2019-01-04
«Nessuna nostalgia
. Noi due siamo “Ritorno al futuro”»
Immaginate una serata in cui risentire 29 settembre, Bang bang, Un angelo blu, Tutta mia la città. Ma anche Che colpa abbiamo noi, C'è una strana espressione nei tuoi occhi, Bisogna saper perdere, È la pioggia che va. Eseguite in coppia dai due leader di quei gruppi che furono The Rokes e l'Equipe 84: in ordine rigorosamente alfabetico, Shel Shapiro e Maurizio Vandelli. Hanno firmato un disco, Love and peace, che ha dato vita a un tour che in autunno ha fatto il pieno nei teatri d'Italia, e che per questo riprende a giorni (il 19 gennaio da La Spezia).Il loro primo incontro non fu in realtà tra i migliori. Esibendosi come gruppi nel mitico Piper di Roma, nel 1965, Vandelli propose a Shapiro di esibirsi insieme. «Non c'è nessuno che mi possa dire cosa devo o non devo fare», pare sia stata la replica in quel tipico italiano inglesizzato, di solito definito «alla Don Lurio». Acqua passata. Oggi in scena s'intendono alla meraviglia, anche se poi dietro le quinte battibeccano scherzosamente (o almeno così giurano entrambi) in continuazione. <div class="rebellt-item col2" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/nessuna-nostalgia-noi-due-siamo-ritorno-al-futuro-2625050881.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="shel-shapiro-l-amarcord-non-ci-interessa-ai-ragazzi-cantiamo-quella-di-domani-sara-una-bella-societa" data-post-id="2625050881" data-published-at="1758065564" data-use-pagination="False"> Shel Shapiro: «L'amarcord non ci interessa. Ai ragazzi cantiamo: quella di domani "Sarà una bella società"» Lo sa, Shapiro, che Vandelli ancora si ricorda di quella volta al Piper? Lui assicura di averle risposto a tono, mandandola eufemisticamente a quel paese?«Non mi ricordo della circostanza. Ma Maurizio evidentemente sì, deve essere ancora traumatizzato se a più di 50 anni di distanza ancora ne parla».Onestamente l'ho sfruculiato io. Nonostante tutto, però, vi siete ritrovati per questa operazione «amarcord».«Non sono d'accordo. La nostra non è un'iniziativa in nome della nostalgia. Che è un nobile sentimento, ma forse appartiene più agli occhi, alle orecchie, al cuore di chi viene ai nostri concerti. Che si rivede com'era un tempo, in un'epoca in cui tutto sembrava possibile, con quella spinta ideale che faceva dire a tutti noi: "Sarà una bella società" quella in cui vivremo. Per questo, preferisco pensare a un recupero della memoria, ma come ritorno al futuro, nel segno della speranza. Anche perché il 60% del nostro pubblico ha 50-55 anni, ma il rimanente è intorno ai 30-35. Qualcosa vorrà pur dire».Lei è arrivato in Italia nel 1963, insieme al gruppo che all'epoca si chiamava Shel Carson Combo.«Cinquantacinque anni fa, mamma mia. Sì, eravamo il gruppo di accompagnamento di Colin Hicks. Mi ricordo che passammo le prime settimane qui senza incontrare nessuno che parlasse inglese. E provocammo dei tamponamenti».In che senso?«Potenza dei capelli lunghi. Quando arrivammo alla Stazione Centrale di Milano, nel maggio del 1963, provocammo due tamponamenti nel raggio di 150 metri».Come Adriana Sklenarikova quando si affacciava dai cartelloni in reggiseno provocando: «Non so cucinare. E allora?». Però poi foste scritturati per un tour con Rita Pavone.«Sì, e d'accordo con Teddy Reno, decidemmo di cambiare il nome in The Rokes, più semplice anche da ricordare».Lei ha citato Sarà una bella società, titolo di uno spettacolo del 2008 da lei scritto con Edmondo Berselli, giornalista, saggista e indimenticato direttore editoriale del Mulino, ma che è anche un verso di Che colpa abbiamo noi.«Credo che negli ultimi cinquant'anni sia capitato a ogni italiano di chiedersi Ma che colpa abbiamo noi davanti ai tanti problemi del Paese. L'importante è che non diventi una gara allo scaricabarile, perché invece dobbiamo tenere a mente che siamo tutti corresponsabili, con le nostre scelte e le nostre azioni, di quello che succede».Lei è naturalizzato italiano, ma è nato 75 anni fa a Londra.«Da una famiglia ebrea di russi emigrati tanto tempo prima. Ma non così tanto da aver rinunciato a una religione. O forse meglio, anche qui: a una memoria, a un modo di essere, di vedere il mondo e di guardare gli altri. Mia madre, mi sembra di riascoltarla ancora adesso, qualche volta cantava: "Hava nagila/Hava nagila/Hava nagila ve nis'mecha" (Rallegriamoci, ndr)».Lei è sempre stato molto eclettico. Come attore, per esempio con una strepitosa caratterizzazione del monaco Zenone nel film Brancaleone alle crociate. Ma anche come autore, e cito un caso per tutti: E poi... di Mina.«Che fu un primato di vendite, tra il 1973 e il 1974, rimanendo in classifica per 36 settimane. Superata soltanto da E tu di Claudio Baglioni. Aveva una struttura complessa, che i discografici giudicarono "improponibile" per via di due lunghe strofe, in un'atmosfera blues con tanto di armonica nella ripresa. Ma quando Mina la eseguì dal vivo nella prima puntata di Milleluci, lo show che conduceva insieme a Raffaella Carrà in prima serata il sabato sera su Rai 1, il brano era ancora una hit».Nella scaletta del concerto non ci sono solo brani vostri, di lei e Vandelli. Eseguite anche alcune cover di altri artisti: 4 marzo 1943, California dreamin', Losing my religion, Auschwitz, Emozioni, Wild world, Let it be, fino a una trascinante You raise me up. Ma ho una curiosità: Bisogna saper perdere è anche un messaggio in chiave politica, a tutti quei leader che non vogliono farsene una ragione quando vengono sconfitti, magari sonoramente nelle urne?«È un'interessante chiave di lettura, ma la canzone era una lirica d'amore. Su una scelta che fa felice qualcuno, ma che disperare qualcun altro. Bisogna saper perdere "perché non sempre si può vincere". In amore, come nella vita. Come insegna la filosofia zen, nessun ciclo è infinito». <div class="rebellt-item col2" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/nessuna-nostalgia-noi-due-siamo-ritorno-al-futuro-2625050881.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="maurizio-vandelli-i-rolling-stones-mi-fregarono-un-sitar-cala-una-gibson" data-post-id="2625050881" data-published-at="1758065564" data-use-pagination="False"> Maurizio Vandelli: «I Rolling Stones mi fregarono un sitar. Calà una Gibson» Vandelli, lei passa per il burbero e l'«incazzoso» della coppia.«Tipo Jessica Rabbit quando dice "Io non sono cattiva, è che mi disegnano così"? In realtà, io sono più un tipo alla Roger».Le credo anche perché nel suo blog sul suo sito personale ci sono almeno un paio di esercizi di stile satirici che non sono male. Uno riguarda la foto di un cartello di un parcheggio a Follonica, l'altro è sull'importanza delle virgole.«Se scrivi "Ippodromo", ma fai precedere il termine dalla "P" di parcheggio, l'indicazione sembra alludere a una pratica che riguarda più gli uomini che i cavalli. Lo stesso dicasi per la collocazione impropria delle virgole, cui spesso non si fa caso, perché un conto è dire "Sono stufa di tutto questo, c...", che rimanda all'insofferenza, spesso legittima, di una donna; un altro è togliere la virgola, con l'effetto di rendere la frase più simile all'imprecazione di una pornostar».C'è una leggenda che circola e riguarda lei, una sua fidanzata, Anita Pallenberg (modella legata negli anni Sessanta prima al pittore Mario Schifano, poi ad almeno due componenti dei Rolling Stones: Brian Jones e Keith Richards, da cui ebbe tre figli, tra cui Angie, per cui fu scritta l'omonima canzone del 1973) e la scomparsa di un sitar arrivato dall'India.«Ero ospite di amici in una villetta sul Lungotevere delle Armi a Roma. Arrivano Brian Jones e Anita, che non vedevo dal nostro ultimo incontro, un anno prima. Lei fece quasi finta di non vedermi, mentre Brian si sedette sul divano accanto a me, logorroico, continuando a mettermi la mano sul ginocchio. Ebbi la sommaria impressione che forse lo sbandierato fidanzamento servisse a coprire qualcosa d'altro. Dopo di che, incrociando di nuovo Anita, l'aposotrofai con un "E allora?", cui lei rispose mentendo deliziosamente: "Credevo ti fossi dimenticato di me". Dopo una settimana tornarono in Inghilterra con uno dei due sitar che mi ero fatto recapitare direttamente dall'India, in una cassa di legno che sembrava una bara. Prelievo che ovviamente avvenne a mia insaputa».Il nome Equipe 84 richiama inevitabilmente il successo di 29 settembre, di Mogol e Lucio Battisti, che non è solo il giorno di nascita di Silvio Berlusconi e Pier Luigi Bersani.«È anche quello di Felice Gimondi, ma chissà perché nessuno se lo ricorda mai. Lucio Battisti me la fece sentire al pianoforte, negli uffici della Ricordi a Milano, dove sul muro ci eravamo firmati Maurelli Vandizio e Listi Battucio. E siccome all'inizio Lucio ripeteva "29 settembre, 29 settembre", a me venne in mente (non all'ultimo momento, in sala d'incisione, perché l'idea fu mia, anche se poi ho perso il conto di quanti l'hanno rivendicata) la voce del Giornale Radio. Io avrei voluto lo speaker vero, "orecchione Paladini" (Riccardo Paladini, ndr), ma poi ripiegammo su uno che aveva una voce simile. Il fascino della canzone comunque risiede in quella improvvisa apertura melodica, "poi all'improvviso lei sorrise..."».Aveva un buon rapporto con Battisti.«Era una persona simpatica e allegra, non scontrosa come lo dipingevano i pregiudizi. Un giorno mi guarda e mi fa: "A Maurì, te devo confessa' na cosa. Io ho imparato a cantare da te". Io mi sono inorgoglito e l'ho ringraziato del complimento. E lui: "Non me devi ringrazià. Perché ho corretto i tuoi errori"».La copertina del disco fu opera di Mario Schifano.«Sì. Noi siamo riflessi in una carta da parati dorata sui muri di casa mia, in via Bodoni, un villino liberty con i vetri colorati che ci aveva affittato una farmacista. La porta era sempre aperta, non solo metaforicamente: no, non si chiudeva proprio, e siccome la voce si era sparsa, era tutto un via vai».Immagino. Tra i frequentatori ci fu perfino Jerry Calà, che le avrebbe rubato una chitarra, e che chitarra: una Gibson Les Paul.«Non avrebbe. Ha. Me l'ha confessato lui. Ma venne davvero un mondo di gente, compresi, per dire, anche Allen Ginsberg, ieratico con quel suo barbone, Anita Pallenberg che nel frattempo si era messa con Richards, e più volte arrivò Jimi Hendrix. Bravura indiscussa, la sua, per carità, ma a me, oltre Hey Joe, non è che il suo repertorio mi accendesse. Per me la vera divinità in quel momento era Paul McCartney, perché io ero più per i giri armonici alla Beatles».