sono solo brani vostri, di lei e Vandelli. Eseguite anche alcune cover di altri artisti: 4 marzo 1943, California dreamin', Losing my religion, Auschwitz, Emozioni, Wild world, Let it be, fino a una trascinante You raise me up. Ma ho una curiosità: Bisogna saper perdere è anche un messaggio in chiave politica, a tutti quei leader che non vogliono farsene una ragione quando vengono sconfitti, magari sonoramente nelle urne?
«È un'interessante chiave di lettura, ma la canzone era una lirica d'amore. Su una scelta che fa felice qualcuno, ma che disperare qualcun altro. Bisogna saper perdere "perché non sempre si può vincere". In amore, come nella vita. Come insegna la filosofia zen, nessun ciclo è infinito».
Maurizio Vandelli: «I Rolling Stones mi fregarono un sitar. Calà una Gibson»
Vandelli, lei passa per il burbero e l'«incazzoso» della coppia.
«Tipo Jessica Rabbit quando dice "Io non sono cattiva, è che mi disegnano così"? In realtà, io sono più un tipo alla Roger».
Le credo anche perché nel suo blog sul suo sito personale ci sono almeno un paio di esercizi di stile satirici che non sono male. Uno riguarda la foto di un cartello di un parcheggio a Follonica, l'altro è sull'importanza delle virgole.
«Se scrivi "Ippodromo", ma fai precedere il termine dalla "P" di parcheggio, l'indicazione sembra alludere a una pratica che riguarda più gli uomini che i cavalli. Lo stesso dicasi per la collocazione impropria delle virgole, cui spesso non si fa caso, perché un conto è dire "Sono stufa di tutto questo, c...", che rimanda all'insofferenza, spesso legittima, di una donna; un altro è togliere la virgola, con l'effetto di rendere la frase più simile all'imprecazione di una pornostar».
C'è una leggenda che circola e riguarda lei, una sua fidanzata, Anita Pallenberg (modella legata negli anni Sessanta prima al pittore Mario Schifano, poi ad almeno due componenti dei Rolling Stones: Brian Jones e Keith Richards, da cui ebbe tre figli, tra cui Angie, per cui fu scritta l'omonima canzone del 1973) e la scomparsa di un sitar arrivato dall'India.
«Ero ospite di amici in una villetta sul Lungotevere delle Armi a Roma. Arrivano Brian Jones e Anita, che non vedevo dal nostro ultimo incontro, un anno prima. Lei fece quasi finta di non vedermi, mentre Brian si sedette sul divano accanto a me, logorroico, continuando a mettermi la mano sul ginocchio. Ebbi la sommaria impressione che forse lo sbandierato fidanzamento servisse a coprire qualcosa d'altro. Dopo di che, incrociando di nuovo Anita, l'aposotrofai con un "E allora?", cui lei rispose mentendo deliziosamente: "Credevo ti fossi dimenticato di me". Dopo una settimana tornarono in Inghilterra con uno dei due sitar che mi ero fatto recapitare direttamente dall'India, in una cassa di legno che sembrava una bara. Prelievo che ovviamente avvenne a mia insaputa».
Il nome Equipe 84 richiama inevitabilmente il successo di 29 settembre, di Mogol e Lucio Battisti, che non è solo il giorno di nascita di Silvio Berlusconi e Pier Luigi Bersani.
«È anche quello di Felice Gimondi, ma chissà perché nessuno se lo ricorda mai. Lucio Battisti me la fece sentire al pianoforte, negli uffici della Ricordi a Milano, dove sul muro ci eravamo firmati Maurelli Vandizio e Listi Battucio. E siccome all'inizio Lucio ripeteva "29 settembre, 29 settembre", a me venne in mente (non all'ultimo momento, in sala d'incisione, perché l'idea fu mia, anche se poi ho perso il conto di quanti l'hanno rivendicata) la voce del Giornale Radio. Io avrei voluto lo speaker vero, "orecchione Paladini" (Riccardo Paladini, ndr), ma poi ripiegammo su uno che aveva una voce simile. Il fascino della canzone comunque risiede in quella improvvisa apertura melodica, "poi all'improvviso lei sorrise..."».
Aveva un buon rapporto con Battisti.
«Era una persona simpatica e allegra, non scontrosa come lo dipingevano i pregiudizi. Un giorno mi guarda e mi fa: "A Maurì, te devo confessa' na cosa. Io ho imparato a cantare da te". Io mi sono inorgoglito e l'ho ringraziato del complimento. E lui: "Non me devi ringrazià. Perché ho corretto i tuoi errori"».
La copertina del disco fu opera di Mario Schifano.
«Sì. Noi siamo riflessi in una carta da parati dorata sui muri di casa mia, in via Bodoni, un villino liberty con i vetri colorati che ci aveva affittato una farmacista. La porta era sempre aperta, non solo metaforicamente: no, non si chiudeva proprio, e siccome la voce si era sparsa, era tutto un via vai».
Immagino. Tra i frequentatori ci fu perfino Jerry Calà, che le avrebbe rubato una chitarra, e che chitarra: una Gibson Les Paul.
«Non avrebbe. Ha. Me l'ha confessato lui. Ma venne davvero un mondo di gente, compresi, per dire, anche Allen Ginsberg, ieratico con quel suo barbone, Anita Pallenberg che nel frattempo si era messa con Richards, e più volte arrivò Jimi Hendrix. Bravura indiscussa, la sua, per carità, ma a me, oltre Hey Joe, non è che il suo repertorio mi accendesse. Per me la vera divinità in quel momento era Paul McCartney, perché io ero più per i giri armonici alla Beatles».
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Riduci
Immaginate una serata in cui risentire 29 settembre, Bang bang, Un angelo blu, Tutta mia la città. Ma anche Che colpa abbiamo noi, C'è una strana espressione nei tuoi occhi, Bisogna saper perdere, È la pioggia che va. Eseguite in coppia dai due leader di quei gruppi che furono The Rokes e l'Equipe 84: in ordine rigorosamente alfabetico, Shel Shapiro e Maurizio Vandelli. Hanno firmato un disco, Love and peace, che ha dato vita a un tour che in autunno ha fatto il pieno nei teatri d'Italia, e che per questo riprende a giorni (il 19 gennaio da La Spezia).Il loro primo incontro non fu in realtà tra i migliori. Esibendosi come gruppi nel mitico Piper di Roma, nel 1965, Vandelli propose a Shapiro di esibirsi insieme. «Non c'è nessuno che mi possa dire cosa devo o non devo fare», pare sia stata la replica in quel tipico italiano inglesizzato, di solito definito «alla Don Lurio». Acqua passata. Oggi in scena s'intendono alla meraviglia, anche se poi dietro le quinte battibeccano scherzosamente (o almeno così giurano entrambi) in continuazione. <div class="rebellt-item col2" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/nessuna-nostalgia-noi-due-siamo-ritorno-al-futuro-2625050881.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="shel-shapiro-l-amarcord-non-ci-interessa-ai-ragazzi-cantiamo-quella-di-domani-sara-una-bella-societa" data-post-id="2625050881" data-published-at="1765415649" data-use-pagination="False"> Shel Shapiro: «L'amarcord non ci interessa. Ai ragazzi cantiamo: quella di domani "Sarà una bella società"» Lo sa, Shapiro, che Vandelli ancora si ricorda di quella volta al Piper? Lui assicura di averle risposto a tono, mandandola eufemisticamente a quel paese?«Non mi ricordo della circostanza. Ma Maurizio evidentemente sì, deve essere ancora traumatizzato se a più di 50 anni di distanza ancora ne parla».Onestamente l'ho sfruculiato io. Nonostante tutto, però, vi siete ritrovati per questa operazione «amarcord».«Non sono d'accordo. La nostra non è un'iniziativa in nome della nostalgia. Che è un nobile sentimento, ma forse appartiene più agli occhi, alle orecchie, al cuore di chi viene ai nostri concerti. Che si rivede com'era un tempo, in un'epoca in cui tutto sembrava possibile, con quella spinta ideale che faceva dire a tutti noi: "Sarà una bella società" quella in cui vivremo. Per questo, preferisco pensare a un recupero della memoria, ma come ritorno al futuro, nel segno della speranza. Anche perché il 60% del nostro pubblico ha 50-55 anni, ma il rimanente è intorno ai 30-35. Qualcosa vorrà pur dire».Lei è arrivato in Italia nel 1963, insieme al gruppo che all'epoca si chiamava Shel Carson Combo.«Cinquantacinque anni fa, mamma mia. Sì, eravamo il gruppo di accompagnamento di Colin Hicks. Mi ricordo che passammo le prime settimane qui senza incontrare nessuno che parlasse inglese. E provocammo dei tamponamenti».In che senso?«Potenza dei capelli lunghi. Quando arrivammo alla Stazione Centrale di Milano, nel maggio del 1963, provocammo due tamponamenti nel raggio di 150 metri».Come Adriana Sklenarikova quando si affacciava dai cartelloni in reggiseno provocando: «Non so cucinare. E allora?». Però poi foste scritturati per un tour con Rita Pavone.«Sì, e d'accordo con Teddy Reno, decidemmo di cambiare il nome in The Rokes, più semplice anche da ricordare».Lei ha citato Sarà una bella società, titolo di uno spettacolo del 2008 da lei scritto con Edmondo Berselli, giornalista, saggista e indimenticato direttore editoriale del Mulino, ma che è anche un verso di Che colpa abbiamo noi.«Credo che negli ultimi cinquant'anni sia capitato a ogni italiano di chiedersi Ma che colpa abbiamo noi davanti ai tanti problemi del Paese. L'importante è che non diventi una gara allo scaricabarile, perché invece dobbiamo tenere a mente che siamo tutti corresponsabili, con le nostre scelte e le nostre azioni, di quello che succede».Lei è naturalizzato italiano, ma è nato 75 anni fa a Londra.«Da una famiglia ebrea di russi emigrati tanto tempo prima. Ma non così tanto da aver rinunciato a una religione. O forse meglio, anche qui: a una memoria, a un modo di essere, di vedere il mondo e di guardare gli altri. Mia madre, mi sembra di riascoltarla ancora adesso, qualche volta cantava: "Hava nagila/Hava nagila/Hava nagila ve nis'mecha" (Rallegriamoci, ndr)».Lei è sempre stato molto eclettico. Come attore, per esempio con una strepitosa caratterizzazione del monaco Zenone nel film Brancaleone alle crociate. Ma anche come autore, e cito un caso per tutti: E poi... di Mina.«Che fu un primato di vendite, tra il 1973 e il 1974, rimanendo in classifica per 36 settimane. Superata soltanto da E tu di Claudio Baglioni. Aveva una struttura complessa, che i discografici giudicarono "improponibile" per via di due lunghe strofe, in un'atmosfera blues con tanto di armonica nella ripresa. Ma quando Mina la eseguì dal vivo nella prima puntata di Milleluci, lo show che conduceva insieme a Raffaella Carrà in prima serata il sabato sera su Rai 1, il brano era ancora una hit».Nella scaletta del concerto non ci sono solo brani vostri, di lei e Vandelli. Eseguite anche alcune cover di altri artisti: 4 marzo 1943, California dreamin', Losing my religion, Auschwitz, Emozioni, Wild world, Let it be, fino a una trascinante You raise me up. Ma ho una curiosità: Bisogna saper perdere è anche un messaggio in chiave politica, a tutti quei leader che non vogliono farsene una ragione quando vengono sconfitti, magari sonoramente nelle urne?«È un'interessante chiave di lettura, ma la canzone era una lirica d'amore. Su una scelta che fa felice qualcuno, ma che disperare qualcun altro. Bisogna saper perdere "perché non sempre si può vincere". In amore, come nella vita. Come insegna la filosofia zen, nessun ciclo è infinito». <div class="rebellt-item col2" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/nessuna-nostalgia-noi-due-siamo-ritorno-al-futuro-2625050881.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="maurizio-vandelli-i-rolling-stones-mi-fregarono-un-sitar-cala-una-gibson" data-post-id="2625050881" data-published-at="1765415649" data-use-pagination="False"> Maurizio Vandelli: «I Rolling Stones mi fregarono un sitar. Calà una Gibson» Vandelli, lei passa per il burbero e l'«incazzoso» della coppia.«Tipo Jessica Rabbit quando dice "Io non sono cattiva, è che mi disegnano così"? In realtà, io sono più un tipo alla Roger».Le credo anche perché nel suo blog sul suo sito personale ci sono almeno un paio di esercizi di stile satirici che non sono male. Uno riguarda la foto di un cartello di un parcheggio a Follonica, l'altro è sull'importanza delle virgole.«Se scrivi "Ippodromo", ma fai precedere il termine dalla "P" di parcheggio, l'indicazione sembra alludere a una pratica che riguarda più gli uomini che i cavalli. Lo stesso dicasi per la collocazione impropria delle virgole, cui spesso non si fa caso, perché un conto è dire "Sono stufa di tutto questo, c...", che rimanda all'insofferenza, spesso legittima, di una donna; un altro è togliere la virgola, con l'effetto di rendere la frase più simile all'imprecazione di una pornostar».C'è una leggenda che circola e riguarda lei, una sua fidanzata, Anita Pallenberg (modella legata negli anni Sessanta prima al pittore Mario Schifano, poi ad almeno due componenti dei Rolling Stones: Brian Jones e Keith Richards, da cui ebbe tre figli, tra cui Angie, per cui fu scritta l'omonima canzone del 1973) e la scomparsa di un sitar arrivato dall'India.«Ero ospite di amici in una villetta sul Lungotevere delle Armi a Roma. Arrivano Brian Jones e Anita, che non vedevo dal nostro ultimo incontro, un anno prima. Lei fece quasi finta di non vedermi, mentre Brian si sedette sul divano accanto a me, logorroico, continuando a mettermi la mano sul ginocchio. Ebbi la sommaria impressione che forse lo sbandierato fidanzamento servisse a coprire qualcosa d'altro. Dopo di che, incrociando di nuovo Anita, l'aposotrofai con un "E allora?", cui lei rispose mentendo deliziosamente: "Credevo ti fossi dimenticato di me". Dopo una settimana tornarono in Inghilterra con uno dei due sitar che mi ero fatto recapitare direttamente dall'India, in una cassa di legno che sembrava una bara. Prelievo che ovviamente avvenne a mia insaputa».Il nome Equipe 84 richiama inevitabilmente il successo di 29 settembre, di Mogol e Lucio Battisti, che non è solo il giorno di nascita di Silvio Berlusconi e Pier Luigi Bersani.«È anche quello di Felice Gimondi, ma chissà perché nessuno se lo ricorda mai. Lucio Battisti me la fece sentire al pianoforte, negli uffici della Ricordi a Milano, dove sul muro ci eravamo firmati Maurelli Vandizio e Listi Battucio. E siccome all'inizio Lucio ripeteva "29 settembre, 29 settembre", a me venne in mente (non all'ultimo momento, in sala d'incisione, perché l'idea fu mia, anche se poi ho perso il conto di quanti l'hanno rivendicata) la voce del Giornale Radio. Io avrei voluto lo speaker vero, "orecchione Paladini" (Riccardo Paladini, ndr), ma poi ripiegammo su uno che aveva una voce simile. Il fascino della canzone comunque risiede in quella improvvisa apertura melodica, "poi all'improvviso lei sorrise..."».Aveva un buon rapporto con Battisti.«Era una persona simpatica e allegra, non scontrosa come lo dipingevano i pregiudizi. Un giorno mi guarda e mi fa: "A Maurì, te devo confessa' na cosa. Io ho imparato a cantare da te". Io mi sono inorgoglito e l'ho ringraziato del complimento. E lui: "Non me devi ringrazià. Perché ho corretto i tuoi errori"».La copertina del disco fu opera di Mario Schifano.«Sì. Noi siamo riflessi in una carta da parati dorata sui muri di casa mia, in via Bodoni, un villino liberty con i vetri colorati che ci aveva affittato una farmacista. La porta era sempre aperta, non solo metaforicamente: no, non si chiudeva proprio, e siccome la voce si era sparsa, era tutto un via vai».Immagino. Tra i frequentatori ci fu perfino Jerry Calà, che le avrebbe rubato una chitarra, e che chitarra: una Gibson Les Paul.«Non avrebbe. Ha. Me l'ha confessato lui. Ma venne davvero un mondo di gente, compresi, per dire, anche Allen Ginsberg, ieratico con quel suo barbone, Anita Pallenberg che nel frattempo si era messa con Richards, e più volte arrivò Jimi Hendrix. Bravura indiscussa, la sua, per carità, ma a me, oltre Hey Joe, non è che il suo repertorio mi accendesse. Per me la vera divinità in quel momento era Paul McCartney, perché io ero più per i giri armonici alla Beatles».
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Riduci
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Riduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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